I miei film senza tempo 5 |
Le cose buone richiedono tempo, quelle fantastiche avvengono in un lampo.
N.B. Il testo delle recensioni in grigio chiaro svela il finale del film, per cui si consiglia, a chi non lo volesse conoscere anticipatamente, di non leggerlo prima della visione.
I miei film senza tempo (quelli che andrebbero rivisti di tanto in tanto o che hanno comunque lasciato un segno indelebile nella mia memoria e sono tanti, mi limiterò ad aggiungerne qualcuno saltuariamente):
"Al di là delle nuvole", di Michelangelo Antonioni, con John Malkovich, Fanny Ardant, Kim Rossi Stuart, Jean Reno, Sophie Marceau, Irène Jacob, Veronica Lazar, Sophie Semin, Peter Weller, Chiara Caselli, Italia 1995.
"Incontri ravvicinati del terzo tipo - Close Encounters of the Third Kind", Steven Spielberg, François Truffaut, Richard Dreyfuss, Bob Balaban, Melinda Dillon, Teri Garr, Cary Guffey, Shawn Bishop, Adrienne Campbell, Justin Dreyfuss, Lance Henriksen, Alexander Lockwood, Carl Weathers, Robert Blossoms, USA 1977.
Roy Neary è un tecnico riparatore dell'alta tensione chiamato a tarda notte a controllare un guasto. Lungo il percorso vede un UFO librarsi in aria e allontanarsi in fretta. Sconvolto dall'incontro ravvicinato, Roy rischia di investire Barry Guiller, un bambino che è inspiegabilmente scappato di casa, inseguito dalla madre. Da quel momento, la loro vita gira intorno ad un'unica cosa: capire dove e quando avranno un'altra occasione per incontrare gli alieni.
"Will Hunting genio ribelle. Good Will Hunting", Gus Van Sant, Robin Williams, Minnie Driver, Matt Damon, Ben Affleck, Stellan Skarsgård, Casey Affleck, USA 1997.
...dal film (per gentile concessione di Mattia - che ringrazio):
WILL: Ci tocca eh?
"Risvegli Awakenings", Penny Marshall, con Robert De Niro, Robin Williams, Julie Kavner, Ruth Nelson, John Heard, Penelope Ann Miller, Alice Drummond, Judith Malina, Barton Heyman Usa 1990.
Robert de niro (nomination all'oscar nel 1990 come miglior attore) e robin williams, insieme in questa storia assolutamente straordinaria. williams È il timido dr. malcom sayer che utilizza un farmaco sperimentale per "risvegliare" le vittime di una rara malattia. leonard e' il primo tra i pazienti che sperimentano il nuovo antidoto e la sua sara' una vera e propria rinascita. medico e paziente intaprendono un cammino di amicizia,emozioni e riscoperta dei piaceri della vita.
"Sybil", Daniel Petrie, Sally Field, Joanne Woodward, Brad Davis, Martine Bartlett, Charles Lane, Jane Hoffman, Usa 1976.
Anche se tutti i grandi personaggi della letteratura sono dei casi clinici, le vicissitudini degli ammalati veri e propri rimangono in genere nell’ambito delle pubblicazioni mediche. Ma certi pazienti freudiani come l’«Uomo dei topi» e il «Presidente Schreber» hanno ormai fama universale: su questo modello, forse facendo qualche passo troppo in là nella direzione del consumismo, Flora Reta Schreiber ha raccontato nel suo libro Sybil (Mondadori) il caso di una ragazza afflitta da una forma di schizofrenia che la portò a dividersi in ben sedici personaggi. Intrepidamente analizzata dalla dottoressa Cornelia B. Wilbur, dopo una cura lunga e drammatica, a 57 anni Sybil è ormai un diciassettesimo personaggio che amalgama tutti gli altri in una chiave di salute mentale. Se il libro è prodigo di concessioni al sensazionalismo, il film (apparso negli USA solo in TV) è addirittura una sceneggiata. Nella parte della dottoressa, Joanne Woodward è una specie di investigatore che non si limita al rapporto con l’ammalata ma va in giro a cercare le prove delle reali nefandezze subite da SalIy Field nel corso dell’infanzia, quando la madre la legava al tavolo di cucina per praticarle clisteri e altro. Tuttavia qualcosa di intensamente e oscuramente drammatico sopravvive, pur in clima da Grand Guignol, nell’interpretazione generosa di due attrici fra le migliori del cinema d’oggi, non a caso l’una e l’altra premiate in altre occasioni con l’Oscar.
"L'attimo fuggente - DEAD POETS SOCIETY", Peter Weir, con: Robin Williams, Robert Sean Leonard, Ethan Hawke, Josh Charles, Gale Hansen, Usa 1989.
Girato nel Delaware e campione di incassi del 1989 vanta la partecipazione di grandi attori, a parte il grande Robin Williams compaiono dietro i banchi Ethan Hawke e Robert Sean Leonard, conosciuto principalmente a Broadway. Questo film è stato etichettato spesso e volentieri come un ritratto di conflitti genarazionali; una schematizzazione che non piacerebbe a John Keating, come probabilmente non piacerebbe al regista Peter Weir e allo sceneggiatore Tom Schulman, che hanno voluto raccontare, con L'attimo fuggente, l'eccezionalità e l'unicità dell'individuo, la potenza dell'espressione poetica, l'importanza di "rendere la propria vita straordinaria"; che hanno affiancato all'irresistibile Keating (un eccezionale Robin Williams), nei ragazzi, una serie di personaggi credibili e luminosi, i cui giovani volti e la cui recitazione spontanea hanno donato a questa pellicola fervore e una meravigliosa umanità. Questi tratti, accanto alla maestria registica di Weir, ne fanno un film difficile da dimenticare, soprattutto per chi lo ha visto negli anni impetuosi e dolenti dell'adolescenza.
Ho raccolto queste riflessioni di alcuni alunni a proposito del film "L'attimo fuggente", di cui ho riportato in queste pagine una recensione.
"SUCCHIA LA VITA FINO AL MIDOLLO": questa è la frase che più mi ha colpito de "L'ATTIMO FUGGENTE". Sì, perché la vita, la sola che si ha, vale la pena di essere vissuta, assaporandone sino all'ultimo goccio la gioia e l'amarezza, conoscendone la magia e capendone l'importanza. A mio parere, ciò non è tuttavia emerso con evidenza in questo film. Il professore Keating trasmette ai ragazzi valori importanti (la passione per la poesia, ad esempio), osanna il motto "carpe diem" e raccomanda loro di essere sempre protagonisti della propria vita di rifiutare il conformismo e di non farsi omogeneizzare dalla società come amebe, ma di reagire poiché i pensieri e le parole, prima o poi, cambiano il mondo. Nonostante questo egli non riesce ad insegnargli a non arrendersi dinanzi alle difficoltà, a lottare con tenacia e caparbietà; tanto che la conclusione a cui alcuni suoi studenti giungono, è che non ha senso vivere se non si trovano o non si possono realizzare i propri sogni.
Credo che il film "L'attimo fuggente'' possa offrire diversi spunti di riflessione. Il più evidente è legato alla frase che il protagonista ripete sovente ai ragazzi: Carpe diem, cogli l'attimo. È un invito a non lasciarsi sfuggire le occasioni, che potrebbero non ripresentarsi, a impegnarsi per trarre insegnamenti dalle esperienze vissute. Ci sono film che hanno scritto realmente la storia dei nostri tempi, film che si ricordano anno dopo anno, che hanno lasciato un segno, una parola, una frase, un motto, una filosofia di vita. "Carpe diem": anche solo per un’ora è stato ed è fortunatamente il grido di ragazzi di tutto il mondo che da "l’Attimo Fuggente" hanno tratto ispirazione.
"Qualcuno volò sul nido del cuculo", Milos Forman, dal romanzo di Ken Kesey, con Jack Nicholson, USA 1975. Condannato ai lavori forzati, Randall McMurphy finisce per essere dichiarato insano di mente e quindi internato in un ospedale psichiatrico. Qui giunto, si rende conto che i pazzi non sono poi molto più pazzi di tanta gente che gira libera per strada, ma i suoi tentativi di "normalizzare" la vita dei malati si scontrano con la calma metodica della capo-infermiera Ratched, per nulla disposta a lasciare che quell'uomo cambi il Sistema. Uno dei più bei film mai realizzati. Adattato per lo schermo da Lawrence Hauber e Bo Goldman a partire dal romanzo di Ken Kesey già trasposto sul palcoscenico da Dale Wasserman, "Qualcuno volò sul nido del cuculo" è un film terrificante nel modo in cui rappresenta lo spirito di ribellione che si viene a creare in un uomo già problematico di suo, quando messo all'interno di un ambiente spersonalizzante come quello di un manicomio. Mantenendo le stesse idee del libro ma presentandole in modo meno schematico, più cinematografico, il film riesce ad essere attuale pur ambientando la storia nel 1963 (un anno dopo la pubblicazione del romanzo): Forman è stato bravo a non farsi influenzare dall'atmosfera a metà strada tra il poetico ed il paranoico che trasuda dalle pagine di quella che è diventata quasi una Bibbia atea per la generazione che ha manifestato contro la guerra in Vietnam. Jack Nicholson offre la miglior interpretazione della sua carriera - sì, anche meglio di "Shining" - e per nostra fortuna è circondato da attori in stato di grazia. Ma al di là delle ottime prove di Louise Fletcher (Oscar), Brad Dourif (nomination) e Will Sampson, è Nicholson il centro del film. O meglio: è il personaggio di Nicholson ad essere il centro dell'universo rappresentato in questo film, un universo in cui lo spirito umano sembra essersi definitivamente arreso, dove gli sforzi di un singolo rimbalzano contro l'indifferenza di chi si cerca di aiutare. Ma "Qualcuno volò sul nido del cuculo" non è solo una parabola anticonformista, è un viaggio nella paura più umana di tutte: quella che i nostri difetti vengano ingigantiti agli occhi degli altri, e che questo ci renda degli emarginati. Emozionante come poche altre pellicole nella storia del cinema.
