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Il dolore Stampa

 

L’utilità del vivere non è nella durata, è nell’uso che se ne fa della vita: qualcuno ha vissuto a lungo ed ha vissuto poco; badateci finché ci siete. Sta nella vostra volontà, non nel numero degli anni,  aver vissuto abbastanza.

 

 

 

 

La storia del dolore

 

Il dolore è come una tempesta nel mare che lacera, spezza ed affonda tutto ciò che incontra. E' una bomba che esplode nello stomaco e soffoca la voce che invece vorrebbe urlare.

 

 

ondainfrangesciglioTutti noi abbiamo conosciuto e conosciamo il dolore nelle sue varie forme: esso può essere fisico, spirituale, legato ad una perdita, ad un lutto, ad una frustrazione dunque ad uno svilupparsi degli eventi secondo modalità diverse dai nostri desideri. Al dolore e alle frustrazioni si reagisce spesso negando, inizialmente, che l'accaduto riguardi veramente noi stessi, e giungendo all'accettazione attraverso una fase di tristezza; le frustrazioni generano impulsi aggressivi, che è importante riuscire a veicolare, a non rendere distruttiva questa aggressività. Non è sempre facile. L’uomo deve convivere con il dolore, e il rapporto tra umanità e dolore non è sempre stato uguale nel corso dei secoli, né è uguale alle diverse latitudini. Nelle popolazioni primitive lo si interpreta grazie alla magia: è causato da un demonio che entra nel corpo, o da un fluido magico, da un oggetto che porta maleficio, e in questo contesto il dolore sta a testimoniare l'esistenza di uno spirito nemico dentro la persona che soffre. E' su questa base che lo stregone o lo sciamano intervengono sul sofferente con una leggera ferita, attraverso la quale dovrebbe uscire lo spirito maligno che genera dolore.

Aristotele, nel IV secolo a. C., guarda razionalmente al dolore: come Platone, e seguendo le orme di Ippocrate, vuole capire i meccanismi che portano al dolore, per trovare cure e soluzioni. Costoro vedono nel cuore la sede delle emozioni, e la sofferenza è un'emozione, come il piacere.

Con Galeno il centro del dolore diventa il cervello, e nel cervello si incomincia a vedere l'organo che produce e accoglie i nostri sentimenti. Galeno ha buone conoscenze anatomiche e intende combattere il dolore con la chirurgia e con i farmaci: nutre rispetto per il malato e agisce sulla base di ragionamenti medici molto moderni.

Se si fa eccezione per la medicina araba e per Avicenna, il Medioevo non porta reali progressi: il povero malato spessissimo è nelle mani di persone che, più o meno in buona fede, sperimentano, e il "perdere" il paziente durante una cura o un intervento chirurgico (peraltro eseguiti senza attenzione al dolore provocato) è un'eventualità frequente.

Il Rinascimento crea un atteggiamento moderno nell'osservazione del dolore, visto come sensazione trasmessa dal sistema nervoso.

Paracelso utilizza l'etere.

Cartesio vede il dolore come un'esasperazione del tatto. Mesmer nel 1810 scopre l'ipnosi, Hickmann nel 1828 utilizza il protossido di azoto, Eugène Soubeiran nel 1831 scopre il cloroformio, Morton nel 1864 utilizza l'etere.

E' nel 1894 che compare l'aspirina, mentre il Veronal, barbiturico che rivoluzionerà l'anestesia, compare nel 1903.

La lotta al dolore non trova sempre nei medici degli alleati, perché essi hanno paura di vedere scomparire uno dei più importanti segni diagnostici.

Attualmente la ricerca, nella lotta contro il dolore, si orienta in buona parte sullo studio delle endorfine, morfine fisiologiche di natura proteica scoperte nel 1974, presenti nel cervello, capaci di agire contro il dolore e aventi un ruolo emozionale.

Le due facce del problema, il dolore e l'emozione, sono legate a costituire una sola realtà: la sofferenza umana.

Abitualmente chiamiamo dolore quel senso di costrizione nel petto, mancanza di forze e desiderio di chiuderci in noi stessi che proviamo quando perdiamo qualcuno, o qualcosa, cui tenevamo molto.
La perdita può riguardare una persona importante nella nostra vita affettiva, un lavoro che ci garantiva sicurezza economica, ma anche un compagno di giochi con cui eravamo abituati a condividere esperienze piacevoli.
Quando il vuoto lasciato da questa perdita permane a lungo e non riusciamo a riempirlo, il dolore assume quella forma soffusa e durevole che chiamiamo tristezza.
Negli articoli delle settimane precedenti abbiamo preso in considerazione in primo luogo la rabbia, indicandola come reazione emotiva verso un danno e/o una svalutazione, successivamente la paura che abbiamo posto in relazione ad un pericolo. Ora, considerando il dolore la reazione emotiva ad una perdita, completiamo il quadro di quelle che possiamo ritenere le nostre risposte più profonde ad eventi esterni. Per fortuna rimane un’altra emozione, di gusto gradevole e compagna della soddisfazione e dell’appagamento: la gioia, della quale ci occuperemo la prossima settimana.
Consideriamo queste emozioni nella funzione "naturale": indicare l’importanza di un evento (stiamo andando verso un crack finanziario, un collega ci sta mettendo in cattiva luce oppure una persona cara è partita per sempre) e sostenerci nel fare qualcosa d’adeguato per risolvere l’emergenza che si è creata per noi (predisporre e attuare un riassetto finanziario, mostrare chiaramente le nostre ragioni, ricercare nuove conoscenze o approfondire quelle vecchie).
Esiste purtroppo anche un uso, o meglio, un abuso delle emozioni che potremmo dire "tossico", l’argomento è vasto e, in questa sede, possiamo accennarlo solo considerando un personaggio che, prima o poi, tutti abbiamo incontrato: l’addolorato perenne, o la sua versione light, il sempre triste. Un mio amico usa le notizie del giornale, opportunamente interpretate in senso tragico e pessimista come l’iniezione di una dose quotidiana di dolore da consumare fino alle prime ore del pomeriggio. Per la serata, la sua tristezza è garantita dall’incomprensione della moglie. Penso a volte di chiedergli che sogni faccia.
Che cosa possiamo fare per risolvere efficacemente la situazione di vuoto creata da una perdita? Per spegnere la lacerante spia del dolore o quella più tenue, ma opprimente, della tristezza?
I bambini che hanno la sventura di perdere la presenza della madre senza trovare un valido sostituto, tendono a chiudersi e diventare abulici per trattenere e sentire meglio se stessi, e ciò che rimane loro.
Anche gli adulti tendono a reagire ad una grave perdita nello stesso modo. In questi difficili momenti, se abbiamo la fortuna di avere accanto persone disponibili, possiamo chiedere loro conforto attraverso manifestazioni affettuose ed amorevoli: un caldo abbraccio può alleggerire il dolore. Il conforto peraltro è come un farmaco che fa scendere la febbre senza curare veramente la malattia. E’ proprio il desiderio di far cessare la sofferenza, invece, che ci spinge a cercare una compensazione. Un nuovo lavoro o un amore nascente possono cancellare, lentamente o di colpo, la perdita subita e, conseguentemente, la sofferenza dolorosa.
I più bravi nel cogliere ciò che c’è di buono nelle esperienze, possono considerare che ad ogni perdita consegue almeno un aspetto positivo: creare spazio per nuove esperienze. Costoro potranno reagire alle perdite non solo con la tristezza, ma anche con quel sentimento di speranza che accompagna il nascere di nuove opportunità.
E quando la perdita è veramente incolmabile ed insostituibile mentre la strada per lo sconforto e la disperazione appare spianata? Se riusciamo ad attivare la parte più matura e saggia di noi, abbiamo ancora una possibilità: accettare i limiti stessi della vita e del mondo. Nella vita si nasce, si opera e si muore (a volte anche precocemente) e noi esseri viventi, in ultima analisi, non possiamo che accettare questi limiti. 
  

