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I miei maestri 1 Stampa

"Ciò che è essenziale è il presupposto che le idee e le emozioni (in un senso molto lato del termine) abbiano una loro forza e realtà. Esse sono ciò che noi possiamo conoscere e al di fuori di esse non possiamo conoscere nulla. Le regolarità o leggi che legano insieme le idee: ecco le verità. Esse sono la nostra massima approssimazione alla verità ultima". Gregory Bateson  

Gregory Bateson 

 

 

 

gregory_batesonOltre a Rogers, Jung e Bowlby un altro capostipite di riferimento per me importante è Gregory Bateson (c'è un romanzo che racconta uno spaccato dei suoi primi anni da antropologo, quando s'innamora della Mead che incontra in Nuova Guinea, che andrebbe letto per conoscere più a fondo l'animo di questo grande ricercatore: "Euforia", scritto da Lily King) in particolar modo faccio riferimento alla sua teoria del "DOPPIO LEGAME" e del "PARADOSSO".

Negli anni tra il 1940 e il 1950 un gruppo di studiosi tra cui matematici, fisici ed ingegneri diede vita alla teoria generale dei sistemi. In quel periodo era stato stabilito che fenomeni differenti (biologici e psicologici) condividevano gli attributi di un sistema; per SISTEMA si intende una unità intera e unica che consiste di parti in relazione tra loro, tale che l’intero risulti diverso dalla semplice somma delle parti e qualsiasi cambiamento in una di queste influenzi la globalità del sistema.
La teoria generali dei sistemi si occupa di studiare e comprendere le regole strutturali e funzionali che possono essere considerate valide per la descrizione di ogni sistema, indipendentemente dalla sua composizione. Quattro sono gli attributi fondamentali:
1) elaborazione dell’informazione,
2) adattamento al cambiamento delle circostanze,
3) auto organizzazione,
4) automantenimento.

Norbert Wiener trovò che la comunicazione e l’autoregolazione attraverso la comunicazione sono requisiti essenziali per l’operatività dei sistemi. L’informazione riguardante i risultati delle attività passate è riportata nel sistema, andando così ad influenzare il futuro. Questo processo si chiama di retroazione autocorrettiva (self corrective feedback) e lo stesso Wiener denominò l’investigazione scientifica dei fenomeni autocorrettivi CIBERNETICA, che comprende quindi lo studio di autoregolazione, autoriproduzione, adattamento, elaborazione ed immagazzinamento dell’informazione e i comportamenti finalizzati.
Gregory Bateson venne a contatto con il pensiero cibernetico e pensò immediatamente che potesse essere applicato per descrivere le interazioni umane. Essendo un antropologo, desiderava riuscire a spiegare che sia l’uniformità che la variabilità dei comportamenti umani nelle diverse culture sono governati da regole ben precise.
In particolare Bateson cominciò con lo studio di una cerimonia chiamata “naven” esistente tra i cacciatori di teste della Nuova Guinea. Bateson aveva osservato che questo rituale serviva a consolidare e cementare i rapporti di parentela più fragili; infatti, mentre il legame patrilineare era piuttosto forte, quello con il clan materno per quanto molto importante poteva rompersi facilmente se i congiunti della madre non avessero sfidato l’ostentazione che arrivava dal lato paterno della famiglia. Questo fatto avrebbe creato grandi difficoltà nella stabilità sociale, e il comportamento naven ripristinava invece l’equilibrio che era reso precario dall’ostentazione di forza del ramo paterno.
Bateson distinse due tipi di comportamento: quello simmetrico in cui i protagonisti stanno su un livello di uguaglianza. Ciò però può modificarsi fino a rischiare la rottura della relazione; lui definì questo comportamento asimmetrico in quanto una persona assume una posizione contraria rispetto al modo di porsi assertivo o sottomesso dell’altro.
Bateson affermò che la società da lui osservata conteneva due tipi di forze: da un lato quella che spingeva i partecipanti a schemi di progressivo antagonismo fino alla possibile rottura da parte di un gruppo; dall’altro quella che sosteneva l’adattamento, il compromesso e la coesione sociale. In questo comportamento ciascuna parte reagisce alle reazioni dell’altra e Bateson vedeva in queste forze un equilibrio dinamico. In seguito scoprì che la teoria dei sistemi poteva spiegare questo equilibrio con la nozione di autogoverno attraverso la retroazione (feedback), per cui l’informazione che giunge da una data azione viene ricorsivamente reintrodotta nel sistema e gli consente di regolare l’attività successiva modificandola.
C’è una retroazione positiva in cui l’informazione aumenta la deviazione del sistema dal proprio stato iniziale; c’è una retroazione negativa in cui l’informazione riporta il sistema allo stato iniziale e diminuisce la deviazione.
In seguito Bateson riuscì ad ottenere dei fondi per studiare i processi della comunicazione, in particolare quelli della comunicazione familiare, e così diede vita alla scuola di Palo Alto; egli partecipò solo a questo primo progetto poi si interessò di altro. La scuola di Palo Alto, invece, divenne una vera realtà nello studio della comunicazione e in seguito della terapia della famiglia. Inizialmente l’interesse andò alle famiglie schizofreniche.
La novità di questa scuola consiste nello spostare l’interesse psichiatrico verso i processi e i pattern anziché verso i contenuti. Il gruppo di Palo Alto puntò per la prima volta l’attenzione sul sistema familiare come totalità anziché come agglomerato di individui; ciò consentì di elaborare un nuovo linguaggio che descriveva fenomeni sovraindividuali invece che processi interiori quali affetti e motivazioni. Questo annunciava un cambiamento di paradigma: l’individuo ed ogni gruppo sociale, in ordine di complessità crescente, erano visti in relazione reciproca, come sottosistemi all’interno di svariati sistemi contestuali differenti.
 