"Blade Runner", Ridley Scott, tratto da un testo di Philip Dick, con Harrison Ford, USA 1982. In una Los Angeles piovosa e sovrappopolata, il poliziotto Deckard (Harrison Ford), dell'unità Blade Runner, viene richiamato in servizio. La sua specialità è l'eliminazione di esemplari insubordinati di "replicanti", androidi destinati al lavoro nelle colonie spaziali. Quattro di loro, Roy Batty, Leon, Zora e Pris, hanno raggiunto la Terra per tentare di infiltrarsi nelle industrie che li fabbricano. I replicanti sono identici agli esseri umani, tranne che per la durata limitata della loro esistenza e per l'apparente incapacità di provare sentimenti. Proprio sulla registrazione delle reazioni emotive si basa il test Voigt - Kampff, con cui Deckard indentifica in Rachel (Sean Young), collaboratrice dell'industriale, una replicante sperimentale, inconsapevole della propria vera natura. Deckard si pone sulle tracce di replicanti da "ritirare", eliminando per prima la spogliarellista Zora (Joanna Cassidy). È però Rachel a salvarlo da Leon, mentre Pres (Daryl Hannah) si installa a casa di un ricercatore per convincerlo a portare lei e Batty (Rutger Hauer) dall'industriale. L'incontro non ha esito felice: i due replicanti apprendono che non c'è modo di prolungare la loro esistenza. Deckard li raggiunge nel loro nascondiglio e, "ritirata" Pris, affronta Batty in un duello spietato. Salvato in extremis dal suo stesso avversario un attimo prima che questi muoia, Deckard recupera Rachel e fugge con lei lontano dalla città. Abile fusione di poliziesco e fantascienza, Blade Runner vive un rapporto di simbiosi con Il cacciatore di androidi, romanzo di Philip K. Dick da cui è tratto. Anche se il film risulta più coerente ed equilibrato, alcuni riferimenti sono apprezzabili solo leggendo il libro: i dettagli del test o la descrizione di un mondo in cui le riproduzioni artificiali degli animali, quasi estinti, diventano status symbol. Tuttavia il film descrive perfettamente una società multietnica e tratteggia perfettamente i diversi personaggi, tutti pervasi dall'amarezza tipica dell'opera di Dick: dallo scienziato colpito da invecchiamento precoce che vive in una casa piena di giocattoli, ai replicanti afflitti da angosce esistenziali, dalla fragile e sensuale Rachel alle prese con la propria identità sconosciuta al detective anni Quaranta trasferito nel futuro. Altrettanto efficaci sono gli effetti speciali di Douglas Trumbull e la colonna sonora di Vangelis. Blade Runner divenne rapidamente un cult-movie, cosa che anni dopo permise a Ridley Scott di distribuirne la versione "originale" (Blade Runner: the Director's Cut). Meno ottimistica nel finale dell'edizione nota al pubblico, essa è priva della narrazione fuori campo del protagonista e della ripresa aerea conclusiva, aggiunta per volontà del produttore, utilizzando ritagli della sequenza iniziale di Shining.
"Linea Mortale", Joel Schumacher, con Kiefer Sutherland (Nelson), Julia Roberts (Rachel), Kevin Bacon (David), William Baldwin (Joe), Oliver Platt (Randy), Patricia Belcher, Hope Davis, Miguel Delgado, USA 1990. Nelson, Rachel, David Labraccio, Joe e Steckie, brillanti studenti in medicina e amici, sono ossessivamente affascinati dal mistero della morte e vogliono sapere cosa c'e' oltre il mondo visibile. Perciò decidono di sperimentare su se stessi il passaggio fra la vita e la morte, unendo le proprie notevoli capacità scientifiche. Nelson, il più entusiasta, si sottopone alla prova per primo, dando agli amici precise istruzioni su come condurre il pericoloso esperimento. I colleghi gli fanno dunque arrestare il battito cardiaco per breve tempo, ed essendosi ridotto l'encefalogramma ad una linea piatta, Nelson è ufficialmente morto, finché essi non lo riportano in vita con gli opportuni interventi. Durante quei pochi minuti, dopo immagini confuse, egli ha chiaramente rivissuto un doloroso episodio della sua infanzia, quando aveva involontariamente provocato la morte di un bambino, che sempre perseguitava, Billy Mahoney. Superato l'emozionante ritorno alla vita, Nelson nasconde agli amici sia il turbamento provato durante l'esperimento, sia il fatto che in seguito il fantasma di Billy gli appare spesso, e lo assale furiosamente, ferendolo. Cosicché, credendo che tutto sia andato in modo positivo, i colleghi si sottopongono uno dopo l'altro alla prova, avendo poi esperienze analoghe. Joe che, pur amando la fidanzata, ha molti incontri erotici con varie donne, e li registra con una telecamera nascosta, è ora tormentato dalle immagini di quelle ragazze; David soffre invece per i maltrattamenti che infliggeva alle elementari ad una povera negretta, Winnie. Rachel, infine, e' angosciata nel rivedere l'amato padre, eroe di guerra, che si suicidò quando lei aveva 5 anni, perché, entrando in una stanza, che le era vietata, lo aveva scoperto a drogarsi. Quanto a Steckie, egli rinuncia alla prova, perché gli altri quattro hanno ormai rivelato il loro attuale tormento. Ora tutti cercano d'ottenere il perdono per il male fatto. David viene facilmente perdonato da Winnie, ormai sposa e madre serena, ma Joe è abbandonato dalla fidanzata che gli rimprovera il suo crudele disprezzo per tante ragazze, e Nelson si salva a stento dal morire sul serio, ma poi viene perdonato da Billy. Infine Rachel, ritrovata la dolcezza della memoria del padre, inizia un serio rapporto amoroso con David.
“Il grande freddo” The Big Chill, Lawrence Kasdan, con Tom Berenger, Glenn Close, Jeff Goldblum, William Hurt, Kevin Kline, Mary Kay Place, Meg Tilly, JoBeth Williams, Don Galloway, James Gillis, Ken Place, Jon Kasdan, Ira Stiltner, Jake Kasdan, Muriel Moore, Meg Kasdan, Patricia Paul, USA 1983. Sette ex studenti contestatori degli ultimi anni '60 all'università del Michigan si ritrovano ai funerali di un amico e passano il weekend insieme. Ricordano i vecchi tempi, parlano del presente e del futuro. È la seconda regia di Lawrence Kasdan; "Il grande freddo" è diventato un genere cinematografico a sé. Certo non mancavano esempi di intrecci simili, nel cinema del periodo, ma questo ne è l'esempio più fulgido, probabilmente il più riuscito. Ad alcuni, il film potrà sembrare un esercizio di stile - ottimamente riuscito ma pur sempre uno sterile esercizio di stile. A mio avviso in realtà, si tratta di un magnifico affresco che non vuol far morale ma semplicemente mostrare la strada percorsa da una generazione, che non vuole suggerirci risposte ma solo ricordarci le domande. Ha lanciato un'intera generazione di attori e tolto la polvere dai dischi della Motown.Il ruolo di alex, le cui scene sono state poi tagliate, è interpretato da Kevin Costner. l'unica scena rimasta, dove si vede un corpo mentre viene vestito, è all'inizio del film. Nomination all'Oscar per il film, la sceneggiatura di Kasdan e Benedek e l'interpretazione in un ruolo di supporto di Glenn Close. È diventato un film di culto per gli ex sessantottini di mezza Europa. Sapiente e un po' ruffiano, ritratto collettivo di una generazione disillusa, divertente e amaro, sostenuto da un dialogo scoppiettante e da un'ottima squadra di attori, sebbene “troppo scritto”. John Sayles è più autentico e originale sullo stesso tema in The Return of the Secaucus Seven (1980). Scritto da L. Kasdan con Barbara Benedek. Per i funerali del marito Alex - che si è inesplicabilmente suicidato (Kevin Costner) - la moglie Chloe pensa di convocare nella villa del cognato Harold e di sua moglie Karen un gruppo di comuni ex compagni di "college", da lungo tempo perduti di vista. Sono passati una ventina di anni, ma l'incontro, pur triste, pare a tutti l'occasione buona per ristabilire rapporti lontani e lontani ricordi di vita giovanile. Così sette amici, vecchi compagni d'università, si ritrovano dopo anni dall'ultimo incontro per presenziare al funerale di uno del loro gruppo. Decidono di passare il week-end insieme per ricordare i "bei vecchi tempi" e capire che ne è stato della loro verve contestatrice, tra guerre e compromessi, tra matrimoni e suicidi. Ognuno parla di sé, dei propri impegni presenti e futuri e, in definitiva, della propria vita, sempre richiamandosi a momenti lieti, o meno, del tempo andato. Una siffatta memoria e lo stesso riannodare fili e filamenti di sogni e di entusiasmi sembrano ricreare prontamente fra i presenti l'antica solidarietà. Così Sarah, stanca del marito, sarebbe anche disposta a ricominciare con Sam al quale si dà, solo che lui la volesse. Così Meg donna delusa e sconfitta desidera un figlio e lo avrà da Harold, mentre Chloe spera di trovare in Nick, reduce menomato dal Vietnam, colui che potrà prendere il posto, con la sua timida tenerezza, del defunto marito. Una strana solidarietà di gruppo, in quello strano "week-end", sembra ristabilita, quale scudo protettivo di persone più o meno fragili, caparbiamente attaccate ad impalliditi ricordi. Ma a quale prezzo e fino a quando?La grande capacità del film è quella di presentare un gruppo di personaggi sopravvissuti agli anni '60 che sta cercando di capire cosa sia davvero successo nei primi trent'anni (e spiccioli) delle loro vite, senza diventare pedante e rendendo personaggi e situazioni comprensibili anche a chi gli anni '60 li ha visti solo al cinema. La sceneggiatura di Kasdan e Barbara Benedek è brillante e ritmata, con tantissimi dialoghi memorabili e alcune scene estremamente ben costruite. Mette in scena dei personaggi vividi ancorché tipizzati, e soprattutto molto diversi l'uno dagli altri - cosa meno scontata di quello che può sembrare.
"Oltre il giardino", Being There, Hal Ashby, da un romanzo di Jerzy Kozinski, con Peter Sellers, USA 1979.