 

 

 

Il dolore 'normale' 
Se in qualche parte nel corpo c’è uno stimolo che può danneggiarla, viene attivata la parte terminale delle fibre nervose che, costituita da sottili filamenti dispersi nei tessuti (per esempio della mano), raccoglie le informazioni e le porta al midollo spinale, evocando l’emozione dolore che induce ad allontanare lo stimolo.

L’allontanamento dello stimolo avviene sia automaticamente (in via riflessa), sia grazie all’apprendimento delle caratteristiche dello stimolo che consente di evitarlo volontariamente se ci accorgiamo della sua presenza. Quest’ultimo aspetto configura la funzione protettiva del dolore che si mette in atto grazie all’apprendimento delle caratteristiche degli stimoli: è in virtù di questo meccanismo che non leviamo la teglia dal forno a mani nude ed usiamo le molle per aggiustare la legna nel camino acceso.

Quello che così si produce è il dolore 'normale' che indica la presenza di un danno e serve a proteggere l’individuo dai pericoli esterni e ad informarlo su un’anomalia del corpo per una malattia.

N.B.: Va osservato che il dolore 'normale', per quanto terribile, risponde agli analgesici ed alle terapie che fermano la trasmissione degli stimoli.

 

 

Ad ogni delitto corrisponde un castigo
Come ad ogni dialetto corrisponde una lingua
Ad ogni intrigo corrisponde una storia
Per ogni gloria esiste sempre un dolore
Non ci sarebbe profumo senza cattivo odore
Ad un luogo comune corrisponde una frase
Come “per ogni bene c'è sempre un male”

 

Come del resto poi
L'utilità di un vaso è
Nello spazio racchiuso in sé
Nel vuoto che ognuno ha dentro sé
A cosa servirebbe un vaso se
Non potessi riempirlo
Con quello che voglio
Se fosse già pieno
Cosa me ne farei

 

Ad ogni eccesso corrisponde un difetto
Vi faccio un esempio di causa ed effetto
Durante una tempesta tra fulmini e tuoni
In una foresta la prima vittima sarà
L'albero più alto e maestoso che c'è
Cresciuto sul monte più imponente che c'è
La torre più alta crolla prima se c'è
Un terremoto che scuote la terra sotto sé

 

Come del resto poi
L'utilità di un vaso è
Nello spazio racchiuso in sé
Nel vuoto che ognuno ha dentro sé
A cosa servirebbe un vaso se
Non potessi riempirlo
Con quello che voglio
Se fosse già pieno
Cosa me ne farei

 

Sai che l'albero più antico al mondo
È fatto di un legno inutile all'uomo
Armadi o scrivanie non nascono da lui
Le falegnamerie disprezzano il suo legno
La sua inutilità è la sua stessa utilità
Come il saggio sa osservare perché non ha nulla da insegnare
Il vento è potente perché non pensa niente
Il mare è così bello perché non ha mente

 

Come del resto poi
L'utilità di un vaso è
Nello spazio racchiuso in sé
Nel vuoto che ognuno ha dentro sé
A cosa servirebbe un vaso se
Non potessi riempirlo
Con quello che voglio
Se fosse già pieno
Cosa me ne farei.

 di Giuseppe Tranquillino Minerva

 

 

 

L’UTILITÀ DEL DOLORE


Gli organismi viventi devono poter reagire rapidamente agli stimoli provenienti dal mondo esterno e ai cambiamenti interni.  La funzione principale del dolore acuto è quella di informare l’organismo sulle aggressioni interne o esterne che subisce. L’uomo possiede dei recettori particolari (i nocicettori) costituiti da terminazioni nervose che hanno il ruolo di informare preventivamente l’organismo su eventuali attacchi. Essi sono distribuiti in tutto il corpo (pelle, muscoli, articolazioni, viscere) ad eccezione del cervello, che è invece protetto da membrane estremamente sensibili, le meningi. La nocicezione può essere considerata un senso, come la visione o l’olfatto, ma contrariamente agli altri sensi essa fa intervenire un largo spettro di meccanismi di transduzione. Sono infatti innumerevoli e diversi fra loro i segnali del mondo esterno che devono essere captati dalle vie del dolore.