La famiglia come sistema cibernetico

La scuola di Palo Alto si rese conto in fretta del vantaggio di vedere la famiglia come un sistema e i vari membri come parti interconnesse, ma andò ancora più in là vedendola come un sistema cibernetico che si autogoverna attraverso la retroazione. Infatti, con la retroazione negativa il sistema in un certo senso si “raddrizza” e ritorna allo stato originario ogni volta che viene colpito con informazioni nuove che tenderebbero invece a sbilanciarlo. Soprattutto nelle famiglia schizofreniche si è potuto osservare come il sistema sia costantemente “rigido” e quindi usi la retroazione negativa per ricondurre il sistema allo stato precedente.
Inoltre, la famiglia viene vista come un sistema omeostatico, nel senso che possiede una sorta di “autoregolazione automatica” che tende costantemente a mantenere il sistema riducendo qualsiasi deviazione che risulti dall’introduzione di nuove informazioni.
Jackson aggiunse ancora che la famiglia è un sistema governato da regole precise che condizionano o stabiliscono l’ampiezza entro cui un dato comportamento può variare. La più importante regola viene considerata il “quid pro quo coniugale” in base alla quale ognuno dei membri della coppia può guadagnare qualcosa dalla relazione. È chiaro che all’interno di questa regola non si intende solo la parte di “contratto” conscio, ma anche le aspettative inconscie di riconoscimento e di compensazione.
 

Il membro sintomatico

Il gruppo di Palo Alto cominciò a sostenere che molte famiglie disfunzionali delegano ad uno dei loro membri il ruolo di componente omeostatica che riporta ogni volta il sistema al suo stato di tranquillità dopo che una regola in qualche modo è stata minacciata. Quando un componente della famiglia manifesta un bisogno nuovo o una maggiore necessità di svincolo, che porterebbe la famiglia ad un nuovo stadio vitale, il membro sintomatico subisce un aggravamento o un incremento del sintomo. Chiaro che la persona delegata dalla famiglia a questo ruolo (il membro sintomatico) paga un prezzo altissimo, tuttavia permette agli altri membri di mantenere i rispettivi ruoli poiché tutti gli altri problemi diventano secondari rispetto al “sintomo” di questo membro.
Tutte queste regole ed informazioni passano però ad un livello non verbale, attraverso la comunicazione analogica. Ciò portò il gruppo di Palo Alto ad interessarsi moltissimo di comunicazione, in particolar modo della connessione tra il linguaggio verbale e quello analogico.
Furono studiati particolarmente i diversi livelli di comunicazione osservando che ogni affermazione convoglia non solo un contenuto informativo ma anche una direttiva al ricevente su come il contenuto deve essere letto. Vi sono quindi aspetti “informativi” e aspetti di “comando”. A volte i due aspetti sono congruenti, spesso invece sono incongruenti. Si notò che nelle famiglie disfunzionali era prevalente l’incongruenza a livello di comunicazione; in particolare il gruppo di Bateson cercò un costrutto teorico che potesse rendere conto di questa modalità interattiva senza usare i termini conscio e inconscio che avrebbero riportato il discorso sul piano intrapsichico.
 

La teoria del doppio legame

 

È sicuramente uno dei contributi più interessanti della scuola di Palo Alto applicata alla comunicazione alla famiglia e alla schizofrenia.
Nella teoria del doppio legame ci sono alcuni concetti chiave:
- devono esserci due o più persone, ma una è la “vittima” designata e l’altra la persona che la “lega”;
- l’esperienza deve essere ripetuta nel tempo;
- c’è una modalità di comunicazione verbale ed una analogica che contraddice nettamente la prima e che manda segnali tali da minacciare la sopravvivenza della “vittima”;
- c’è un “comando” nella comunicazione analogica che impedisce alla “vittima” di abbandonare il campo;
- quando tutti gli elementi vengono sperimentati per un po’ di tempo diventano automatici e si instaura un vero e proprio schema di “doppio legame”.

Ad esempio:
Madre in visita al figlio schizofrenico in ospedale psichiatrico che interagisce con lui: il figlio è contento di vederla e le butta subito le braccia al collo; lei si irrigidisce. Il figlio allora ritrae le braccia e si allontana. La madre gli dice: “ma allora non mi vuoi più bene?”. Il ragazzo arrossisce e la madre aggiunge: “non devi provare imbarazzo e paura per i tuoi sentimenti”.
Il ragazzo ebbe una crisi di violenta e dovette essere sottoposto a isolamento.
Chiaro che la comunicazione della madre era assolutamente incongruente e lui non poteva far altro , per sottrarsi, che farsi venire una crisi. Si chiama doppio legame perché il primo legame riguarda l’incapacità del figlio di commentare il duplice e contraddittorio messaggio della madre; il secondo legame però lo condiziona: il figlio è dipendente dalla madre in modo da non essere in grado di distanziarsi da lei né verbalmente né fisicamente. La madre lo “legava” e lui era la sua “vittima”.
Sostanzialmente lei, ritraendosi e irrigidendosi, gli diceva “non esprimere amore per me”, però la seconda interazione “ma allora non mi vuoi più bene” esprimeva esattamente un’interazione contrastante. Da parte della madre ci potrebbe però essere una terza interazione: “non commentare la mia incoerenza e non farmi pesare il fatto che io non so cosa provo per te”.
È chiaro che nessuno dei due membri è responsabile del proprio comportamento: e infatti in terapia famigliare non vi è – o meglio non viene ricercata – una causa ed un effetto, ma una teoria di circolarità reciproca.

Quello che interessa, nella teoria di Bateson, è che quando questi messaggi contraddittori vengono dati - e soprattutto ripetuti, reiterati - in un ambiente chiuso, in cui uno degli attori, in particolare quello che comunica i messaggi, ha il potere della relazione; allora questa situazione può portare all'incapacità, da parte del soggetto più debole, di rispondere.

Faccio un esempio solo, che riguarda la famiglia: la madre torna a casa carica di pacchi della spesa (lo scenario di questa teoria è quasi inevitabilmente lo scenario della middle class americana, cioè della gente che vive nei suburbi negli Stati Uniti), il figlio di sei anni le si fa incontro, pronto ad abbracciarla. La madre gli dice: "Abbracciami, perché non mi abbracci?", mentre invece questo evidentemente è impossibile, dato che ha in mano i pacchetti.