Il film si apre presentando con rapidi tocchi il giardiniere. Vediamo Chance iniziare una giornata come le altre. Spolvera le gomme della limousine nel garage, non curandosi del fatto che le gomme sono tutte a terra (a testimoniare che l'auto è ferma da tempo). Guarda con attenzione i televisori sparsi in vari luoghi della casa, cambiando spesso canale. Si appresta a fare colazione e si intrattiene un attimo con Louise, la cameriera, che gli annuncia che il vecchio è morto. Non reagisce alla notizia e Louise non è sorpresa di fronte alla sua impassibilità. Chance fa colazione tranquillamente, continuando a guardare la televisione. Guarda di tutto, dai cartoni animati al telegiornale, saltando qua e là senza meta. Sembra assimilare tutto. Cerca di imitare quel che vede. Il maggiordomo di Via col vento saluta i padroni alzando il cappello e biascicando «Sì, miss» con la pronuncia da negro dei film anni '30. E Chance ripete lo stesso gesto e le stesse parole con la stessa intonazione a Louise che sta lasciando per sempre la casa. Allo stesso modo, veduta la robusta stretta di mano del Presidente alla televisione, ripete il gesto stringendo la mano dei perplessi avvocati che lo cacciano e l'obbligano ad affrontare per la prima volta il mondo esterno. Quando esce, Chance si guarda intorno perplesso: gli viene incontro un mondo di rifiuti, di rottami, di auto demolite, di poveracci sgomenti, una realtà ben diversa da quella televisiva. Saluta cortesemente un gruppo di barboni attorno ad un fuoco e cammina senza meta per la città. Ferma una donna che forse gli ricorda Louise. Le chiede con garbo di preparargli la colazione, e quella scappa spaventata. Domanda a un gruppo di ragazzi dove si trovi un giardino per lavorare. Di fronte ai loro modi sfrontati e alle minacce, brandisce il telecomando e cerca di cambiare canale. Ritrova una parvenza di interesse quando si vede dentro la televisione di un negozio, che trasmette quanto riprende una telecamera dalla vetrina. Mentre cerca di intervenire con il suo telecomando è accidentalmente investito dall'auto della ricca signora. Nulla di grave. A questo punto abbiamo ricevuto informazioni sufficienti per sapere che Chance è una specie di ritardato mentale. In modo discreto e accorto Ashby ci ha guidato dentro la vicenda, dandoci il vantaggio di conoscere quello che non sanno coloro che incontreranno il giardiniere. Così, la doppia lettura delle risposte e dei discorsi laconici di Chance diverrà motivo ricorrente di umorismo. Lo spettatore sa che Chance dice banalità quotidiane quando parla del giardino, ma gli altri personaggi pensano che le sue parole posseggano una misteriosa carica metaforica. Chance non è altro che un prodotto della televisione, di cui ricicla tutto, ma le sue banalità sembrano saggezza a chi è abituato alle contorsioni dialettiche ed alla falsità della vita comune. L'idiozia di Chance, serena e bovina, è scambiata per la tranquillità di un essere superiore. Chance tutto apprende e tutto imita, ma come accadrà pochi anni dopo con Zelig (1983) di Woody Allen. Zelig imita per piacere agli altri e confondersi con loro, mentre Chance è una carta assorbente, imita perché mosso da un'astratta curiosità, ma non ha alcun reale interesse per gli altri. In questo senso assomiglia molto, nella sua neutralità spirituale, a certi personaggi di Kurt Vonnegut, altro grande scrittore americano di origini europee con cui Kosinski ha diversi punti di contatto (ne condivide l'umorismo irresistibile e lo sguardo apparentemente astratto e quasi lunare). Ashby sarebbe stato il regista ideale per i romanzi di Vonnegut, di certo più di George Roy Hill che con Mattatoio 5 (1972) ne ha colto solo a tratti lo spirito.
In Oltre il giardino, lo stile del regista matura sino alla perfezione. Evitando i facili effetti comici, che pure non sarebbe stato difficile sfruttare, lavora di cesello giocando sempre sotto tono per far risalire, a contrasto, l'umorismo surreale della vicenda. In questo, aiuta assai la straordinaria prestazione di Peter Sellers. Se Oltre il giardino è indubbiamente un film di Ashby di cui rappresenta lo stile e la filosofia, non si può negare che sia anche un film di Peter Sellers. Non si può immaginare nessun altro attore nei panni di Chance. A un personaggio che deve aver amato molto, Sellers regala la sua migliore interpretazione degli anni '70. Muovendosi con circospezione come chi abbia paura di cadere e attenuando la mimica sino a rendere il viso una maschera apparentemente inespressiva, tratteggia con sottile sapienza le molteplici sfumature di un personaggio inafferrabile, novello Candido che non sa nulla e conquista tutti. Immerso nei toni autunnali della splendida fotografia di Caleb Deschanel, il film procede senza sussulti, assecondando il ritmo naturale di Chance. Alla fine, ormai elevato dagli uomini al rango di prossimo Presidente degli Stati Uniti, camminerà tranquillamente sulle acque di un laghetto solitario. È una sequenza di sorprendente surrealismo, voluta da Ashby per chiudere simbolicamente una storia dalle molteplici suggestioni. Chance, personaggio semplice e amante della natura, è probabilmente un ritardato. Ma ha qualità che lo proiettano nell'infinito. Nella parabola di un personaggio che tutti chiamano Chauncey, per una funzionale storpiatura del nome, trova posto una pungente critica della società americana, di cui si stigmatizzano il vuoto spirituale e l'impreparazione culturale, oltre a una grettezza di fondo che sembra uno dei crucci principali di Ashby. La resistibile ascesa di Chance assomiglia, per la facilità con cui si compie, a una discesa. Rappresentando la forza del Caso (Chance, infatti), il personaggio non ha bisogno di faticare per affermarsi. Tutto viene da sé, per l'incapacità di un sistema monolitico ad affrontare l'eccezione se non inglobandola e, in questo frangente, venendone deriso. Non si può confondere Chance con l'ingenuo dei film positivi di Frank Capra. Sotto l'aria soave e l'apparente bontà, Chance - come ha rilevato Gualtiero De Marinis in «Cineforum» (n. 200/80) - «non solo non è portatore di buone novelle, ma tantomeno può essere preso come simbolo di una verginale e genuina realtà; come portatore di valori naturali e non alienati». E la televisione non è l'oggetto principale della satira. Sarebbe riduttivo. È piuttosto l'ispiratrice della banale piattezza delle esternazioni di Chance. La grandezza del personaggio (e del film) sta nella molteplicità dei suoi aspetti, nella sua inaffabilità. Il finale "metafisico" significa anche questo. E rappresenta la sublimazione del concetto di finale aperto che ha sempre guidato Ashby. Forse Chance è qualcosa che nemmeno gli spettatori che credevano di aver imparato a conoscerlo, possono comprendere veramente.
"Un medico, un uomo" The doctor, Randa Haines, con William Hurt, USA 1991. Jack McKee, un brillante e spregiudicato chirurgo quarantenne, opera non lesinando battute e freddure agli assistenti anche nel momenti più drammatici di un intervento. Quando si accorge di avere un tumore alla gola diviene, suo malgrado, un paziente e deve subire analisi fastidiose, supponenza ed arroganza del medici, intralci burocratici. Tuttavia scopre i valori umani e la solidarietà tra malati: fra questi spicca la giovane June Ellis, la quale ha avuto la diagnosi di tumore cerebrale in ritardo per colpa dell'assicurazione, che non le ha consentito l'unico esame in grado di diagnosticarlo in tempo, perchè troppo costoso. Nonostante sappia di essere condannata, la donna ha una grande forza d'animo ed un atteggiamento positivo verso la vita ma soprattutto verso il prossimo. Jack è sposato con Anne, e da tempo il dialogo tra i due è ridotto a delle formule di convenienza. Entrambi sono impegnati nelle rispettive vicende professionali e la nuova situazione li costringe ad avvicinarsi, ma un invisibile barriera sembra sempre frapporsi alla sincerità del loro dialogo. Tra l'altro Anne interpreta male l'amicizia tra Jack e June, anche perchè, per distrarre la giovane, lui le offre un viaggio in aereo ed auto a nolo fino nel Nevada per assistere ad uno spettacolo cui ella teneva molto ed aveva perso per sottoporsi alla radioterapia. Ma invece di andare al concerto, si fermano a parlare nel deserto, e sulle rive di un lago improvvisano una danza. Costretto ad operarsi per il proliferare del tumore, Jack decide di troncare il rapporto con la gelida otorino che lo ha in cura ed affidarsi ad un collega rivale, l'ebreo Eli Blumfield, col quale ha avuto dissapori in passato, ma che ora vede in una luce ben diversa. Sarà Blumfield ad operarlo ed a salvarlo: June muore ma lascia a Jack una lettera con un apologo, in cui lo invita ad aprirsi sinceramente al prossimo, se vorrà essere veramente felice. Riconquistato il rapporto con la moglie, Jack ritrova anche la voce, e ritorna ai propri compiti di chirurgo. Nel ricordo di June i suoi rapporti con i pazienti acquistano tratti comprensivi e dimensioni di umana pietà.