I nocicettori hanno la particolare caratteristica di essere sensibili sia a stimoli fisici, come ad esempio un’intensa pressione o a delle temperature nocive per l’organismo, sia a stimoli chimici, come certe sostanze pericolose. I diversi meccanismi di transduzione permettono di trasformare questi diversi segnali in impulsi bioelettrici che giungono fino al cervello. L’attività dei nocicettori e di conseguenza la sensazione dolorosa, deve essere percepita coscientemente solo in caso di lesione, l’organismo deve poter differenziare gli stimoli che rappresentano un pericolo da quelli inoffensivi, come una carezza o il calore di un raggio di sole.


I DIFFERENTI TIPI DI NOCICETTORI
Lo spettro degli stimoli dolorosi che percepiamo è vasto, di conseguenza esistono differenti tipi di  nocicettori. Essi si distinguono sulla base della loro localizzazione (viscere o pelle, muscoli o articolazioni) e sul tipo di stimolo doloroso che li attiva. Nella pelle, le fibre sensoriali responsabili della nocicezione si suddividono in funzione di due parametri cruciali che determinano la velocità di conduzione del segnale elettrico: il diametro della fibranervosa e lo spessore della mielina che l’avvolge. I nocicettori sono le terminazioni libere delle fibre sensoriali di piccolo diametro, da debolmente mielinizzate, fino a non mielinizzate, che si suddividono in fibre Aδ e C. Le fibre C che segnalano al cervello un dolore persistente, sordo, hanno un diametro più piccolo e una velocità di conduzione più bassa (meno di 2 m/sec), le fibre Aδ sono un po’ più rapide (fino a 30 m/sec) e conducono la sensazione di dolore intenso generata da uno stimolo acuto. Paragonate alle informazioni che provengono da altri neuroni del tatto, la cui velocità di trasmissione può raggiungere 100 m/sec, le informazioni legate al dolore si spostano più lentamente. Come per tutte le fibre sensoriali, l’informazione che arriva dai nocicettori non è inviata direttamente al cervello, ma lo raggiunge per tappe successive: le fibre passano infatti dapprima attraverso un primo relè a livello del midollo spinale, poi un secondo a livello del talamo, una specie di centro di ridistribuzione e di analisi delle fibre sensoriali, per arrivare in differenti zone della corteccia cerebrale dove il dolore è interpretato coscientemente dall’organismo.


PER QUALE RAGIONE IL DOLORE È AMPLIFICATO IN CASO DI FERITA
Quando il tessuto di un organismo si ferisce, le proprietà dei nocicettori sono modificate. La zona d’infiammazione diventa ipersensibile e gli stimoli normalmente inoffensivi sono percepiti come un’aggressione dolorosa; tale fenomeno è conosciuto come iperestesia. Questo spiega perché quando si applica anche solo una compressa tiepida sulla piaga di un paziente, essa può scatenare un dolore acuto. L’abbassamento della soglia d’attivazione dei nocicettori è modulato dalle sostanze chimiche liberate dalle cellule lese. Si osserva inoltre una risposta più vivace dei neuroni del midollo spinale, che contribuisce ad aumentare l’ipersensibilità locale dell’organismo. La ricerca medica s’interessa da vicino ai meccanismi molecolari responsabili dell’attività dei nocicettori, per poterli manipolare a fini terapeutici. Il fatto che i nocicettori siano polimodali, cioè attivabili da stimoli di natura differente, complica il lavoro dei ricercatori e costituisce un problema cruciale per le cure palliative. Gli anestetici locali inibiscono globalmente tutti i tipi di recettori sensoriali, e se è vero che un anestetico allevia il dolore, esso blocca completamente  ’informazione sensoriale periferica esponendo l’organismo ad ogni sorta di pericolo. Attualmente i ricercatori studiano la possibilità di dissociare i meccanismi molecolari che attivano i nocicettori in caso di ustione da quelli attivati da una pressione intensa o da sostanze chimiche nocive, così da intervenire in modo selettivo.

 

Il senso del dolore


Con la meditazione e il giusto stato d'animo è possibile riuscire a controllare il dolore. L'importante è trovarvi un significato. E ricordarsi che quando si soffre non si è mai da soli, nell'universo
di Elisa Manacorda

La forza della mente sulla percezione del dolore. La compassione nel rapporto medico-paziente. La mancanza di umanità nella tecno-medicina occidentale... Questi e altri i temi affrontati nel simposio “The Neurophysiology of mind/pain and the consciousness of Pain” in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in Biologia da parte dell'Università di Roma Tre a Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama. Ecco l'opinione di Lama Geshe Jampel Senge, collaboratore e interprete del Dalai Lama.

Lama Geshe Jampel Senge, in che senso la meditazione può interferire con la percezione del dolore?

“Secondo la dottrina buddista, il corpo e la mente sono strettamente interconnessi. E questo accade anche quando si ha dolore, che sia un mal di pancia o una sofferenza psicologica. Rispetto al fatto di poter ridurre o aumentare il dolore, la dottrina buddista spiega questo fenomeno attraverso il concetto di “atteggiamento”, di stato d'animo. Pensiamo per esempio a quelle persone che riescono a camminare sui carboni ardenti, o quelle che intervengono pesantemente sul proprio corpo per abbellirlo, con piercing e tatuaggi. Ebbene, queste persone sono convinte di fare qualcosa di buono per sé. Il dolore è sempre lo stesso, quello che cambia è l'atteggiamento mentale che si ha nei confronti del dolore. Se si pensa che un dolore sia “buono”, non è importante quanto sia forte. Viceversa, se si pensa che un certo dolore non sia “buono” per sé, ma che sia invece tremendo o terribile, anche un dolore piccolo può fare molto male. In questo senso, se si ha un atteggiamento molto positivo il dolore fisico può essere ridotto: la mente è così potente che può abbassare il dolore. Faccio un altro esempio: in alcuni paesi, i contadini lavorano per ore sotto il sole a coltivare la loro terra, senza provare alcun dolore, nonostante il caldo, le bruciature, la disidratazione. Questo è possibile perché sanno che da quel lavoro dipende la loro sopravvivenza. Anche in questo caso, l'importante è l'atteggiamento”.

Ma questo atteggiamento si può apprendere?