I messaggi conflittuali hanno un andamento molto vario. Essi possono essere (sempre a partire da quelle condizioni di chiusura del sistema - cioè una famiglia - e di potere emotivo detenuto soprattutto da una parte) entrambi dei messaggi verbali, e possono essere soprattutto messaggi che si situano a un livello verbale-non verbale, come l'esempio che ho fatto. In ogni modo si tratta di messaggi che mettono il ricevente, cioè chi riceve la comunicazione, nell'impossibilità di reagire, perché, nel caso della madre, il bambino non può abbracciarla per i pacchi, però viene fatto sentire in colpa perché gli viene detto di abbracciarla.

 

Entrando nel dettaglio, gli elementi costituenti di una situazione double bind secondo Bateson sono:

1) Due o più persone, tra cui una soltanto svolge il ruolo di vittima.
Le relazioni prevedono spesso forme di subordinazione e di potere in cui le posizioni reciproche sono definite dal contesto e in cui la distanza tra persone differisce anche molto.
In una famiglia, in genere la vittima è uno dei figli con genitori e fratelli che ricoprono ruoli ben distinti e complementari. In un’azienda possiamo pensare al fattorino, al portiere o a un dipendente che lavora contemporaneamente a più progetti. Tutti questi individui sono continuamente sottoposti a richieste contrastanti da fonti diverse. In alcuni casi l’ordinamento gerarchico può fornire un ordine di priorità, ma talvolta i richiedenti hanno una posizione organizzativa equivalente. Inoltre la conoscenza personale e legami di amicizia con alcuni dei colleghi possono ulteriormente complicare la situazione.

2) Il ripetersi dell’esperienza sgradevole.
Il doppio legame è uno schema ricorrente nel vissuto della vittima, ripetuto fino a quando finisce per diventare un’aspettativa abituale che porta a confondere rispetto e paura.

3) Un’ ingiunzione primaria, generalmente negativa, che può assumere due forme.
Non fare questo e quello o ti punirò. Se fai questo e quello io ti punirò. Si tratta quindi di un contesto di apprendimento basato sull’evitamento di una punizione e non sulla ricerca di una ricompensa. In teoria il doppio legame può funzionare anche nel secondo caso, ma, soprattutto per soggetti “deboli”, la paura pare essere un’emozione più forte e, quindi, una motivazione più importante del desiderio. In ambito familiare la punizione può essere costituita da espressione di rabbia o odio, ritiro dell’affetto o abbandono del bambino a se stesso.

4) Un’ ingiunzione secondaria in conflitto con la prima su un piano più astratto e, come la prima, rinforzata da una punizione o da un segnale di minaccia a benessere e sopravvivenza.
Questo secondo messaggio è più difficile da descrivere del primo. In primo luogo perché in genere viene comunicato in modo non verbale tramite postura, gesti, tono di voce, azioni significative e implicazioni nascoste delle parole. In secondo luogo può riguardare uno qualunque degli elementi costitutivi della prima affermazione, quindi può assumere una grande varietà di forme.


Ad esempio:
«Non considerarla una punizione»
«Non sono io che ti punisco»
«Fa più male a me che a te»
«Non sottometterti alle mie proibizioni»
«Non pensare a ciò che non devi fare»
«Non avere dubbi sull’amore (la stima) che nutro per te, perché questa proibizione ne è una prova»

 

5) Un’ ingiunzione terziaria negativa che proibisce alla vittima di uscire dal dilemma, di fare commenti, chiedere spiegazioni o protestare.
Potrebbe sembrare inutile trattare questo come un elemento separato, poiché il rinforzo alle altre due ingiunzioni è una minaccia sufficientemente forte e se il double bind viene imposto a qualcuno fortemente subordinato una via d’uscita appare impossibile. Comunque sembra che, in alcuni casi, vengano utilizzati alcuni espedienti che non sono puramente negativi. Come ad esempio promesse di affetto “capricciose” o il labeling, cioè l’etichettare una persona, includendola in una categoria comportamentale rigida che permetta di interpretare tutto il suo comportamento e le sue intenzioni indipendentemente da quello che esprime:
«Sei piccolo, certe cose non le puoi capire»
«Sono io il capo. So io cosa è meglio per te»

6) Quando poi la vittima, attraverso la ripetizione, si è abituata a percepire l’universo secondo schemi a “doppio legame”, non è più necessaria la presenza di tutti gli elementi suddetti.
Quasi ogni parte della sequenza è sufficiente da sola a causare una reazione di panico o di rabbia.


Da un punto di vista formale, Paul Watzlawick ha individuato quattro categorie di paradossi double bind:
a) «Sii spontaneo»
Si richiede o addirittura ordina di fare qualcosa spontaneamente.
b) «Sei così confuso (stai così male) da non poter sapere come ti senti realmente. Io lo so meglio di te»
Viene punita una corretta percezione della realtà. Si impone alla vittima di non dare peso alle proprie percezioni e di accettare la descrizione della situazione data da altri, costringendo così a spendere un grande ammontare di energia psichica per capire come ogni situazione “deve essere interpretata”.
c) «Devi essere felice di svolgere il tuo compito»
In questo caso vengono confutate sensazioni, emozioni e sentimenti, con il rischio di far sentire in colpa chi “sente in modo sbagliato”.
d) «Devi essere leale e raggiungere il tuo obiettivo a ogni costo»
In questa imposizione (la seconda parte della quale è quasi sempre implicita) si chiede e si proibisce la stessa cosa nello stesso momento, obbligando a disobbedire per poter obbedire.

Nel 1967, inoltre, Sluzki e collaboratori hanno individuato cinque “schemi di squalificazione” cioè metodi attraverso cui l’esperienza diretta di una persona viene invalidata attraverso il double bind:

Evasività e cambio di argomento
Si verifica quando un’affermazione che non chiude una discussione viene seguita da un’altra che fornisce una risposta negativa implicita, cambiando argomento
A: «Possiamo andare al parco a giocare a calcio»
B: «E’ una giornata splendida per lavorare in giardino»

Gioco di prestigio
La seconda frase è una risposta alla prima, ma ne cambia il contenuto
A: «Siamo sempre andati d’accordo»
B: «Sì, ti ho sempre voluto bene»

Litteralizzazione
Il contenuto della prima proposizione è trasposto in senso letterale nella seconda, senza che il cambio di contesto venga segnalato.
A: «Mi tratti come un bambino»
B: «Ma tu sei un bambino!»