Sliding Doors (Porte scorrevoli)", Peter Howitt, con John Hannah, John Lynch, Gwyneth Paltrow, USA Gran Bretagna 1998. Cosa si può nascondere dietro due porte scorrevoli? Forse una nuova vita che si apre su di un mondo inaspettato dove le due porte non rappresentano altro, metaforicamente, che le continue scelte e casualità di cui sono piene le nostre giornate. Quante volte ci siamo trovati a pensare a cosa sarebbe stato di noi se le cose non fossero andate in un determinato modo, se avessimo deciso di fare una cosa anziché un'altra? Sicuramente tante. Ed anche il cinema, e non poteva essere diversamente, non è certo stato da meno. L'esempio più macroscopico è firmato Alain Resnais: il suo Smoking/No Smoking è un film, o meglio un doppio film, in cui le due differenti vicende prendono vita dalla scelta compiuta dalla protagonista, una scelta insignificante, quella di accendersi o meno una sigaretta, capace, ciò nonostante, di influenzare in modo determinante gli eventi futuri. E dallo stesso spunto, con minori pretese e durata più che dimezzata, parte anche Sliding Doors, esordio dietro la macchina da presa per l'attore Peter Howitt (Una Scelta D'Amore, Nel Nome Del Padre) che di porte scorrevoli, metaforiche e reali, quelle di un ascensore, di una metropolitana, di un ufficio, riempie un intero film, guidando lo spettatore verso la presa di coscienza della forza del destino (qui ben più influente rispetto alla volontà). Non può essere altro che il destino, infatti, a far perdere a Helen la metropolitana o, viceversa, a permetterle di riaprire le porte un attimo prima della loro chiusura. Un'inezia anche qui, certo, tale però da far prendere due strade del tutto diverse, pur procedendo verso un comune lieto fine (siamo pur sempre nel campo della commedia sentimentale!) alle due Helen che, con una indovinata scelta registica, vivono le loro vite diverse ma parallele. Affermata P.R. appena licenziata, Helen prende la metropolitana, incontra l'affascinante James (John Hannah, che ricordiamo esordiente in Quattro Matrimoni E Un Funerale) e torna a casa in tempo per sorprendere il fidanzato, Gerry (John Lynch, al fianco di Howitt nei già menzionati film di Terry George e Jim Sheridan), a letto con un'altra donna e per iniziare una nuova e brillante vita. Affermata P.R. appena licenziata, Helen perde la metropolitana, si imbatte in una sospensione delle corse successive, subisce un tentativo di scippo, arriva in casa giusto in tempo per trovare Gerry sotto la doccia, iniziare una piacevole giornata al suo fianco ed affrontare una vita di stenti e sacrifici. Le due vicende si alternano, si sfiorano, in un delicato gioco di invisibili e sottili meccanismi a muovere i fili di una marionetta indifesa, impotente di fronte agli imprevisti dettati dal fato. Ma Sliding Doors non è unicamente un film sul destino, ma anche sull'amore, risolvendosi in un'analisi non banale dei comportamenti umani, delle reazioni a volte ordinate a volte scomposte di uomini e donne alle prese con i propri sentimenti. Helen è la donna ferita e disillusa, o comunque preda di dubbi e spiacevoli sensazioni, in cerca di sè stessa e di una nuova speranza, James è l'uomo brillante e simpatico che nasconde i tanti problemi che affliggono la nostra esistenza dietro ad una maschera di spensieratezza, Gerry è il classico eterno indeciso, diviso tra due donne ed incapace di scegliere, Lydia (Jeanne Tripplehorn) è l'altra, l'ex fidanzata, ora amante, decisa a riprendersi il suo uomo ad ogni costo. E da questo balletto di personaggi, tutti splendidamente interpretati, con una Gwyneth Paltrow semplicemente perfetta, chi emerge prepotentemente è, senza ombra di dubbio, la coppia Gerry-Lydia, ovvero i "cattivi" di turno, con il maschietto a recitare la parte più indegna. Ad una donna innamorata si può in fondo perdonare tutto, anche i metodi meno ortodossi (leggi crudeli e spietati), ad un uomo che, tradendo, continua ad avere la forza di guardare negli occhi la donna che ama e rassicurarla, pur di rimanere immutabilmente statico, attendendo un qualsiasi evento esterno che possa riequilibrare la situazione, no. Qui il destino non c'entra, se non nella speranza di affidarsi al caso, qui tutto dipende da una nostra scelta e proprio per questo la lezione è di quelle che lasciano il segno.
"Il Circolo della Fortuna e della Felicità", Wayne Wang, con Tsai Chin, Lauren Tom, USA 1993. Uno dei romanzi più letti ed animati della storia degli ultimi anni rivive nella magia di un film epico ed appassionante. Dal romanzo omonimo di Amy Tan. Otto storie di donne, narra la storia di quattro famiglie, ripercorrendone le vite dalla Cina di inizio secolo - scossa dagli orrori della guerra - alla San Francisco dei giorni nostri, in un continuo avvincente alternarsi di gioia e dolore, amore e tragedia. La cornice è una festa che si svolge in una piccola comunità cino-americana di San Francisco in occasione dell'imminente viaggio della giovane June per il paese d'origine, dove conoscerà le sorellastre gemelle che laggiù sono nate e cresciute. Di qui si diramano i fili della memoria per quattro ritratti di donne mature e dei loro rapporti con le rispettive figlie, prima e dopo l'emigrazione negli Stati Uniti. Le hanno rintracciate le tre migliori amiche di sua madre Suyan, da poco deceduta senza essere riuscita a ritrovare quelle figlie che aveva dovuto abbandonare decenni prima in circostanze drammatiche. Ogni madre anela all'amore della propria figlia e spera di infrangere le barriere che si frappongono alla comprensione reciproca. Ogni figlia anela a conquistarsi l'affetto e l'approvazione della propria madre. E' la storia di quattro donne straordinarie, la cui esistenza piena di amore, di tragedia, di ricchezza e di magia è sempre sostenuta dalle speranze e dai sogni che esse nutrono nei confronti delle proprie figlie. Con Il circolo della fortuna e della felicità, il più venduto bestseller dell'89, la scrittrice Amy Tan, californiana di prima generazione, ha messo a contrasto le storie di quattro madri che non riescono a liberarsi dai fantasmi di un travagliato passato vissuto in una Cina repressiva; e quelle delle figlie educate all'americana e reattive, a vario titolo, di fronte al tentativo materno di realizzarsi attraverso le loro vite. Man mano che si snoda il ritratto delle altre tre "donne" del Circolo viene rivelato al pubblico il mosaico delle situazioni e degli eventi che hanno segnato le loro esistenze e che condizionano la vita delle loro figlie. June è influenzata dalla madre Suyuan, molto attaccata alle tradizioni cinesi, con la quale non riesce a comunicare, sentendosi una fallita. Waverly è la figlia di Lindo: la difficoltà di comunicare determina nel loro rapporto un errata interpretazione dell'amore. Rose rinuncia ad una carriera artistica per sposare un universitario bello e ricco e giunge a negare le proprie origini e la propria identità. Lena è la figlia di Ying Ying, cui la vita in Cina ha lasciato una eredità di depressione e di angoscia. È la saga della coazione a ripetere che Freud ci ha così bene descritto. Prodotto dal premio Oscar Oliver Stone (Platoon), il più orientalista dei cineasti occidentali dopo Bernardo Bertolucci, e diretto dall'hongkonghese naturalizzato californiano Wayne Wang, il film prende spunto dalla ‘riunione per mettere a confronto in una serie di flashback otto destini femminili con relativo repertorio di infelicità, frustrazioni e in-sicurezze. E fra una tazza di tè e una partita di mah-jong, esemplifica conflittualità fra generazioni e culture differenti. Il tema intimista è affrontato con sensibilità; e coadiuvato dall'ottimo direttore di fotografia Amir Mokri, Wang si mostra abile a trascorrere con finezza e coerenza visiva dagli appartamenti postmoderni di San Francisco agli interni della Cina prerivoluzionaria. In questo film, anche se spesso cause o strumenti delle sofferenze femminili, gli uomini fanno solo da tappezzeria. Le speranze, i sogni e i trionfi di due generazioni di madri e figli coraggiose in un kolossal intenso e spettacolare, osannato dalla critica di tutto il mondo. Una vicenda di grande impatto, una saga destinata a rimanere a lungo nel cuore e nella memoria.
"Dogville", Lars von Trier, con Nicole Kidman, Danimarca 2003. In una notte d'inverno, durante la Depressione, preceduta da lontani colpi d'arma da fuoco, la fuggitiva Grace arriva nel piccolissimo paese di Dogville, abbarbicato sulle Montagne Rocciose. Il primo ad incontrarla è Tom Edison, che propone agli altri quattordici abitanti della cittadina di ospitarla, per due settimane, in prova; al termine di queste decideranno se tenerla con loro o mandarla via. Le due settimane scorrono veloci, Grace aiuta tutte le otto famiglie del paese e si guadagna il loro rispetto e la loro amicizia, quando arriva lo sceriffo della città più vicina ad attaccare un manifesto in cui Grace risulta ricercata. Tutto prenderà una diversa via: i suoi "amici" cominceranno a pretendere da lei favori sempre più pesanti, fino ad arrivare allo sfruttamento ed oltre. Raccontato così, "Dogville" potrebbe semplicemente sembrare un film di denuncia sulla cattiveria profondamente radicata all'interno dell'animo umano, che sa rispondere solo col ricatto a chi è stato corretto e disponibile; se tutto questo è certamente vero, altrettanto reale è il fatto che Lars Von Trier, regista non nuovo alla sperimentazione, ha scelto un mezzo scenico davvero particolare per narrare la sua storia. La città di Dogville è in realtà una piattaforma teatrale sulla quale le case, le strade, i muri, gli alberi, sono tracciati con il gesso bianco sulle tavole nere dell'impiantito; anche Mosè, il cane di una delle famiglie, è un'inquietante sagoma bianca tracciata all'interno di un recinto altrettanto inesistente. Comincia in questo modo il geniale gioco degli opposti creato dal regista: bianco abbagliante il giorno, nera la notte. Spazio totalmente aperto il set ma con muri molto più reali di quelli di cemento. Porte inesistenti che si aprono e si chiudono con i soliti rumori. Questa presenza/assenza di limiti e confini fa sì che Dogville non sia più un insieme di singoli abitanti, ma un'entità reale, contro la quale Grace dovrà combattere la battaglia più dura della sua vita. Anche se a Dogville vivono solo una ventina di persone, c'è proprio tutto quello che serve a dimostare le peggiori qualità dell'uomo: l'opportunismo, l'avarizia, la sopraffazione, il tradimento, la paura, l'ignoranza, il dolore di chi vive nella povertà, ma sa anche dimenticare la solidarietà per proprio tornaconto personale. Un film atipico anche nella struttura narrativa, "Dogville"; diviso in un Prologo e Nove