“Sì, attraverso la meditazione. Naturalmente non si impara subito, ci vuole un po' di tempo e di pazienza. Quando si medita, si prende su di sé il dolore di altri esseri viventi, aiutandoli in questo modo a soffrire di meno. Noi condividiamo con le altre creature le stesse espressioni della sofferenza. Quando ci si accorge che ci sono tante altre persone al mondo che soffrono, e si crede di poterci fare qualcosa, questo non sarà sufficiente per ridurre il livello di sofferenza degli altri, ma almeno avrà un senso. Non è un atteggiamento facile, bisogna avere delle ragioni per crederci. Ma se si trova un senso nella sofferenza, se si capisce che non esiste il dolore individuale ma un dolore universale, e che alla base del proprio dolore c'è un motivo, una ragione, allora il dolore diventa più facile da sopportare”.

Nella cultura occidentale c'è molta paura della sofferenza...

“Ovunque c'è, nessuno ha voglia di stare male. Anche nella cultura buddista c'è paura del dolore. E non ne hanno paura solo gli esseri umani, anche gli animali. Il timore della sofferenza è un sentimento universale. Tuttavia, poiché tutti soffrono, significa che il dolore fa parte della vita. Dunque non c'è alcun motivo di essere così preoccupati. Questi pensieri e questi atteggiamenti possono aiutare ad attraversare le fasi dolorose della vita in un modo migliore”.

In questa filosofia, che ruolo hanno gli strumenti inventati dall'uomo per soffrire di meno: penso agli analgesici, per esempio.

“I farmaci sono una grande invenzione umana per alleviare il dolore, dunque è bene utilizzarli. Ma non sono privi di problemi. Intanto, i farmaci costano e non tutti se li possono permettere (penso per esempio ad alcuni paesi dell'Africa). In secondo luogo, i farmaci possono essere utili per un periodo determinato di tempo, e devono essere sempre disponibili, e non sempre è così. Una mente allenata, invece, è sempre pronta all'uso, non costa nulla e non ha effetti collaterali. Il punto è che non dobbiamo sempre pensare al dolore come qualcosa di fisico: dobbiamo anche pensare al dolore mentale, alla sofferenza emotiva. Contro malattie come la depressione, per esempio, le pillole possono fare solo una parte del lavoro. E' sempre importante avere un atteggiamento giusto”.

Secondo lei si può insegnare ai medici occidentali a gestire il dolore dei pazienti in un modo diverso?

“Dal punto di vista della cultura buddista, uno degli elementi fondamentali dell'esistenza è la compassione, la gentilezza. La medicina occidentale è altamente tecnologizzata, e probabilmente ha perso il tocco umano. Nel rapporto tra il medico e il paziente, quest'ultimo deve avere fiducia in chi lo cura, deve pensare che costui stia facendo di tutto per la sua vita, e trarre da questa certezza la forza della guarigione. Oggi invece nella medicina occidentale va tutto di fretta, manca il sentimento, e si pensa che solo i farmaci possano fare miracoli. Invece è il tocco umano, la compassione in ogni situazione, e a maggior ragione nella malattia, che può aiutare a stare meglio”.


Geshe Jampel Senge, Lama tibetano, è assistente dell'abate del monastero di Rikon, Svizzera 

 

 

Il dolore, si dice, è universale. Ma è proprio vero che sia così? Nel dolore universale è di certo il danno - esempio: una malattia, un handicap -, non il modo in cui il danno è vissuto. Ma il danno, quand'anche è universale, è variamente interpretato. Un induista soffre in modo diverso da un cristiano, questi, diversamente, da chi non crede. Se così è, l'esperienza effettiva del soffrire è data dalla circolarità tra danno-senso, più esattamente dalla tensione tra il senso, a cui sempre e in ogni caso si appartiene, e il non senso che il dolore produce. Il dolore infatti lacera la ragione, costringe l'uomo a interrogarsi su di sé. Perché a me? Cosa ho fatto per meritare questo? Ma ancor più sul senso del mondo. Le cose si inabissano e l'enigma del male irrompe in tutta la sua atrocità. Eppure mai, come nella sofferenza, si cercano parole per dare senso all'insensato. E, bene o male, le si trova. Abbiamo preso a soffrire nel momento stesso in cui abbiamo cominciato a vivere. Gli uomini nascono in scenari di senso che li precedono e che danno loro il linguaggio e i termini per divenire interpreti, più o meno abili, del loro soffrire. Abili, e non da soli, gli uomini infatti riescono a condividere la comune sofferenza, a farsene reciprocamente carico. Ed è anche giusto dire che lo devono. Tuttavia nessuno è mai sostituibile nel suo dolore. Ognuno è chiamato a giocare la sua parte. Riuscire, nonostante il dolore, a portare a compimento una vita. Ma di questo poco si può dire. Infatti nulla più del dolore svela la fragilità dei singoli, la loro irrepetibile unicità. Manifesta insieme la comune esposizione all'imponderabile. 

 

 