Imposizione di status
Status personale superiore, maggiore esperienza o migliori conoscenze vengono usati per contestare il contenuto delle affermazioni altrui, spesso rivolgendosi a terze parti.
A: «Ho notato che non interagisce bene con gli altri…»
B: «Ma io lavoro bene in gruppo!»
A: «È appena arrivato, non può sapere cosa sia un’interazione efficace…»

Uso di domande retoriche
Implicano dubbi o disaccordo, pur senza esprimerli apertamente:
A: «Vado d’accordo con tutti»
B: «Con tutti? Davvero?»

La ripetizione di questi pattern finisce per imporre e consolidare modelli idiosincratici di interazione, che implicano un certo stile di relazione con il resto del mondo. Questo stile prevede la negazione sistematica di certi stimoli, la repressione sistematica di certi significati, il rinforzo e la ricompensa del fraintendimento e la punizione di ogni tentativo di fare chiarezza. Secondo Jay Haley, una regola fondamentale della comunicazione comporta che “è virtualmente impossibile per chiunque evitare di definire o controllare completamente la definizione della propria relazione con un’altra persona”.
In altre parole, in ogni relazione una delle prime cose che è necessario concertare è quale tipo di relazione portare avanti. Le relazioni possono essere complementari o simmetriche. In quelle complementari il comportamento di un componente completa quello dell’altro: c’è un dare e un avere, ad esempio tra maestro e allievo c’è chi insegna e chi impara. In quelle simmetriche c’è invece somiglianza e corrispondenza tra i comportamenti dei due partecipanti. Se uno parla di una vacanza che ha fatto, l’altro interverrà raccontando una sua esperienza o i suoi progetti. È dunque presente una tendenza alla competizione. Con il passare del tempo la natura di una relazione può cambiare. Ci possono essere aggiustamenti e conflitti e quasi tutti avvengono sul piano della comunicazione. O meglio sui molteplici piani della comunicazione, poichè quasi tutti i messaggi che inviamo e riceviamo sono misti e spesso conflittuali. L’abilità comunicativa consiste nel saper riconoscere e commentare i conflitti di significato. Il double bind, la conseguente perdita di senso con I’inestricabile confusione che comporta e le reazioni negative, o addirittura patologiche, di chi è costretto a subirlo, comportano l’impossibilità e la non volontà di definire apertamente la natura di una relazione. Chi è costretto a subire paradossi senza via d’uscita, infatti, può finire per cercare di annullare la comunicazione negando: a) di aver comunicato qualcosa, b) che sia stato comunicato qualcosa, c) che la cosa sia stata comunicata all’altra persona, d) il contesto in cui è avvenuta la comunicazione. L’unico modo reale per sfuggire alla trappola però risiede nell’analisi, nel riconoscere il double bind e nel ricostruire correttamente l’organizzazione gerarchica dei livelli di comunicazione.

 

...e la teoria del paradosso 

 