Capitoli, che scandiscono la narrazione proprio come farebbero le pagine di un libro, graficamente, all'inizio di ogni nuova fase della narrazione (la versione originale era di 178', quella che vedrete al cinema, di 133', è stata tagliata dal regista). Alcune sequenze sono degne della storia del cinema: lo stupro di Grace, che avviene al "chiuso" di una delle case, ma nella realtà scenica perfettamente visibile agli occhi dello spettatore; il viaggio sul camioncino, in cui luci, colori, visibile e non visibile si mescolano fino a creare un quadro di impressionante realtà... Meravigliosa la Kidman, alla quale il regista dichiara di aver pensato ancor prima di scrivere il film; ottimo il resto del cast, anche se l'unica vera protagonista, oltre alla Kidman, è proprio Dogville. Perfetta la musica di Vivaldi, non molto presente ma ossessiva al punto giusto, per sottolineare sia il clima di tragedia che l'ineluttabile scorrimento degli eventi fino al terribile finale, che non vi svelo. Un film assolutamente da vedere, un'esperienza cinematografica atipica, che raramente accadrà di poter ripetere; un consiglio allo spettatore: andate a vedere "Dogville" senza pregiudizi, senza aspettarvi il solito film, senza rifiutare il mezzo con cui von Trier ha deciso di raccontare la sua storia. Se sarete più disponibili ed umani degli abitanti di Dogville, certo non resterete delusi. Dogville dimostra in maniera inequivocabile tutta l'ambiguità e la scorrettezza che fanno di Von Trier un insolito genio della macchina da presa, un autore "cattivo" cioè, che dopo aver dato uno dei contributi critici più importanti degli anni Novanta con il manifesto di Dogma 95, ha cercato con il tempo di metabolizzare le sue stesse idee senza cedere ad altre regole che non fossero quelle della propria ispirazione artistica. Una sorta di stile anti-stile che ha trasformato il suo inneggiare alla realtà senza maschere né fronzoli (luoghi naturali, luce naturale, macchina da presa mobile, a spalla, per catturare il reale così com'è nella suo "darsi" quotidiano, il ritorno ad un cinema quasi autarchico) in un poema visivo che questa volta ha addirittura lasciato il vero volutamente fuori dallo studio. Un'operazione rischiosa che però von Trier ha saputo condurre sui giusti binari, trasformando questo film in un vero e proprio apologo sul cinema della crudeltà, ma anche di tutti quei sentimenti che la crudeltà sottende, il sentimento che von Trier vuole qui rappresentare è quell'impulso che si nasconde sotto l'estrema modestia (sorta dal senso di colpa ed il bisogno di espiazione) e disponibilità che diviene reverenza eccessiva, mancanza del rispetto di sé. Il racconto inizia grazie alla voce fuori campo di un narratore onnisciente che non solo racconta, ma giudica, nasconde, rinvia. È diviso, come un romanzo, o uno dramma brechtiano, in capitoli, anticipati da un prologo, ciascuno con un numero ed una frase introduttiva (sono gli strumenti di quello che Von Trier chiama "cinema fusionale", intendendo per fusione quella tra cinema, teatro e letteratura). È già questo il primo tentativo di rimandare il tutto ad una dimensione chiusa e codificata, in cui la misteriosa protagonista, la giovane e bella Grace (una grande prova di Nicole Kidman, positivamente risucchiata nel personaggio) sarà imprigionata. La donna, per sfuggire alla banda di gangster del padre, cerca riparo in una piccolissima cittadina pedemontana della provincia americana. Un'altra codificazione: anche prima di vederla, Dogville è la città che Grace e lo spettatore conoscono a memoria perché da sempre messa in scena dal cinema e dal teatro e raccontata dalla letteratura (è il filtro che von Trier usa, da straniero, per raccontare l'America): Grande Depressione e subito aleggiano gli spiriti di Faulkner, Steinbeck, Tennessee Williams, Thornton Wilder, Frank Capra. La gente è infatti quella che ci si aspetta: cordiale, timorata di Dio, operosa, risparmiatrice e semplice, ma non è altro che la spettrale comunità di una città che non c'è. La realtà bandita carica la finzione di un nuovo pittoricismo: Dogville non esiste, è appena disegnata su una tavola simile al Monopoli, ci sono solo elementi abbozzati, un campanile, delle porte, le travi di una miniera, le rocce di una collina, un albero: tutto è uno scarno palcoscenico dalla brechtiana scheletricità. Questo mondo artificiale non-fisico (da cui la scena non si sposta mai) non a caso è Dog-ville, in italiano "città del cane" o "dei cani", perché pian piano queste miti figure danno sfogo alle loro più represse, ferine, animali appunto, pulsioni, costringendo la povera Grace a sottostare a prestazioni di varia natura: economiche, psicologiche, lavorative, fino a quelle sessuali a cui seguirà l'incatenamento in una sorta di cuccia, come per il cane disegnato sulla scena. La logica, o meglio, l'etica a cui questi personaggi obbediscono, è quella del profitto personale, materiale e spirituale. Gli abitanti infatti, pur rappresentando fasce sociali diverse (si va dal contadino al filosofo, dal commerciante al cappellano), sono tutte perfettamente inquadrate nei loro ruoli sociali da cui non escono mai e, attraverso l'arma del ricatto, animalescamente si servono di Grace come di un cane a cui dare ordini e da cui farsi obbedire per essere accontentati. In questo senso la distanza che cresce tra essi e Grace è di carattere sociologico. Grace a Dogville è fuori dal suo ruolo sociale, è una creatura fuori posto, che sperimenta questo tipo di diversità sulla propria pelle, pensando di poter cambiare l'etica del mondo a cui in realtà lei appartiene. Ma questo tentativo fallisce miseramente, Grace ritorna ad essere quella che è e, recuperato insieme al suo originario ruolo sociale anche l'etica che ad esso sottende, guida il racconto verso la tragedia finale. In questo è stata molto brava Nicole Kidman a dare volto e voce ad un personaggio che vive ed è motore di un ribaltamento drammaturgico molto profondo nel film, un personaggio che trasforma i suoi iniziali connotati angelici in una ferocia finale ancora più crudele di quella dei cittadini di Dogville. È dunque una tragedia dell'etica sociale quella che Von Trier ci sbatte con violenza davanti. E lo fa attraverso la macchina-cinema anti-Dogma (anche se le riprese a spalla e l'uso del godardiano "jump-cut" ci sono ancora) che, bandendo il realismo da questa misera scena, ribadisce in maniera maldestra e sgradevole quanto il cinema è falso e immorale. È forse solo per questo che la realtà, quella vera, viene fatta scorrere sotto forma di istantanee fotografiche sui titoli di coda, con sottofondo la musica di un vecchio pezzo di David Bowie. La realtà (emarginazione e violenza) è là, fuori dal film, nel mondo, che resta però ancora l'unica dimensione possibile in cui cercare un barlume di verità.
"La stanza del figlio", Nanni Moretti, con Nanni Moretti, Laura Morante, Stefano Accorsi, Silvio Orlando, Italia 2001. Una famiglia improvvisamente immersa in un dramma terribile, la morte del figlio adolescente. E un padre psicanalista che, travolto dal dolore, si allontana anche dalla sua professione. Ambientato ad Ancona, il film ha come protagonisti due coniugi, Moretti e Laura Morante, genitori di una ragazza (Jasmine Trinca) e di un ragazzo (Giuseppe Sanfelice, già apparso in "Come te nessuno mai" di Gabriele Muccino), che muore durante un'immersione in mare. E il dolore per questa perdita attraversa tutto il film, in un racconto lontano dalla retorica che riesce a commuovere senza andare quasi mai fuori tono. Giovanni (Moretti) esercita la sua attività in uno studio arredato sobriamente; sullo stesso pianerottolo c'è l'appartamento in cui vivono la moglie Paola (Morante) e i due figli. Tanti i pazienti del medico che si alternano sullo schermo, interpretati da Tony Bertorelli, Silvio Orlando, Stefano Accorsi, Luisa De Santis, Dario Cantarelli, Eleonora Danco. Al di là della sedute, la vita di Giovanni scorre tutto sommato tranquilla, con un forte rapporto di complicità col figlio. Poi, raccontato attraverso una serie di sequenze a montaggio alternato, l'evento che cambierà per sempre la vita della famiglia: Laura è al mercatino, Irene gioca a basket, Giovanni è in macchina, Andrea si mette le bombole. Per quella immersione che gli costerà la vita. Da questo momento in poi, il dolore irrompe sulla scena, descritto anche nei piccoli dettagli (ad esempio i preparativi per il funerale, l'allestimento della camera ardente, e così via). E sarà solo dopo essere passati per l'inferno della sofferenza, del rimpianto, dei sensi di colpa - soprattutto del padre, che non riesce a perdonarsi di essere andato in auto lontano dal figlio, per accorrere da un paziente - che i tre superstiti torneranno a vivere. Ciascuno con modi e tempi diversi, e - come è nello stile del regista - senza facili consolazioni.
"Faccia a faccia" The kid, Jon Turtletaub, con Lily Tomlin, Bruce Willis, USA 2000. Russ Duritz (Bruce Willis) è un manager quarantenne di successo: ha tutto ciò che, secondo lui, occorre avere, denaro, tutti i giocattoli possibili, nessun condizionamento sentimentale. Un giorno, in un salotto, vede un ragazzino di otto anni, grassottello, che gli ricorda qualcosa. Poi, decisamente sconvolto, realizza: trattasi nientemeno che di Russ stesso a quell'età. I due vengono dunque in contatto, l'adulto si vede quando tutto doveva ancora succedere e il bambino quando tutto è successo. Entrambi sono a disagio e delusi, perchè il "grande" si rivede goffo e timido, sempre sfottuto dai compagni di scuola e il bambino, nel proprio futuro, non trova niente di ciò che sognava, a cominciare da un cane e da una donna. Occorre dunque iniziare a pensare alla compagna. Buon'idea, parzialmente mutuata da Frequency, ben condotta. Un'occasione, da parte degli adulti di ragionare sui valori e sul destino di questa civiltà.
“La bestia nel cuore”, Cristina Comencini, con Sabina: Giovanna Mezzogiorno, Franco: Alessio Boni, Emilia: Stefania Rocca, Maria: Angela Finocchiaro, Italia 2005. Sabina è bella, ha un compagno che la ama, una vita serena....Ma è davvero felice? Da qualche tempo, strani incubi la tormentano. Quando scopre di aspettare un bambino una finestra di ricordi si apre sul suo mondo interiore: l'infanzia, la famiglia, i riti di una borghesia severa e rassicurante al tempo stesso. Ma questa è soltanto la superficie. Più in fondo si agita qualcosa di oscuro e inquietante…. La bestia nel cuore è un film intenso sui chiaroscuri della normalità, sull'eccesso dell'amore, dell'attrazione, del desiderio, sull’incesto! (che più spesso di quanto crediamo si nasconde negli armadi di alcune famiglie e non solo del profondo Sud).