Filosofia del dolore

di Fabrixio Desideri

Sul senso del dolore


E’ possibile pensare il dolore libero dalle sue tradizionali connessioni con il male (in senso metafisico e morale) e con la colpa (in senso teologico e religioso)? In entrambi i casi, il dolore è inteso come segno di altro. Allo stesso modo è inteso come segno di altro (di una causa patogena) da uno sguardo clinico. In tutti questi casi il dolore è per cosi dire investito simbolicamente o semeioticamente (nel caso di una considerazione diagnostico-terapeutica) prima ancora di venire analizzato nella sua autonomia: nello strato primario di senso che gli è proprio prima di ogni sua simbolizzazione, prima di ogni suo significato temporalmente possibile. Un’operazione del genere è senz’altro rischiosa. Sottrarre il dolore alla pluralità sincronica e diacronica di contesti nel quale viene inteso rischia di vanificare l’oggetto stesso della ricerca in un qualcosa di fantasmatico. Ma il dolore non è un fantasma, come tutti sappiamo; è bensì qualcosa di cui ognuno di noi mortali ha fatto, fa e farà esperienza nella misura che gli è data. C’è certamente una relatività del dolore alle differenti significazioni di cui viene investito.
Questo ci permette di affermare che nel caso del dolore, almeno fino ad una certa soglia, la rappresentazione che ne abbiamo agisce potentemente sulle stesse modalità della percezione di esso. Proprio per questo motivo il dolore ci appare come “un essere labile che secondo l’intensità, la durata, il luogo passa incessantemente da una categoria all’altra” [R. Rey, Histoire de la douleur, La Découverte, Paris 1993, p. 11]. Dirne la labilità, ossia la difficoltà di afferrarlo come tale, non è però lo stesso che dirne il non-essere. Un essere labile è pur sempre un essere, ha per così dire una sua consistenza ontologica. Il valore di questa consistenza aumenta se si pone mente al fatto che proprio nel suo essere relativa al contesto di significatività è implicito un passaggio che merita considerare. Si tratta appunto del passaggio dal dolore alla sofferenza: dalla consistenza oggettiva del fenomeno a quella puramente soggettiva.
La prima pulizia semantica da fare consiste nel distinguere logicamente dolore da sofferenza. Il dolore viene sofferto - è cioè motivo di sofferenza, ma proprio perciò non coincide con questo termine. Del dolore si ha appunto esperienza - per citare il titolo dell’importante libro di Salvatore Natoli [L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 1986]. Il dolore, insomma, lo patisco.
E così dicendo indico in qualche misura la sua oggettività - quella oggettività ribadita dal fatto che in latino, ossia nella lingua da cui deriva il termine «dolore», il verbo derivato dal sostantivo (dolor) poteva essere costruito con un soggetto inanimato (o in una costruzione impersonale o ponendo a soggetto la parte dolorosa). Ciò a ulteriore conferma del fatto che il dolore, proprio in quanto qualcosa di sostanzialmente oggettivo, è altro dal soggetto che lo soffre e ciò fino al punto di poter esercitare su di esso una qualche forma di tirannia. Nella sua oggettiva alterità il dolore (ci) accade come può accadere la pioggia. E nella misura in cui alla sostanza del dolore
inerisce qualcosa della pura casualità (nel dolore si palesa per così dire il volto sinistro e il carattere non sempre lieve della contingenza) esso può esser detto anche l’essenzialmente l’imprevisto: quanto si presenta con la forza del colpo che viene inferto. Non per niente l’immagine tradizionalmente più capace di indicare cosa il dolore possa significare per chi lo subisce è l’immagine della ferita. Nella lacerazione del corpo, in una intrusione violenta e spesso inaspettata nei fragili confini che definiscono l’appartenenza al mondo di ogni vivente, si può intuire in uno l’evento e il senso primario del dolore. Ma una volta penetrato con la forza indomabile della pura contingenza il dolore tende a permanere con la dura pesantezza di un oggetto che si è spostato all’interno e del quale è difficile liberarsi. E’ il passaggio nel quale il dolore si trasforma da locale a globale, indifferentemente al fatto che si tratti di un dolore fisico o puramente morale. Decisivo in questo passaggio è che il dolore giunge a pesare, a farsi globale pervadendo il soggetto, nel momento stesso in cui afferra la facoltà rappresentativa. E nel momento in cui il dolore si fa pervasivo in virtù della circolarità inflattiva che si è innescata tra la sua origine (il suo carattere di ferita) e la sua rappresentazione, proprio allora appare difficile prendere distanza da esso. Difficile appare insomma la possibilità di rappresentarlo, di metterlo nella giusta prospettiva. Si potrebbe anche dire che nel dolore giunge a manifestarsi con una buona dose di naturale ironia la potenza dell’oggettività su ogni illusione pan-prospettivistica. Ed il colmo dell’ironia sta nel fatto che ciò avviene proprio nel corpo del soggetto (e, dunque, se seguissimo lo Zarathustra di Nietzsche nella sua grande ragione). Messo a distanza come oggetto di una qualche theoria il dolore forse non è più tale, è il ricordo di esso. Comunque, appunto in quanto peso che debbo sopportare, emergenza di una alterità oggettiva e prepotente all’interno della soggettività il dolore non coincide con la sofferenza: il peso e colui che lo sopporta (che lo soffre) non significano lo stesso.
A questa prima distinzione tra (oggettività del) dolore e (soggettività della) sofferenza c’è poi da aggiungere un’osservazione. Quello che abbiamo chiamato l’investimento di significati ossia, detto in maniera più concisa e forse più pertinente, quella che potremmo dire la simbolizzazione del dolore è già una strategia di contenimento nei suoi confronti, una qualche forma di messa a distanza che si preoccupa di rimediarvi. Una strategia necessaria e inevitabile che non fa altro che costituire il correlato tecnicamente metafisico (o, se volete, culturale) di quella che sul piano medico-clinico è la semeiotizzazione del dolore (la sua riduzione a sintomo).
Potremmo anche concludere che va bene così: che così è giusto, in quanto la verità del dolore consisterebbe nel suo esser segno di altro (nella sua natura sintomatica); con la conseguenza, però, che il suo fenomeno non può che venire inteso in funzione di un’idea più forte (sia essa