Nel campo psichiatrico e psicoterapeutico il nome di Bateson è legato alla teoria relativa all’eziologia della schizofrenia. Questa teoria individua nella comunicazione la matrice sociale che genera questa forma di psicosi, ed ha dato vita alla scuola sistemica.
La comunicazione è stata studiata da Bateson attraverso la teoria dei Tipi Logici di Russell e Whitehead. Tale teoria afferma, tra l’altro, che vi è una discontinuità tra una classe ed i suoi elementi. Una classe non può essere elemento di se stessa, ne uno degli elementi può essere la classe, giacché la classe è di un tipo logico diverso rispetto ai propri elementi
Tale gerarchia di livelli diversi si ritrova anche nella comunicazione. «La comunicazione verbale umana può operare, e in effetti opera sempre, a molti livelli di astrazione tra loro contrastanti» (Verso un’Ecologia della Mente). Tale diversificazione si verifica poiché ogni enunciato è autoriflessivo. «Una data espressione è contemporaneamente un’affermazione su se stessa» (La matrice Sociale della Psichiatria). Questo messaggio, astratto e quasi sempre implicito, che comunica sulla comunicazione è definito metacomunicativo. A questi livelli più astratti l’oggetto del discorso è la relazione tra gli interlocutori. Il livello metacomunicativo fornisce l’inquadramento, il contesto nell’ambito del quale interpretare il messaggio.
L’altro livello astratto in cui si sviluppa il linguaggio è quello metalinguistico, relativo alle relazioni tra le parole e ciò che esse denotano, relazione paragonabile a quella tra mappa e territorio.
L’inquadramento psicologico diventa una necessità per l’individuo, poiché la comunicazione si serve di segnali che possono essere utilizzati per simulare, negare, amplificare, ingannare, ecc. In altri termini, i messaggi non sono solo descrittivi, ma possono essere relativi a metafore, miti, scherzi, fantasie, menzogne.
L’inquadramento psicologico serve, dunque, a delimitare una classe di messaggi, fornendo le premesse necessarie per interpretarli. Esso ha funzione inclusiva per certi messaggi ed esclusiva per altri. La funzione della mente è la codificazione, ossia la traduzione delle informazioni provenienti dall’esterno. «È chiaro che la mente non contiene né oggetti né eventi – né maiali, né palme, né madri – ma contiene soltanto trasformate, percezioni, immagini, eccetera, insieme con certe regole per generare queste trasformate, percezioni, eccetera» (Verso un’Ecologia della Mente). Tali regole sono in larga misura inconsce, quindi obbediscono al processo primario. Per poter operare, la mente necessita di un inquadramento, di una cornice, che la informi su come devono essere intesi i messaggi, ad esempio se in senso letterale o metaforico, reale o fantastico, veritiero o simulato, ecc. Questo inquadramento è fornito dai messaggi metacomunicativi.
Tale funzione è resa ancora più importante e necessaria dal fatto che la comunicazione si caratterizza per provocare necessariamente dei paradossi, i quali fanno venire meno la discontinuità tra classe ed elementi. Essa non rientra negli angusti limiti della teoria dei Tipi logici. Si consideri, come esempi, un messaggio aggressivo qualificato da movimenti, posture, toni di voce, comunicanti che esso è solo un gioco; oppure delle parole arrabbiate dette ridendo. Nel linguaggio umano la possibilità di paradossi aumenta, poiché in esso vengono utilizzati due canali: digitale (verbale) per lo scambio delle informazioni; analogico (gesti, tono di voce, ecc.), per lo scambio dei messaggi metacomunicativi. Tali paradossi sono alla base dello sviluppo della lingua. «L'ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla Teoria dei Tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla Teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell'astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l'evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell'umorismo» (Verso un’Ecologia della Mente). Il paradosso comporta un’evoluzione del linguaggio poiché rende sempre più evidente la differenziazione tra mappa e territorio, ossia tra la parola e l’oggetto che essa dovrebbe denotare.
Gli inquadramenti che comportano tali paradossi sono definiti da Bateson transcontestuali. Innanzi tutto, tra gli inquadramenti appartenenti a questa categoria Bateson considera il gioco. Esso comporta un paradosso per la teoria di Russell, poiché serve a distinguere messaggi di tipo logico diverso, ossia quelli che Bateson chiama segni d’umore, e quelli che simulano i segni d’umore (rendendo evidente la distinzione tra mappa e territorio). Infatti, il messaggio: “questo è un gioco” implica che si compiono azioni che ne denotano altre, ma non si denota ciò che queste ultime tipicamente denotano. «Il mordicchiare giocoso denota il morso, ma non denota ciò che sarebbe denotato dal morso» (Verso un’Ecologia della Mente). Secondo la teoria dei Tipi logici questo è un paradosso, poiché il termine “denota” è utilizzato a livelli di astrazioni diversi, e questi sono considerati sinonimi. Il carattere paradossale del messaggio: “questo è un gioco” deriva, quindi, da due caratteristiche, che sono proprie di ogni inquadramento transcontestuale. «a) che i messaggi o segnali scambiati nel gioco sono in un certo senso non veri o non sono quelli che si hanno in mente; e b) che ciò che viene denotato da questi segnali è inesistente» (Verso un’Ecologia della Mente).
Gli altri inquadramenti paradossali considerati da Bateson sono: la minaccia, l’inganno, l’istrionismo, l’umorismo, la comicità, il rituale, la fantasia, la metafora, la poesia, l’arte, e l’apprendimento.
La caratteristica centrale della schizofrenia consiste appunto nell’incapacità di interpretare i messaggi dello stesso tipo logico di “questo è un gioco”, ossia i segnali che indicano di che genere è il messaggio. «Difficoltà di fronte a segnali di questo tipo sembrano costituire il nucleo di una sindrome che è caratteristica di un certo gruppo di schizofrenici, ed è quindi ragionevole cercare un'eziologia a partire da questa sintomatologia, quando essa sia formalmente definita» (Verso un’Ecologia della Mente). Lo schizofrenico si caratterizza per l’incapacità di comprendere il genere dei messaggi altrui, nonché quello dei propri messaggi, e delle proprie percezioni e sensazioni. Giacché la capacità inconscia di comprendere i segnali metacomunicativi è acquisita con l’apprendimento, bisogna individuare le cause che ne hanno inibito lo sviluppo nel bambino. È da queste premesse che si sviluppa la teoria del doppio vincolo.
Secondo tale teoria la schizofrenia è il risultato del modello comunicativo esistente nella famiglia, che impone una sequenza di strutture comunicative aventi carattere traumatico. Tale struttura ha alcuni elementi formali peculiari. Innanzi tutto essa si verifica nel rapporto madre-figlio, anche se è possibile la partecipazione degli altri membri della famiglia. In secondo luogo l’esistenza di due imposizioni, afferenti diversi livelli comunicativi, tra loro contraddittorie. Entrambe sono collegate ad una punizione (come ad esempio la perdita dell’affetto), e la seconda è, di solito, comunicata con mezzi non verbali che negano la prima. Un altro elemento è l’impossibilità di qualsiasi discriminazione tra le alternative o commento sul vincolo; o fuga dallo stesso. Infine, deve trattarsi di un’esperienza ripetuta nel tempo.
L’individuo si trova prigioniero di due ordini dei quali l’uno nega l’altro, situazione che provoca un profondo senso di angoscia, frustrazione e depersonalizzazione, nonché il venir meno della sua capacità di comprendere e formulare messaggi metacomunicativi. «Noi avanziamo l'ipotesi che, ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio vincolo, la sua capacità di discriminazione fra tipi logici subisca un collasso» (Verso un’Ecologia della Mente).
Questa situazione è tipica del rapporto tra il futuro schizofrenico e la madre, ma può presentarsi anche nei rapporti normali, generando reazioni difensive, simili a quelle dello schizofrenico. Questo comportamento difensivo è esteso dallo schizofrenico a tutte le sue relazioni, anche a quelle in cui non sarebbe necessario; oltre a ciò, egli è del tutto inconsapevole di starsi difendendo.