“Ghost Fantasma”, Jerry Zucker, con Patrick Swayze; Demi Moore; Whoopi Goldberg; Tony Goldwyn USA 1990. Il film ottenne un grande successo di critica e pubblico, vincendo anche 2 Oscar per la sceneggiatura originale di Bruce Joel Rubin, e la miglior attrice non protagonista, Whoopi Goldberg. Contribuì anche a rilanciare Patrick Swayze, già protagonista di Dirty Dancing nel 1987. Ghost è ambientato a New York. Il protagonista è l'agente bancario Sam Wheat (Patrick Swayze), che conduce un'esistenza felice insieme alla fidanzata Molly Jensen (Demi Moore), artista promettente ma dal carattere fragile. Mentre si stanno incamminando sulla strada di casa dopo una serata a teatro, il ladruncolo Willie Lopez (Rick Aviles) uccide Sam Wheat. Quest'ultimo si ritrova impietrito sotto le sembianze di un fantasma; benché stupito della sua condizione e dell'incapacità di comunicare con i vivi, Sam decide ugualmente di proteggere Molly dalla vendetta di chi lo ha ucciso. Fortunatamente riesce a comunicare con Oda Mae Brown (Whoopi Goldberg), una sensitiva inizialmente ignara dei suoi stessi poteri.Con amara sorpresa scopre che Carl Bruner (Tony Goldwyn), suo collega e suo migliore amico, ha ordinato a Willie di rubargli il portafogli per trovare una password che gli avrebbe permesso di riciclare denaro sporco, per conto di alcuni trafficanti di droga, ma la rapina è finita in tragedia. In seguito Sam imparerà anche a spostare gli oggetti, con l'aiuto di un fantasma senza nome (Vincent Schiavelli) che alberga nella metropolitana di New York.Sam e Oda Mae riusciranno ad eludere la vendetta di Willie e Carl, che terrorizzati da chi credevano più debole di loro - ovvero Sam Wheat - rimarranno uccisi "per sbaglio" (il primo in un incidente stradale, il secondo da una finestra a pezzi), e i loro fantasmi verranno subito dopo condotti all'Inferno dagli spiriti che lo dominano. Una volta compiuta la missione di salvare Molly, Sam dà l'ultimo saluto alla sua compagna ancora in vita e ad Oda Mae, e riesce a raggiungere il Paradiso.
“Il sesto senso The sixth sens”, M. Night Shyamalan, con Bruce Willis, USA 1999. Thriller paranormale che ha fatto scoprire al grande pubblico il talentuoso e promettente regista M.Night Shyamalan e ha rivelato il giovanissimo Haley Joel Osment e con circa 660 milioni di dollari è uno dei più grandi incassi della storia del cinema. Sei candidature all'edizione 2000 degli Oscar: per il miglior film, regia, sceneggiatura, montaggio, attore non protagonista (Osment), attrice non protagonista (Toni Collette). Pellicola dai toni cupi e dai risvolti inquietanti che risulta da subito abbastanza coinvolgente. Il film scorre abbastanza fluido anche se caratterizzato da un ritmo prevalentemente piatto, che dà in compenso notevole efficacia e risalto ai momenti di maggior tensione.Un ispirato Bruce Willis interpreta un famoso psicoterapeuta dell’infanzia che in un momento difficile della propria vita fa amicizia con un bambino che sembra avere dei problemi. Presosi a cuore il caso del suo piccolo amico, l'uomo riesce a entrarvi in confidenza e a scoprire che è disturbato da visioni: il piccolo asserisce infatti di poter vedere la gente morta. In una escalation di rivelazioni dove anche le certezze più salde potranno venire meno, il regista regala allo spettatore brividi d'autore senza bisogno di ricorrere a esagerazioni sceniche, giocando con maestria sul filo della suggestione. Si ricompongono così di colpo i tasselli, distribuiti gradualmente, di un sorprendente mosaico. Nonostante rimangano a visione conclusa alcuni (passabili) punti interrogativi, il film stupisce per originalità e non fatica a conquistare lo spettatore. L'opera di Shyamalan convince, e merita sicuramente la visione. Malcolm Crowe, psicologo, torna a casa con la moglie dopo una serata di gala nella quale è stato insignito di un riconoscimento per il suo meritorio operato con i bambini. Ad attenderli c'è un uomo armato in evidente stato confusionale. Da bambino è stato un suo paziente e ora gli rimprovera di non averlo guarito dai suoi disturbi e dalle sue allucinazioni. Spara al dottore allo stomaco e poi si toglie la vita.Otto mesi più tardi il dottor Crowe non è più l'uomo di successo pieno di sicurezze per sé e per gli altri. Ha un nuovo caso, del tutto simile a quello del bambino che poi, diventato uomo, con il suo folle gesto gli ha cambiato la vita. Cole ha 8 anni, ha una grande sensibilità, e c'è qualcosa che lo terrorizza e che non riesce ad esorcizzare, nonostante razionalmente si sforzi di farlo. Il dottor Crowe prova ad aiutarlo ma alle difficoltà oggettive del caso si aggiungono i suoi problemi, primo fra tutti l'allontanamento dalla moglie che ora sembra ignorarlo lasciandolo ancora più solo e in crisi.Il caso del piccolo Cole però lo spinge ad impegnarsi a curare le sofferenze del bambino anche per poter riacquisire fiducia in sé. Cole gli dà una prima iniezione di fiducia confessandogli il suo vero segretissimo problema: ha la capacità di vedere i morti.Crowe dopo un iniziale sconcerto trova la chiave per aiutare a superare il terrore che inevitabilmente attanaglia il bambino, costantemente circondato da anime vaganti che vede solo lui. Lo convince che se ha questa capacità, è perché a lui è riservato un compito delicatissimo che ha a che fare con le stesse anime, evidentemente in cerca di un aiuto per sistemare qualcosa lasciato incompleto su questa terra. Così Cole, seguendo questa idea, entrato in contatto con l'anima della piccola Kyra, scopre su indicazione della stessa, le prove che sua madre l'ha avvelenata all'insaputa di tutti. Rivelata la cosa al papà di Kyra, Cole sente di aver dato un senso ai suoi poteri che ora non lo terrorizzano più. Così ora si sente in dovere di rivelare tutto alla mamma, costantemente preoccupata e incapace di aiutare suo figlio come vorrebbe.In una scena molto toccante, Cole svela a sua madre il suo potere, dandole una prova tangibile riferendo un messaggio della nonna morta, la madre di lei, che si scusa di un peccato di orgoglio mai confessatole. La mamma doppiamente commossa riabbraccia suo figlio del quale ora è felice di condividere il dramma che è costretto a vivere, anche perché vede che sono state acquisite le capacità per affrontarlo e forse superarlo.Il dottor Crowe ha ottenuto il successo sperato e ora va ad affrontare sua moglie. Entra in casa e la trova addormentata sul divano mentre un filmino del loro matrimonio illumina la stanza buia dalla tv accesa. E mentre le parla ripercorre le cose dette da e con Cole e si rende conto, con un colpo di scena finale mirabile, di essere egli stesso uno dei morti vaganti messisi in contatto con il bambino e ancora alla ricerca di qualcosa. Prima di "riposare in pace", infatti, doveva dare prova delle sue capacità di psicologo, non più per riscattarsi professionalmente, ma per salvare un bambino con allucinazioni da un'esistenza impossibile che con ogni probabilità l'avrebbe portato alla follia.
"Viaggio in Inghilterra", Richard Attenborough, con Anthony Hopkins, Debra Winger, John Wood, USA 1993. Rievocazione del tragico amore tra il maturo scrittore britannico C. S. Lewis e la giovane poetessa americana Joy Gresham, che morirà di cancro precocemente. Sullo sfondo Oxford, chiusa e sessuofobica. Nella vita dello scrittore inglese C. S. Lewis non c'è spazio per gli imprevisti. Le lezioni universitarie, la vita tranquilla con il fratello, i soliti amici sono la barriera contro le emozioni, che ha imparato a temere e a reprimere. Finché arriva dall'America Joy e, con lei, un sentimento forte e sconosciuto. La meravigliosa campagna dell'Oxfordshire diventa lo scenario di una storia d'amore travolgente, che saprà sfidare persino la morte. Grazie alla vitalità contagiosa di Joy, Lewis scoprirà infatti dentro di sé un uomo nuovo, più vero e più vivo, capace di affrontare anche un grande dolore in nome di un grande amore.