una causa, un Dio, una colpa e così via) capace di spiegarne l’origine. Ma così facendo rischiamo di assimilare frettolosamente il dolore ad un qualcosa di puramente negativo e la difficoltà di
trattenerlo nel pensiero, di fissare i contorni della sua forma a questo punto si trasformerebbe in una vera e propria impossibilità. Con questo si vuole affatto negare l’aria di famiglia che spira tra il dolore e la pura negatività. Neghiamo semplicemente che vi sia coincidenza tra i due termini.
Limitatamente a questo riguardo, il negativo si presenta piuttosto come l’effetto del dolore. Il che lo si comprende subito se si prova a pensare il negativo come tale ovvero privo della connessione che il dolore produce tra il ‘suo’ soggetto e la negatività. Astratto dalla dimensione di affettiva effettività che lo riferisce ad una sostanza divenuta soggetto, il negativo può apparire come qualcosa che puramente dilegua: come un puro auto-sopprimersi. La labilità del dolore in questo caso si farebbe assoluta e anche in questo caso il dolore perderebbe la dignità di essere in senso proprio - svanirebbe in parvenza nel momento che venisse ancora una volta inteso come funzione rivelativa di altro, sia pure questo il negativo in quanto tale.
Per poterlo pensare, dobbiamo aver rispetto del dolore, del nomos che gli è proprio. Perciò se lo intendiamo come negativo dobbiamo pure aggiungere, come abbiamo già adombrato, che si tratta di un negativo smisurato e tiranno. Nei suoi Frammenti d’una Filosofia dell’Errore e del Dolore, del Male e della Morte [Guanda, Modena 1937] Giuseppe Rensi osserva come il dolore mostri la sua dismisura, il suo carattere infinito, non appena il pensiero cerchi di scavarlo dentro, di frugarlo in ogni angolo “spremendone tutto il senso e comprendendone tutte le ripercussioni” (p. 64); allora - scrive - “diventa smisurato”, ma lo diventa - e qui sta l’acutezza della sua osservazione - appunto in quanto lo è già, in quanto la smisuratezza gli appartiene essenzialmente. Proprio perché “smisurato” per natura, il dolore si impadronisce dell’anima come un tiranno ossia come quanto minaccia fino all’impedimento quel “divenir uno da molti” che per Platone costituisce il governo di sé. Per usare i termini impiegati dal Petrarca nel De remedis utriusque fortunae (l’opera scritta tra il 1354 e il 1366, con la quale il Petrarca si misurava con la tradizione medievale e in particolare con il De miseria humanae conditionis del Cardinale Lotario, il futuro Innocenzo III) nel Dolore, che qui nel dialogo XXXIX conversa con la Ragione, la “Repubblica” patisce uno signore “ingiusto”, iniquo”, “crudelissimo”, “potente” e cattivo (“malo”) [la volgarizzazione del testo è quella di Giovanni da San Miniato]. Per quel dialogo senza voce che l’anima intrattiene con se stessa, se così vogliamo identificare la Ragione del Petrarca, misurarsi con il dolore significa la sfida politicamente decisiva. Solo misurandosi con la tirannia del dolore il pensiero può salvarsi. Ma la salvezza del pensiero ha come sappiamo il nome di sophrosyne termine che solitamente traduciamo con quello di “Temperanza”. E dunque solo quella mente capace di temperare gli affetti dell’anima e, in questa attività, di temperare il pensiero stesso, è una mente capace di salvezza ovvero capace unificare (fare una) la pluralità dell’anima in quello che potremmo dire un buon governo. Saggio è allora colui che riesce a temperare le differenti voci dell’anima, colui che è capace di ascoltarne le differenze persuadendole all’armonia di una unità
sinfonica. Ma per questo è necessario un confronto con quella voce smisurata e tendenzialmente tiranna per natura che è la voce del dolore. Un confronto con il volto mostruoso, policranico (tifonico) di un’alterità oggettiva e interna nel medesimo tempo; un confronto che potremmo
definire come il correlato logico-psichico di quello logico-trascendentale che Platone metterà in scena nel Sofista. E’ quanto emerge chiaramente dal libro X della Repubblica nel contesto della critica platonica all’arte e alla poesia. In questo confronto si tratta di dare una misura, un metron, al dolore; compito di una mente amante di sophrosyne è quello di metriazein pròs lypen:: dare un metron al dolore. In questo confronto il logos deve conoscere la lotta e il contrasto col dolore (deve machestai te kai antitenein tè lype [Resp. 604a). E qui per Platone si misura tutta l’inconciliabile e polemica distanza tra la filosofia e la poesia tragica, in quanto essa conduce piuttosto ad una “anamnesis del pathos [del dolore sofferto] e a lamenti” [Resp. 604d], come se a giocare le proprie mosse nella tragedia fosse puramente l’aloghiston.
Giustamente Emanuele Severino, nel suo importante libro dedicato ad Eschilo [Il Giogo.
Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989], osserva a questo riguardo che una tale contrapposizione tra filosofia e pensiero tragico è insostenibile e che “la verità come nomos e metron sta appunto al centro del pensiero di Eschilo” [ivi, p. 331]. La tesi generale del libro di Severino è diametralmente opposta a quella di Nietzsche, ossia a quella posizione che vede nella tragedia greca il “sì” al dolore della vita. Tale tesi (quella severiniana) può essere riassunta in questi termini: “Eschilo dice che la verità dell’epistéme è il vero rimedio del dolore” [Severino, 31] e questa verità consiste nella capacità della mente, per dono di Zeus, di cacciare “con verità il dolore e la vanità e la follia che lo accompagnano” {ivi, 39]. Il senso del sapere epistemico, del sapere dell’essere come immutabile, starebbe insomma nel “salvare dal dolore” [ivi, 42]: “senza dolore, niente verità, ma è la verità a liberare dal dolore” [ivi, p. 40]. Contestando la tradizionale lettura dei famosissimi versi 177-78 dell’Agamennone (tòn pathei mathos thenta kyrios echein) - una lettura che vede nel dolore la via alla sapienza e talvolta anche la stessa causa di essa - Severino intende piuttosto la sapienza come signoria sul dolore: “Zeus - così suona la sua traduzione - ha stabilito che il vero sapere acquisti potenza sul dolore” [ivi, p. 51]. “Condizione necessaria” eppure “insufficiente” della sapienza, il dolore, come “ciò che vi è di più evidente per
i mortali” [ivi, 41], deve essere ricondotto alla verità del Tutto ed è in questa riconduzione che l’uomo si libera del suo peso, acquista signoria su di esso.