Inoltre, il doppio vincolo fa sì che la capacità di distinguere i tipi logici venga meno nello schizofrenico anche per i propri messaggi, cosicché essi assumeranno un carattere sempre più metaforico ed impersonale, apparentemente assurdo, ma in sé del tutto logico. «Se un individuo ha trascorso la vita in un rapporto di doppio vincolo del tipo qui descritto, i suoi rapporti con gli altri dopo una crisi psicotica dovrebbero possedere una struttura sistematica. In primo luogo costui non userebbe quei segnali che, presso gli individui normali, accompagnano i messaggi per indicare cosa si intende dire; cioè il suo sistema metacomunicativo (le comunicazioni sulla comunicazione) si sarebbe guastato, ed egli non saprebbe specificare il genere dei messaggi» (Verso un’Ecologia della Mente).
A questo punto lo schizofrenico ha di fronte a sé tre alternative: potrebbe ritenere che ogni messaggio contenga un significato nascosto, pericoloso per il proprio benessere, può quindi diventare paranoico. Oppure potrebbe scegliere l’alternativa opposta e prendere alla lettera tutti i messaggi che gli vengono rivolti, diverrebbe, in questo caso, ebefrenico. Infine potrebbe scegliere di ignorare i messaggi dell’ambiente, e fare il possibile per evitare una risposta da parte dello stesso, divenendo chiuso e silenzioso, assumerebbe così un atteggiamento catatonico.
La schizofrenia, nelle diverse forme che assume, può, dunque, essere considerata una risposta “normale” ad una situazione familiare patogena; essa non è un problema individuale ma di gruppo. Nella famiglia la comunicazione svolge una funzione omeostatica volta al mantenimento della stabilità delle relazioni esistenti, necessaria per la sua sopravvivenza. Nel caso in cui tale equilibrio sia schizofrenico, la stabilità è mantenuta attraverso il “sacrificio” del componente più debole che assume su di sé tutta la follia. «Il paziente identificato si sacrifica per mantenere la sacra illusione che quanto dice il genitore ha senso» (Verso un’Ecologia della Mente). Attraverso la schizofrenia manifesta del figlio, i genitori riescono a mantenere un’apparenza di normalità che copre la loro schizofrenia celata, occultando i loro disturbi. Sono tre le caratteristiche formali di questo genere di famiglia: una madre che ha reazioni di ansia e di ostilità ogni volta ci sia la possibilità di un rapporto intimo ed affettuoso con il figlio; l’inaccettabilità per la madre di tali sentimenti di odio, che la porterà a negarli simulando affettuosità; l’assenza di una terza persona in grado di intervenire nei rapporti madre-figlio a favore di quest’ultimo.
Questa situazione fa sì che la madre emetta due messaggi, di ordine diverso (essendo il secondo un commento al primo), tra loro contraddittori: ostilità o ripiegamento quando il bambino si avvicina, affetto simulato quando il bambino reagisce al comportamento ostile della madre. «Il problema della madre è quello di regolare la sua ansietà regolando la vicinanza e la distanza che la separano dal bambino. In altre parole, se la madre comincia a sentirsi affezionata e vicina al figlio, comincia anche a sentirsi in pericolo, e deve ritrarsi da lui; ma ella non può accettare questo atto di ostilità e, per negarlo, deve simulare affetto e propensione per il bambino» (Verso un’Ecologia della Mente).
Se il bambino vuole evitare una punizione della madre, deve prendere per vera la simulazione di affetto di quest’ultima, deve, quindi, distorcere le proprie percezioni per non discriminare i diversi ordini di messaggi. Il doppio vincolo consiste nell’essere punito per aver indovinato l’interpretazione. Ma l’errore non risolve il problema, poiché se credesse alla simulazione, il bambino si avvicinerebbe alla madre, provocando la sua reazione ostile, che lo spingerebbe a ritirarsi. «Ma se allora il bambino a sua volta si ritraesse, la madre prenderebbe questo allontanarsi come un'affermazione che lei non è una madre amorevole, e quindi o punirebbe il figlio per essersi allontanato o gli si accosterebbe per farlo tornare a sé; ma se a questo punto egli le si avvicinasse, ella reagirebbe respingendolo di nuovo. Il bambino dunque è punito se discrimina correttamente i messaggi della madre, ed è punito se li discrimina erroneamente: è preso in un doppio vincolo» (Verso un’Ecologia della Mente).
Le famiglie schizofreniche sono, dunque, caratterizzate dal fatto che la madre non voglia essere compresa, perché non può accettare né il proprio figlio, né tale rifiuto. Il doppio vincolo descrive la sua ricerca mascherata di relazioni distanti, travestita da concomitanti dimostrazioni di comportamento amorevole. Un bambino che cerca una relazione è respinto, ma i suoi sforzi di ritirarsi sono puniti anch’essi. Gli sforzi di distinguere i diversi livelli, e di chiedere il significato della relazione sono anch’essi puniti, cosicché viene inibita la sua capacità di formarsi un’impressione della realtà e di crederle.
Benché il doppio vincolo si riferisca a sequenze di interazioni, è possibile rendere molti dei suoi caratteri con un singolo esempio. Una giovane donna ricoverata in una clinica per schizofrenia migliorò abbastanza da ottenere un permesso di uscita, e di scegliersi i vestiti per l’occasione. Quando i suoi genitori vennero a trovarla, sua madre mostrò immediatamente il proprio disappunto per i vestiti della figlia, affermando che essi manifestavano “un gusto eccessivamente giovanile”. La figlia fu costretta a cambiarsi d’abito, indossando vestiti scelti dalla madre. “Ecco adesso sembri più grande!”, fu il commento di quest’ultima. La situazione della giovane donna peggiorò, ed essa scivolò presto in una condizione psicotica.
La reazione enfatica della madre all’indipendenza della figlia fu coperta dal messaggio verbale per il quale questa doveva sembrare più grande. La figlia deve essere adulta ed indipendente, ma allo stesso tempo bambina e quindi dipendente. Incoraggiata ad essere donna e bambina, indipendente e dipendente, vicina e lontana, la paziente rispose con un comportamento psicotico. Una donna trasformata in bambina dalla malattia fu incapace di indipendenza, ma troppo disturbata per essere a casa: non era né troppo lontana, né troppo vicina. La sua relazione con la madre era preservata.
In conclusione, per Bateson la schizofrenia è un problema di adattamento al modello di comunicazione patologico presente nel gruppo, quest’ultimo inteso come una relazione tra un insieme di persone condividenti certe premesse sul significato dei messaggi. Benché non neghi l’esistenza di un fattore genetico, Bateson individua nell’apprendimento la causa principale della psicosi. Anche l’apprendimento comporta una gerarchia di tipi. Al livello più basso c’è il proto-apprendimento che è il tipo più semplice di apprendimento. Al livello superiore c’è il deutero-apprendimento con il quale l’individuo apprende ad apprendere. Il deutero-apprandimento forma l’abitudine che consiste in una particolare segmentazione del flusso degli eventi. Attraverso il deutero-apprendimento, quindi, si forma il carattere o epistemologia, ed è attraverso questo processo che si forma la schizofrenia. Pertanto la terapia deve mirare ad un cambiamento dell’epistemologia, del modo di concepire la personalità-nel-mondo.
La sopravvivenza del sistema ha sempre una priorità su quella dei suoi componenti. In questo ambito gioca un ruolo fondamentale la comunicazione, che in tutti i mammiferi è comunicazione sulle relazioni, e solo negli umani può riguardare anche altro, senza però mai perdere il proprio carattere originario; pertanto anche negli umani ogni messaggio verte anche sulla relazione esistente tra gli interlocutori, e comunicherà su di esse in modo non-verbale, cinetico. Questo aspetto Bateson lo definisce funzione μ del linguaggio. La sopravvivenza del sistema, dunque, è mantenuta attraverso cambiamenti adattivi dei membri, e proprio qui sta la possibilità delle patologie, se il sistema è patogeno tale adattamento porterà necessariamente ad una schizofrenia.
Il doppio vincolo si verifica ogni volta che un individuo riceve due imposizioni contraddittorie, se non esistono vie di fuga, l’individuo è portato ad un comportamento schizofrenico. La schizofrenia comporta una forma paradossale di comunicazione che è la stessa dalla quale emergono la poesia, il comico, l’umorismo, l’arte, il sogno, ecc. Essa possiede una propria logica, la logica metaforica, la quale sembra assurda poiché volutamente elimina i riferimenti al un contesto, per non essere compresa. Più che alla terapia, Bateson è interessato a quello che la schizofrenia trasmette intorno alla comunicazione. Il double bind può indurre nell’individuo una forte sofferenza, ma se si è in grado di resistere al loro portato patologico «l'esperienza complessiva può favorire la creatività» (Verso un’Ecologia della Mente).