"L'ottavo giorno" Le Huitième jour, Jaco van Dormael, con Daniel Auteuil, Pascal Duquenne, Miou Miou, Francia / Belgio / Gran Bretagna 1996. Harry, uno stimato docente di formazione aziendale, cura molto la preparazione degli addetti alle vendite, sintetizzandone il comportamento ottimale in tre regole d'oro: sorriso e attenzione al cliente, ottimismo, decisione. All'uscita da un suo faticoso servizio, al limite della resistenza per l'impegno che il proprio compito esige, quasi dimentica che è il "suo giorno" di marito separato per avere le sue bambine. Quando arriva alla stazione, dove aveva promesso alla moglie Julie di recarsi a prenderle, le bambine non ci sono più e costei, in tono comprensibilmente indignato e gelido, gli fa sapere al telefono che sono tornate a casa. Mentre riflette su quella sua giornata estenuante, al volante della propria automobile in piena notte, Harry è preso da un colpo di sonno e provoca un incidente che lo fa tornare di colpo in sé. Ha investito un cane e subito si fa avanti il presunto padrone, Georges, un giovane down smarrito e farneticante, fuggito dall'Istituto in cui è stato relegato dopo la morte della madre. Harry è costretto suo malgrado ad occuparsene e lo porta al primo posto di polizia, dove s'imbatte in pretesti burocratici da parte dell'unico agente in servizio in quell'ora notturna: non gli resta che portarlo nel proprio alloggio di "single" forzato e offrirgli l'unico letto disponibile, il suo. Andati a vuoto i numerosi tentativi di disfarsi di Georges, per il quale pur sente compassione e simpatia, restituendolo a qualcuno dei suoi o all'Istituto, Harry non può fare altro che dividere con lui il proprio ruolo di "perdente", rifiutato perfino dalle sue piccole figlie. Finché, dovendosi assentare un momento dall'automobile in cui l'ha lasciato, per i suoi impegni di lavoro, non trova più Georges che è salito sulla terrazza del-lo stabile, si è rimpinzato di cioccolato verso il quale ha una pericolosa allergia ha perduto l'equilibrio ed precipitato giù. "L'ottavo giorno Dio creò loro, i diversi, a metà tra gli angeli e gli umani". Loro sono gli altri, quelli che i "cattivi" chiamano, come se nulla fosse, subumani e i "buoni" considerano poverini da aiutare. Loro sono gli handicappati: nelle loro molteplici manifestazioni, che siano disabili, tetraplegici, spastici, down, cerebrolesi, provocano al loro semplice apparire sentimenti controversi, di pietà, di fastidio, di simpatia, di colpa, perfino di odio nei confronti di una realtà che per i "normali" resta comunque indecifrabile. Anche le apparizioni cinematografiche non fanno eccezione, e neppure L'ottavo giorno lo è. Eppure questo film si differenzia dagli altri del genere per molte ragioni. In questo caso l'handicappato non è interpretato da Dustin Hoffman ma da un down vero, Pascal Duquenne, che recita benissimo nella parte di Georges, l'angelo spedito a cambiare la vita ad Harry, addetto alla formazione dei quadri aziendali in una grande banca, yuppie un po' fuori tempo. Inutile dire che dall'incontro con Georges la vita di Harry esce completamente trasformata: è l'aspetto più scontato del film. Interessante invece è il ribaltamento dei ruoli che si produce tra Harry e Georges: il primo è corroso dal lavoro e dalla programmazione di ogni istante delle proprie giornate, incapace di amicizia, impossibilitato a sognare. È insomma un handicappato nel mondo di Georges che è fatto di umanità e poesia, dove l'immaginario conta quanto il reale, i topi cantano e "una coccinella è più importante di una convention". C'è chi ha scritto - e non a torto - che in questo modo viene offerta un'immagine edulcorata dell'handicap, che i rapporti tra la normalità e la diversità sono molto più complessi di come vengono rappresentati dal regista belga Van Dormael. Tuttavia L'ottavo giorno rimane una fiaba universale piena di speranza: in un tempo in apnea di fiato e di cuore, che non dà spazio alla creatività, alla fantasia, alla genialità dell'individuo, può arrivare una grande lezione di libertà da chi per natura è irriducibile alle strette regole economiche. In questo senso Georges si aggiunge a quella fitta schiera di clown, folli, artisti, ubriaconi, che nel cinema e nella vita sono fuori dagli schemi e hanno tempo per una corsa su un prato anche se domani c'è il consiglio di amministrazione o il compito da consegnare. Fino ad arrivare ad una paradossale conclusione: che questo mondo è malato perché chi ha le gambe non sa più dove andare. E che chi ha le ali non riesce più a volare.
"Le fate ignoranti", Ferzan Ozpetek, con Margherita Buy, Stefano Accorsi, Andrea Renzi, Gabriel Garko, Filippo Nigro., Francia 2001. Antonia e Massimo sono sposati da quindici anni. Il loro è un matrimonio felice fino a quando Massimo muore in un incidente stradale. Antonia si chiude nel proprio dolore, accudita dalla madre e dalla cameriera filippina. Un giorno però, grazie a una dedica sul retro di un quadro, scopre che il marito aveva un'amante da sette anni. Questo la obbliga a uscire di casa e a iniziare una serie di ricerche. Raggiunge così lo stabile e l'interno da cui era stato inviato il regalo. L'appartamento è intestato al nominativo Mariani e per lei è ovvio cercare la signorina Mariani. Dopo diversi tentativi di depistaggio da parte della colorita comunità di gay e travestiti che affolla l'appartamento scoprirà la verità: l'amante di suo marito era un uomo, Michele. La prima reazione è di profondo disgusto ma progressivamente il contatto con il gruppo le farà scoprire una realtà diversa. Sarà un'esperienza capace di farla tornare a vivere pienamente. Ferzan Ozpetek, dopo il patinato ma piuttosto sterile Harem Suare, torna ai temi prediletti già presentati con originalità ne Il bagno turco. Eliminate le tentazioni esotiche (anche se non possono mancare due attori e la musica turchi), disegna caduta e ascesa di una donna borghese le cui sicurezze si sgretolano dinanzi alla progressiva scoperta della realtà. Margherita Buy è bravissima nel sottolineare i progressivi slittamenti del cuore del suo personaggio, così come Accorsi lo è nel costruire un Michele gay convinto che vede minare dal di dentro le sue certezze in materia sessuale.
"Mare Dentro" Mar Adentro, Alejandro Amenabar, Spagna 2004. Ramón è costretto a letto da trent'anni. La famiglia si prende cura di lui. La finestra della sua stanza che affaccia sul mare è l'unica apertura verso il mondo. Da giovane ha navigato a lungo e sul mare gli è capitato l'incidente che gli ha rovinato la vita. Da allora, l''unico suo desiderio è quello di mettere fine alla propria esistenza con dignità. L'arrivo di due donne sconvolgono il mondo di Ramón: Julia, l'avvocato che lo sostiene nella sua lotta di porre fine alla vita nel modo che ritiene giusto, e Rosa, una donna del paese, che cerca di convincerlo che vale la pena continuare a vivere comunque.
“The big Kahuna”, John Swanbeck, con Kevin Spacey, Danny DeVito, Peter Facinelli, Paul Dawson, USA 1999.
"Al Di là Dei Sogni What dreams may come", Vincent Ward, con June Lomena, Max Von sydow, Carin Sprague, Josh Paddock, Annabella Sciorra, Robin Williams, Werner Herzog, USA 1998. L'amore che unisce Chris e sua moglie, la pittrice Annie è infinito, nulla neanche l'al di là può separarli. Chris muore in un incidente e raggiunge un Paradiso che la sua fantasia ha ambientato in uno dei meravigliosi dipinti di Annie. Chris non potendo immaginare di vivere senza sua moglie, per raggiungerla si avventura in un fantasmagorico e coloratissimo viaggio guidato da un "angelo" molto particolare. Essendo un film hollywoodiano potremmo pensare che, a differenza della leggenda, ci sarà un “happy ending”. D’altronde la differenza più grande tra i registi europei e quelli americani è proprio questa: in America gli sceneggiatori tendono ad essere vergognosamente ottimisti riguardo alla possibilità che la vita prenda una piega positiva, mentre gli sceneggiatori europei finiscono per essere esageratamente pessimisti e suggerirci che quando la vita cambia, cambia in peggio. Ma se vi dicessi che il regista viene dalla Nuova Zelanda? Vincent Ward è stato il primo regista neozelandese ad avere un film in concorso al festival di Cannes. Non che sia un grande traguardo, ma quel film era anche il suo primo lungometraggio, “Vigil”. Si fece notare dai produttori d’America col suo secondo film, “Navigator, un’odissea nel tempo”, che gli fece ottenere l’incarico di scrivere la storia per “Alien 3”. Il film non assomigliò molto a ciò che lui aveva immaginato e così tornò a lavorare lontano da Hollywood dirigendo “Avik e Albertine”. Stavolta dirige un film completamente hollywoodiano, seppure basato su una trama veramente classica. Opus n. 5 del neozelandese V. Ward (1956), il primo realizzato a Hollywood con grandi mezzi messi a disposizione dalla Polygram, ispirato a un romanzo di Richard Matheson (1926) e sceneggiato da Ron Bass. E un film bifronte. Affascinante o almeno stupefacente sul piano visivo, e visionario, con rimando alla pittura di V. Van Gogh, i fauves, D.C. Friedrich, J. Martin, Doré e fantastiche scenografie simbolistiche (Eugenio Zanetti). Ward ha sempre fatto dell’efficacia visiva il punto centrale dei propri film, e “What dreams may come” (“For in the sleep of death what dreams may come. When we have shuffled off this mortal coil, must give us pause”. “Amleto”, atto 3 - scena 1) non fa eccezione. “Euridice incespicò in un serpente e morì per il suo morso: ma Orfeo coraggiosamente discese nel Tartaro con la speranza di ricondurla sulla terra. [...] Al suo arrivo nell’Oltretomba non soltanto incantò Caronte il traghettatore, il cane Cerbero ed i tre giudici dei morti con la sua musica dolce e lamentosa, ma fece cessare temporaneamente le torture dei dannati e placò il duro cuore di Ade tanto da indurlo a restituire Euridice al mondo dei vivi. Ade pose una sola condizione: che Orfeo non si guardasse alle spalle finché Euridice non fosse giunta alla luce del sole. Euridice seguì Orfeo su per l’oscura voragine, guidata dal suono della sua lira; ma appena scorse la luce del sole, Orfeo si volse per vedere se Euridice era con lui e così la perse per sempre.” Robert Graves - “I miti greci”, 1955. Come Orfeo, appunto. In questo film ci sono persino Cerbero e Caronte. Chris Nielsen e sua moglie Annie sono legati da un amore illimitato. Hanno due figli che sono la loro gioia continua. Una mattina, come tutte le mattine, i due bambini salgono con la baby-sitter sulla macchina che li conduce a scuola. Ma stavolta non arrivano a destinazione: un incidente e i due ragazzi muoiono. Rimasti soli, Chris e Annie provano a continuare a vivere. Ma niente è più come prima. Annie perde l'equilibrio mentale, entra in una profonda depressione ed è ricoverata in manicomio, poi faticosamente i due recuperano un certo equilibrio. Ma un giorno anche Chris muore, e trova ad attenderlo Albert, un giovane di colore, che lo guida nell'aldilà e gli dice: "Tu non sei scomparso, sei solo morto". Chris è felice di vedere che per lui il Cielo consiste nell'esistenza in uno dei magnifici dipinti di Annie. Gode della stupenda maestà di questo Mondo dipinto, pieno dei romantici ricordi che aveva diviso con lei. E, mentre pensa questo, ne sente la mancanza, vorrebbe averla ancora con sé. Viene a sapere che anche Annie è morta, ma si è suicidata e quindi per loro non c'è speranza di tornare insieme. Annie è andata all'inferno. Ma Chris non rinuncia, è deciso ad andare verso l'inferno e porta con sé il Tracker, filosofo e saggio dai comportamenti ambigui. Chris entra nell'inferno, passa sopra le teste dei condannati, ritrova infine Annie. La sua costanza ha avuto il premio. Nell'aldilà marito e moglie si riuniscono e capiscono che è il momento di ricominciare daccapo sulla Terra. Ecco allora un bambino e una bambina che si avvicinano e giocano nella grande New York. Questo è anche il primo film di Robin Williams dopo aver vinto l’Oscar per “Will Hunting”, e qui è affiancato da un altro premio Oscar, Cuba Gooding Jr (“Jerry Maguire”), e da una delle mie attrici preferite: Annabella Sciorra. In più Max von Sidow interpreta la Guida che porta Robin Williams all’Inferno, che sarebbe poi Caronte. Il film, “New Age” o no, è scritto molto bene da Ron Bass (“Rain Man”, “Pensieri Pericolosi”), che si è basato sul romanzo di Richard Matheson: l’inizio sul lago è molto bello, l’incontro tra Chris ed i propri figli è gestito magnificamente ed il dialogo tra “Orfeo” e la moglie all’Inferno è ottimo. Questo è un film che può anche non piacere a molti, perché è teso quasi esclusivamente a farci sospirare e piangere, e non sempre ci riesce. Ma è un film interessante e ben realizzato, che utilizza al meglio tutti i talenti artistici a sua disposizione. Certo che se pensate che dopo la morte non ci sia nulla se non il buio eterno questo film non fa proprio per voi...