L’errore di Severino sta, a mio avviso, nell’identificare la liberazione dal peso del dolore, che consegna la mente alla follia, con la liberazione dal dolore come tale (come questa tesi influisca poi sulla stessa lettura del senso platonico del dare misura al dolore tralascerò qui di discutere - a questo proposito osservo soltanto che misurare non può in alcun modo identificarsi con il ridurre ad un ni-ente il misurato). In questa liberazione il dolore risulta annientato. La via della sapienza che Zeus indica ai mortali starebbe così in un pensiero che “si salva dal dolore” [ivi, 42] espungendolo da Sé. E se la sfida del pensiero tragico fosse invece quella di farci intendere che il pensiero che salva è quel pensiero che acquista signoria non sul, ma nel dolore?
Per tornare alla metafora politica: se da una parte l’annientamento del tiranno non implica necessariamente il buon governo di Sé (della polis dell’anima), dall’altra potrà salvarsi solo quel pensiero che riconosce la voce del dolore fino ad ospitarlo in sé stesso come un’intima alterità.
Detta così, senza svilupparla, questa soluzione potrebbe sembrare molto hegeliana, sembrando appunto sostenere che il pensiero tragico consiste in quell’estrema conciliazione che passa attraverso l’estremo riconoscimento del negativo. In un tale riconoscimento il dolore acquisterebbe senso, con un significato non molto diverso da quel gesto del ricondurre al Senso dell’immutabilità del Tutto in cui per Severino si può riassumere l’epistéme eschilea.
Acquisterebbe senso come momento logico della dialettica dell’autoriconoscimento: come momento necessario e pur sempre tolto della stessa figura dell’autocoscienza.
A ben vedere, in questa riduzione che darebbe senso al dolore, la dialettica di signoria e servitù tra esso e l’anima risulterebbe semplicemente rovesciata ed il rapporto tra Sé e l’alterità del dolore permarrebbe in una essenziale asimmetria, anche se di segno opposto. E così tornerebbe la domanda se in tal modo abbiamo veramente pensato il dolore, intendendolo nella sua autonomia ossia non come un mero negativo, ma come un nodo ostinato che riposa in sé stesso ed in ciò ha il proprio principio.
Nel saggio sul dolore del 1934 Ernst Jünger sembra intuire qualcosa di tale ostinata ‘inseità’ del dolore affermando, appunto, il carattere immutabile del dolore in quanto “unità di misura” e l’essenziale mutevolezza del modo con lui l’uomo si pone di fronte ad essa [Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, 139]. Nell’ottica jüngeriana è il dolore stesso a misurare chi lo patisce fino al punto che anche il mutevole rapporto nel quale questa misura si realizza sarebbe sottratto alla coscienza, pur costituendo - osserva Jünger - la miglior pietra di paragone per identificare una razza [di passaggio: è innegabile l’impasto biologistico-metafisico che fa da sfondo alla meditazione jüngeriana]. Stretto tra la nostalgia di un atteggiamento asceticosacerdotale o eroico-guerresco nel quale comunque non si rifugge il rapporto con il dolore tenendo sempre la vita in pugno e la deprecazione di quel mondo della sensibilità ipertrofica ed egocentrica in cui il dolore è inteso come una potenza che va innanzitutto evitata, Jünger saluta nel dolore quella potenza che resiste come un segno mirabile e, dunque, “l’impronta di una struttura metafisica” in quel processo di svalutazione di tutti i valori nel quale si afferma il nuovo tipo di uomo, quello che ha fatto della tecnica ( e dunque del progredire dell’oggettivazione della vita) la sua uniforme [cfr. ivi, p. 168]. Quello che non si capisce dal tono oscuramente profetico delle ultime pagine jüngeriane (dove con chiarezza risulta soltanto “la necessità, per l’individuo, di prender parte malgrado tutto alla macchina bellica”) è se nel rapporto con il dolore si manifesti comunque un contromovimento meta-tecnico o se in esso si dimostri la tecnica per eccellenza, quella eroico-sacerdotale capace di un perfetto dominio della natura e dunque anche di sottrarsi alla tirannia del dolore nel perfetto estraniamento da sé e nella capacità di tenere la vita in pugno (ivi, p. 153).
Un passo avanti oltre questa irrisolta ambiguità, dove il nodo da sciogliere appare appunto quello che lega dolore e tecnica, è compiuto da Heidegger in La questione dell’essere apparso per la prima volta nel 1955 con il titolo Über die Linie nella Festschrift per il 60° compleanno di Jünger e successivamente ripubblicato in Wegmarken. Qui Heidegger commentando il saggio jüngeriano sul dolore ne coglie la stretta connessione con il libro su Der Arbeiter e giunge a sostenere che la connessione tra dolore e lavoro è quella che costituisce il
tratto fondamentale della metafisica hegeliana. Lavoro e dolore rivelano per Heidegger la loro “intima parentele metafisica” nella “stessa (e non identica) appartenenza alla negazione della negazione” [M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 353]. Il tratto che li accomuna è l’“assoluta negatività” come una “forza infinita” della realtà. In entrambi i casi, potremmo chiosare, si manifesta il concetto come esistente e quindi come immanenza della contraddizione.
Sia il carattere intenzionalmente soggettivo del lavoro sia quello aintenzionalmente oggettivo del dolore convergerebbero, così, nella comune manifestazione di quell’inquieto rapporto tra alienazione ed identità costitutivo della vita dello Spirito. E’ come se nelle figure del lavoro e del dolore si potessero fermare i poli estremi che caratterizzano il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza. Se queste sono conclusioni che Heidegger lascia intuire alla fantasia intellettuale del lettore, ancor più sfuggente è nell’osservazione che segue. Questa riguarda il problema di pensare fino in fondo - “risalendo al di là della Logica di Hegel” - la relazione del lavoro, “come tratto fondamentale dell’ente”, con il dolore. Il problema sarebbe insomma quello di pensare l’unità di lavoro e dolore nella sua espressività ontologica. E a questo proposito, per Heidegger, “solo la parola greca che sta per dolore, cioè algos, ci direbbe qualcosa” [ivi, 354]. Del termine Heidegger accetta la tradizionale opinione circa il suo imparentamento con alego, che come intensivo di lego significherebbe “l’intimo raccogliere” [das innige Versammeln]. Il dolore, così, potrebbe essere tradotto anche con “ciò che raccoglie nel più intimo” [das ins Innigste Versammelnde] ossia con lo stesso significato che impronta il concetto hegeliano di “concetto” e di “sforzo” sul piano mutato “della metafisica assoluta della soggettività”. Se giustamente Heidegger intende il dolore come l’altro (dal punto di vista) della soggettività e nello stesso tempo come il suo stesso (come quanto al di là di ogni intenzione gli appartiene), sommamente problematica diventa però la sua proposta di traduzione di algos. E la problematicità comincia già dal momento che Heidegger accetta senza ulteriore indagine la parentela tra algos e alego (en passant noto soltanto come lo Chartraine [cfr. P. Chartraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Klincksieck, Paris 1968, ad vocem] non sia affatto il solo a contestare una simile parentela).