Questa teoria è stata vissuta per molto tempo, a partire dalla fine degli anni sessanta, quando è stata conosciuta in Italia, come una risposta alla psicanalisi o una risposta ad altri modelli terapeutici, mentre in realtà non voleva esserlo, per due motivi: innanzi tutto perché, come poi è stato mostrato da psicanalisti come Harold Serves e altri, un modello del genere non era necessariamente in conflitto con modelli di tipo psicanalitico; in secondo luogo perché Bateson, ancora una volta, è un personaggio che non si trova mai dove noi vorremmo trovarlo, non riesce mai a farsi inchiodare in un posto. Per Bateson l'elemento interessante in questa teoria non era tanto quello di spiegare il comportamento schizofrenico. Bateson era interessato invece al rapporto tra la logica della comunicazione contraddittoria e la logica della follia come attività comunicativa. Infatti negli esempi di discorso dei folli, in questi discorsi che registrava negli ospedali psichiatrici nel corso della sua ricerca, a Bateson non interessava vedere l'elemento patologico, ma semplicemente il ricorso a un'altra logica; il ricorso a un'altra logica metaforica, che non è più la logica convenzionale.


 


 

 

 

 

"E voglio che tu scelga un momento nel passato in cui eri una bambina piccola piccola.
 
E la mia voce ti accompagnerà. E la mia voce si muterà in quelle dei tuoi genitori, dei tuoi vicini, dei tuoi amici, dei tuoi compagni di scuola e di giochi, dei tuoi maestri.
 
E voglio che ti ritrovi seduta in classe, bambina piccolina che si sente felice di qualcosa, qualcosa avvenuto tanto tempo fa, qualcosa tanto tempo fa dimenticato."

                                          Milton Erickson  La mia voce ti accompagnerà

 

 

 

 

Milton Erickson 

 

ericksonPer quanto invece riguarda la psicoterapia ipnotica il capostitpite da cui ho preso i miei spunti è Milton Erickson.

 

Erickson l'uomo e la sua opera

 

Erickson nacque nel 1901 e crebbe in una fattoria del Middle West. L'infanzia fu segnata da molteplici handicap. Fin dalla nascita era affetto da cecità cromatica (daltonismo), dislessia e mancanza del ritmo, fu colpito due volte da poliomelite. La prima volta all'età di diciasette anni fu molto grave: dopo essere uscito dal coma rimase paralizzato. Fu curato in casa sua, nella fattoria.

Milton scoprì da solo il fenomeno della focalizzazione ideodinamica indiretta: "era seduto su una sedia a dondolo e sentiva un forte desiderio di guardare dalla finestra. La sedia si mise a dondolare nonostante egli fosse completamente paralizzato! [...] prese a utilizzare il suo metodo muscolo per muscolo, articolazione per articolazione. L'osservazione della sorellina che imparava a camminare gli servì da stimolo e da guida nella sua rieducazione." (Dominique Megglé, Psicoterapie brevi, Red Edizioni, 1998 Como, p. 32)

 

 

Con il termine focalizzazione ideodinamica ci si riferisce a un semplice fenomeno che fa sì che quando pensiamo a una certo comportamento lo agiamo impercettibilmente a livello inconscio.

Se ne incominciò a parlare - alla fine del '800 - alla scuola di Nancy in questi termini:
"Abbiamo stabilito che ogni suggestione tende a realizzarsi, che ogni idea tende a farsi atto. Tradotto in termini fisiologici, questo vuol dire che ogni cellula cerebrale azionata da un'idea aziona le fibre nervose che devono realizzare questa idea. [...] Se dico a qualcuno: «Lei ha una vespa sulla fronte», questo qualcuno, che non avrà alcun motivo di credermi, sentirà più o meno distintamente la presunta vespa, e porterà la mano alla fronte, esteriorizzando lì il prurito creato dal sensorio azionato dall'idea della vespa. L'idea è diventata sensazione"

(Hippolyte Bernheim, L'ipnotismo e la suggestione nei loro rapporti con la medici legale, Doin, Paris 1897)



La moglie in una lettera a uno studente colpito da polio raccontò che "Imparò a camminare con le stampelle e a tenersi in equilibrio sulla bicicletta; finalmente ottenuta una canoa, alcune provviste indispensabili per un equipaggiamento da campeggio e una manciata di dollari, progettò un viaggio per un'intera estate, a partire dal lago vicino al campus dell'Università del Wisconsin, per proseguire seguendo il corso del Mississipi, spingendosi a sud oltre St. Louis, fino a ritornare indietro nello stesso modo. [...] Andò incontro ad alcune avventure e, dopo aver affrontato molti problemi, imparando però vari modi per affrontarli e incontrando molti personaggi interessanti, alcuni dei quali gli furono di grande aiuto, completò il viaggio, ritornando in condizioni di salute di gran lunga migliori, con muscoli delle spalle ben sviluppati, pronto ad affrontare gli studi universitari di medicina." (Jeffrey K. Zeig, Erickson. Un'introduzione all'uomo e alla sua opera, Astrolabio, Roma 1990, p. 21)