"Una settimana da Dio", Shadyac Tom, con Jim Carrey, Jennifer Aniston, Morgan Freeman, Steve Carell, Lisa Ann Walter, USA 2003.
Bruce è un reporter televisivo che lavora per una emittente semisconosciuta, realizzando servizi di poca importanza. Una serie di coincidenze lo portano a toccare il fondo. E' a questo punto che Bruce inizia a parlare con Dio lamentandosi del fatto che è ingiusto e che non fa bene il suo lavoro. Improvvisamente, Dio gli risponde e decide di donargli l'onnipotenza sfidandolo a fare il suo lavoro, con una sola condizione: non potrà influire sul libero arbitrio. È a questo punto che il film diviene interessante e divertente.
"The Truman Show", Peter Weir. con Ed Harris, Jim Carrey, Laura Linney, Noah Emmerich, Natascha McElhone, Holland Taylor, Paul Giamatti, USA 1998. “La televisione è quella cosa che renderà tutti (quasi tutti) famosi per quindici minuti.” Andy Warhol. Essere una star ha i suoi difetti, ma esserlo e non saperlo è ancora peggio, perché non se ne hanno neanche i vantaggi. Ma... E se quello che ci circonda fosse tutta una bugia? E non nel senso che gli alieni ci controllano, nascosti nei panni di qualche potentissimo miliardario americano, ma nel senso che il mondo in cui viviamo non sia altro che un enorme set televisivo. E se gli altri ci stessero osservando senza che ce ne accorgiamo? Il giorno in cui siamo venuti al mondo, quello in cui abbiamo fatto il nostro primo passo, quello in cui abbiamo perso il nostro primo dentino... Tutto controllato, tutto finto. Oddio, il dolore per la perdita del dentino era vero, ma tutto il resto era finto. Comprese le persone che ci circondano: tutti attori pagati, persino nostra moglie prende un extra ogni volta che assolve ai doveri coniugali. Una cosa, però, nessuno potrà controllare: la nostra voglia di vivere. Di vivere una vita vera. Il film comincia al giorno 10.909 della vita di Truman Burbank, la star del più seguito show del mondo. All'inizio c'era una sola telecamera, nell’utero della madre. Ora, dopo quasi 30 anni di trasmissione ininterrotta, si tocca quota 5.000. Ci sono telecamere infilate ovunque: nel temperamatite, dietro il frontalino dell'autoradio, nel bidone della spazzatura del vicino di casa... Dappertutto, in modo da non perdere neanche un momento della “vita” di Truman (tranne quelli spinti, si vede solo il vento nelle tende). Il set in cui Truman “vive” è, dopo la Grande Muraglia, la seconda opera dell'uomo visibile dallo spazio (in realtà la Grande Muraglia non si vede, dallo spazio, ma non ha importanza). È stato costruito esattamente dietro le colline di Hollywood, ed è in grado di simulare perfettamente ogni momento della giornata ed ogni situazione climatica. Il sogno di ogni produttore cinematografico. Smalltown, USA, è la classica cittadina della provincia americana in cui vivono i classici americani. Questa Smalltown, Seahaven, si trova su un’isola, il che dovrebbe impedire a Truman di andarsene. Solo che, per quanto ci si possa stare attenti, gli incidenti accadono sempre, specialmente su un set televisivo. Può capitare che un riflettore cada, che una comparsa faccia casino, oppure che un mitomane voglia salutare la mamma in diretta TV. Ma in uno show come questo, che si presta a critiche e attacchi da parte di chiunque per il basso contenuto morale dell’idea portante, può anche capitare che si infiltri qualcuno che vuole avvisare Truman di ciò che sta succedendo veramente. Per uno come lui, che quando alle elementari la maestra chiedeva “cosa vuoi fare da grande?” rispondeva “l’esploratore”, è estremamente frustrante essere confinato su quella squallida isoletta, anche se il (finto) giornale locale la definisce “il posto più bello del mondo”. Un amore giovanile lo porta a voler emigrare alle isole Fidji (“Non puoi andare più lontano prima di cominciare a tornare indietro”, splendida), sarebbe pronto a mollare tutto per farlo, ma in un modo o nell’altro non ci riesce mai. In un modo o nell'altro il regista riesce sempre ad impedirglielo. Ma la nuvoletta fantozziana che fa piovere solo su di lui, le persone che passano continuamente davanti a casa sua per poi girare l’angolo e tornare indietro lo spingono ad architettare la fuga, perché persino lui capisce che non sono esattamente cose normali. Jim Carrey vuole cambiare faccia agli occhi del pubblico, vuole smetterla di fare la parte del cretino ed essere paragonato, dai giornalisti europei, a Jerry Lewis (anche perché il picchiatello in patria è ritenuto pura immondizia). Il pubblico non l'aveva seguito ne “Il rompiscatole” (più perché era un brutto film che perché alla gente non piacesse quel Jim Carrey), ha centrato l’obiettivo con questo. Più perché è un bel film che perché lui sia bravo. Certo, Carrey è bravo: in ogni momento, in ogni situazione, è perfetto; ma come spesso accade pregi e difetti di un film vanno al di là dei semplici attori. Il cast non è certo pieno di grandi nomi, ma non ce n'era nessun bisogno, perché l’unico personaggio che conta veramente è Truman. È davvero il Truman Show. Lo show di Truman e del suo creatore, Cristof, che non a caso è interpretato da Ed Harris. Non c’è bisogno di altri grandi attori che distraggano il pubblico: solo Truman (e Cristof, dopo un’ora di film) contano. Harris è molto convincente nella parte dell’ “autore” televisivo che si crede un artista, si muove con una grande maestria in quella immensa sala regia, gli basta una leggera smorfia, un piccolo movimento, per trasmetterci esattamente le sue emozioni. Un grande attore al lavoro. E' un grande regista al lavoro, di Peter Weir. Si tende a ricordarlo soprattutto per “L’attimo fuggente”, ma quando ancora era in Australia aveva già saputo dimostrare tutta la sua bravura col suo primo film, “Picnic ad Hanging Rock”, per poi riconfermarsi in quel di Hollywood con “Witness”. In questo caso ha avuto grande libertà nell’adattare la sceneggiatura di Andrew Niccol (non bellissima, ma l'idea...) alle proprie esigenze ed alle proprie idee, ed e' stato bravissimo a narrarci la storia dal punto di vista dal punto di vista di Truman, permettendoci così di entrare nel suo mondo, per poi, solo nell’ultima mezz’ora, farci vedere in che modo Cristof ne controlla la vita. Una cosa, però, trovo sbagliata: nella prima versione la storia era ambientata a New York. Weir l’ha voluta spostare in una classica “Smalltown”. Per quanto la cosa sarebbe probabilmente sembrata troppo irreale (come controllare tutti? Come costruire un set realistico?) la faccenda si sarebbe anche fatta terribilmente più intrigante. Insomma, un bel film con un’idea grandiosa alle spalle, diretto e interpretato bene, ma che non riesce ad entrare nel cuore dello spettatore nella sua interezza. Forse la colpa è proprio dell'ambientazione, forse è di tutte le domande a cui non da risposta (cosa succede adesso?), chissà.
"Matrix", Wachowski Andy, con Keanu Reeves, Laurence Fishburne, Hugo Weaving, Gloria Foster, Julian Arahanga, Marcus Chong, Matt Doran, Paul Goddard, Belinda Mcclory, USA 1999. Esistono due realtà: una è rappresentata dall'esistenza che conduciamo ogni giorno, l'altra è nascosta e non accessibile a tutti. Neo vuole disperatamente scoprire la verità su "Matrix", mondo virtuale elaborato al computer creato per tenere sotto controllo le persone. Neo crede che l'unico uomo in grado di rispondere a questa domanda sia Morpheus, personaggio sfuggente considerato l'essere vivente più pericoloso che esista. Una notte, in un locale, Neo viene avvicinato da Trinity, una bella straniera che lo conduce in un altro mondo sotterraneo e gli fa conoscere Morpheus. Questi conduce Neo alla presenza dell'Oracolo, una donna cui è affidato il compito di scegliere l'eletto. L'Oracolo gli dice che a salvarsi sarà lui o Morpheus. Il malefico Cyfer consegna Morpheus alla polizia, e Neo allora cerca di salvarlo, rientrando in Matrix. Dopo una sparatoria, Morpheus viene ferito, ma Neo lo trascina via e insieme scappano in elicottero. Neo è l'eletto. Mentre si avvia all'uscita di Matrix, un poliziotto gli spara e lo uccide. Trinity, accorsa sul posto, dice che lo ama. Neo risorge, Trinity e Neo si baciano. In un mondo dove tutto è possibile, quello che accadrà dopo dipenderà da voi e da loro. La confezione del film è perfetta, con degli ottimi effetti speciali realizzati al computer e delle impressionanti coreografie dei combattimenti corpo a corpo, curate da un maestro del cinema d’azione di Hong Kong. L'atmosfera è quantomai apocalittica, veramente terrificante, grazie anche alle scenografie disegnate dal bravissimo Geoff Darrow. ...e alla fine si esce senza sapere esattamente chi siamo, con l’impressione che qualcosa sia cambiato, chiedendosi se il nostro sia veramente il mondo reale."Che cosa ho fatto di male? Io non sono nessuno!" |