Algos è un termine ricorrente soprattutto in Omero (92 occorrenze) e nei tragici (22 occorrenze in Eschilo, 17 in Sofocle e 44 in Euripide) [le restanti 18 occorrenze presenti nel Thesaurus della Lingua greca si distribuiscono in vari autori del periodo classico ma con la
frequenza di una due presenze (3 in Platone)]. Nei contesti in cui compare o ha il significato di essere oggetto del paschein oppure si presenta come ciò che afferra l’animo ( e non solo quello dei mortali, ma anche quello degli dèi). Rispetto al termine odynè che indica un dolore acuto e lancinante generalmente ben localizzato, algos è il dolore che afferra la totalità del corpo e dell’anima. Questo è chiarissimo in Omero dove odynè è termine tecnico appartenente al lessico della medicina, mentre algos è spesso il dolore oggetto di racconto, ma soprattutto il dolore che tende a permanere e a ripetersi, il dolore all’origine di una sofferenza in senso forte. Più vicino al significato di algos è allora quello del termine pèma, ma qui il senso è piuttosto di una causa che arreca dolore e dunque sventura. Difficilmente, allora, possiamo intendere algos nel senso proposto da Heidegger ovvero come “ciò che raccoglie nell’intimo”. L’algos si impadronisce dell’anima come qualcosa che tende le sue corde fino a spezzarle. Algos è strazio, intima lacerazione: ferita che dura e, dunque, ferita nel (del) pensiero stesso. Con la sua proposta di traduzione del termine Heidegger intuisce forse l’intimo nesso che stringe l’ insorgere del dolore nella mente e la nascita stessa del senso. Per dirla in breve, intuisce oscuramente il darsi in uno di dolore e coscienza, ma non nel modo di in un intimo raccogliersi, piuttosto in quello di un intimo divaricarsi. Ciò, abbandonando Heidegger, risulta con una certa chiarezza da una lettura del Prometeo incatenato che non si fermi alla lectio facilior del rapporto tra techne e Necessità. La techne che Prometeo dona agli uomini - si potrebbe dire parafrasando Heidegger - non è niente di tecnico: il ladro del fuoco, come ben intende Hermes, è un sofista ovvero un esperto nell’usare il proprio ingegno (vv. 944-46) e per questo il fuoco stesso è da intendersi in senso meta-tecnico: come possibilità di ogni techne. Tutto questo è chiarissimo se leggiamo il grande discorso prometeico del Secondo Episodio facendo attenzione al suo incipit. Qui Prometeo non appare soltanto come colui che fa dono ai mortali di un segreto divino, ma - almeno in questo passo - anche come colui che assegna ai nuovi dèi le loro prerogative. Eppure di ciò e della pena che gli è stata inflitta preferisce tacere. C’è un dolore che precede ogni parola e proprio questo è quello sofferto da
Prometeo; è il dolore del flettersi del pensiero, del suo intimo piegarsi fino a lacerare la mente: “synnoią dè daptomai kear”. Qui il syn-noein è più che un semplice meditare, è un con-scire, un consapere che proprio nel gesto del piegarsi lacera il cuore. Prometeo, così, è figura del sorgere in uno di dolore e coscienza e, insieme, della loro necessaria distanza. E appunto questo, forse, è il vero dono che Prometeo fa ai mortali: li fa padroni della loro mente (phrenòn epebolous): “Dapprima essi vedevano, ed era un vano guardare; ascoltavano ma senza udire; simili alle forme dei sogni trascorrevano la loro lunga esistenza confusi e senza meta.”. Prima un’esistenza gravata dal dolore, ma come puro peso, come un’inesplicabile oppressione (pèmata) quale può gravare sulla mente di infanti, poi un dolore con-saputo e in questo con-sapere, nella coscienza, la possibilità di dargli una misura. In questo spazio che si è liberato, in questa semplificazione del pensiero non più in balia di una moltitudine di voci in quanto capace di piegarsi in se stesso (di riflettere), nasce ogni tecnica, come arte di rimediare al dolore. Se Techne è sempre più debole di Ananke, non lo è forse quella potenza che, come per dono, emerge nel gesto del syn-noein. Lì emerge quella che Coleridge avrebbe chiamato “la potenza di iniziativa dell’intelletto”. Cedere a un più saggio consiglio significherebbe per Prometeo negare tutto ciò e anche questo egli lo sa in anticipo. Il nodo che si stringe nel suo puro comprendere la radice del dolore è quello di una guerra di cui non si viene capo (apolemos polemos): di un varco senza passaggio (apora porimos).
Eppure qui, nella rocciosa ostinatezza prometeica, si può intendere il gesto unico e irripetibile, il gesto che può essere soltanto reiterato, nel quale il pensiero affronta la smisuratezza del dolore.
E’ appunto nella reiterazione di questo gesto che sta la comunità dell’umano, come comunità di coloro che sono in attesa e in ricerca di una misura. Alla luce di una tale ricerca la natura stessa del dolore non appare più necessariamente come pura tirannia; nel nascere del dolore si intravede la possibilità stessa del bene, il senso della sua nascita paradossale: “Dolor autem - scrive Agostino - [...] sive in animo sive in corpore sit, nec ipse potest esse nisi in naturis bonis” [De Natura Boni, 20]. Parafrasando lo Hölderlin di Patmos (e qui la parafrasi non è certo innocente), potremmo concludere dicendo che là, nel difficile luogo (apora porimos) nel quale il dolore ha principio, a noi è dato scorgere in necessaria modestia - nella ricerca di un modus e dunque di una misura - la radice stessa del bene. Quanto si mostra in questo luogo è il gesto stesso della comprensione: quel puro afferrare il senso che precede ogni atto interpretativo e nel quale ogni interpretare ha termine.

 

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