In seguito studiò medicina specializzandosi in psichiatria (ma fu fondamentalmente autodidatta nell'ipnosi) e insegnò nel Michigan finché per gravi disturbi allergici si dovette spostare a Phoenix in Arizona in cerca di un clima più asciutto. Qui decise di dedicarsi alla professione privata: "Laggiù, lontano dai conformismi universitari, ma con il solido sostegno del suo background scientifico, poté finalmente fare quello che voleva, dando libero sfogo alla sua creatività. Nel paese si incominciò a parlare di un modesto psichiatra di Phoenix che riceveva pazienti a casa propria, li faceva attendere in salotto in mezzo ai suoi otto figli, e otteneva risultati incredibili." (Id. ibid., p. 33)

A quanto pare la voce arrivò fino a Palo Alto dove l'antropologo Gregory Bateson stava conducendo delle ricerche sui 'paradossi dell'astrazione nella comunicazione' (vedi doppio legame). Beteson mandò due suoi collaboratori - Jay Haley e Richard Weakland - da Erickson. Jay Haley rimase affascinato da questo ipnoterapista e scrisse "Terapie non comuni" che consacrò Erickson come un maestro di terapia strategica.

Erikson si interessò in particolare ai metodi naturalistici (senza induzione formale), che lo portò a utilizzare l'ipnosi in modo creativo non più cioè come una serie di rituali standard ma come un particolare stile comunicativo e una particolare "situazione comunicativa relazionale" (Jay Haley, Terapie non comuni, Astrolabio, Roma 1976, p. 10). Milton era capace di indurre una trance a partire da racconti, reminiscenze, episodi della sua vita o altre strane storie e fatti inconsueti che apparentemente non avevano nulla a che fare con il problema specifico del paziente. Il paziente stava lì, ascoltava - a volte rapito a volte annoiato - questi strani monologhi, e poi veniva congedato senza accorgersi che era entrato e uscito spontaneamente dalla trance più volte.

Scopo della sua ipnosi era quello di accedere al potenziale inconscio e alla capacità naturale di apprendere del cliente, depotenziando al contempo i suoi schemi limitanti. (Milton H. Erickson - Ernest L. Rossi, Ipnoterapia, Astrolabio, Roma 1982, p. 10)

Erickson fu anche il socio fondatore dell'American Society of Clinical Hypnosis e contribuì a adre dignità e scientificità all'ipnosi, collaborò inoltre con Aldous Huxley nella sua ricerca intorno agli stati alterati di coscienza.

Dopo il secondo attacco di poliomelite rimase in carrozzina con le gambe e un braccio paralizzati e morì a 78 anni il 27 marzo 1980, nel frattempo altri suoi allievi ospitati a Phoenix (Haley, Rossi, Zeig) continueranno il suo insegnamento.

Al funerale il commento finale di Pearson fu: "Erickson ha affrontato da solo l'establishment psichiatrico, e l'ha sconfitto. Ma loro ancora non lo sanno..." (Introduzione di Sidney Rosen a La mia voce ti accompagnerà. Racconti didattici di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1983, pp. 11-12). Rosen precisa anche che "in molte delle sue storie c'è qualcosa di tipicamente americano, specialmente in quelle che riguardano la usa famiglia. È per questo che Erickson è stato definito un eroe del folklore americano" (Id. ibid., p. 19)

L'approccio di Erickson deve molto alla sua personale esperienza e alla riabilitazione che dovette intraprendere.

Trattò gli altri così come aveva trattato se stesso insegnando alla sua mente inconscia a recuperare le risorse perdute e a utilizzare ogni cosa necessaria per giungere al risultato volgendola nel suo positivo:

"La famiglia Erickson viaggiò dunque in treno e in carro fino ad arrivare nel minuscolo villaggio di Aurum, nel Nevada. Il viaggio a Ovest fu difficile, pieno di quei disagi tipici delle avventure dei pionieri: vi furono carenze di cibo e d'acqua, rigide notti, forti tempeste di vento da sopportare, senza contare la resistenza fisica richiesta per il lungo tragitto.

Una volta arrivata, la famiglia si stabilì in una capanna di tronchi dal pavimento di terra, con tre sole pareti (la quarta era costituita da una montagna! ) in una zona desolata della Sierra Nevada. Costantemente assillati da penuria di viveri, i pionieri divennero bravissimi nel trasformare ciò che avevano a disposizione in ciò di cui avevano bisogno. Ad Albert e Clara piaceva raccontare di quando conservavano la gelatina nelle bottiglie di whisky - la gelatina la si poteva tirare fuori con un coltello - perché i vasi a bocca larga, che erano di meno, servivano per conservare altri cibi. Certamente crescere in un ambiente di questo tipo deve aver contribuito a formare la base é ciò che alla fine avrebbe caratterizzato gli approcci molto innovativi alla terapia di Milton: l'utilizzare in modo creativo tutto ciò che è disponibile nella persona al fine di ottenere cambiamento e guarigione."

Una convinzione fondamentale di Erickson fu che l'ipnosi - come aveva potuto verificare - esiste in un gran numero di situazioni della vita quotidiana, non è necessario quindi un rituale specifico, strano o complicato per indurla. Per Erickson l'ipnosi era più che altro uno stile comunicativo che lo seguiva in qualsisi approccio con il cliente. Da questa convinzione deriva l'approccio naturalistico che lo ha reso famoso.

Inoltre Erickson era molto abile nella comunicazione multilivello proprio perché conosceva i multipli significati di molte parole, infatti fino alla 3a elementare era stato un grande lettore di dizionari:

Dato che Erickson nacque e crebbe in una terra di frontiera e in campagna, poté avvalersi di poche istituzioni sanitarie o educative. L ‘'istruzione" che si impartiva era di tipo semplice, limitata all'essenziale, ed è forse per questo che (a quanto sembra) nessuno si accorse che il giovane Milton percepiva il mondo in un suo modo del tutto peculiare. Molti dei primi ricordi di Erickson riguardano il modo in cui, per via di vari problemi di costituzione, le sue percezioni erano diverse da quelle degli altri: per esempio, era daltonico inoltre era affetto da sordità tonale e non poteva né riconoscere né eseguire i ritmi tipici della musica e delle canzoni; era poi a che affetto - da dislessia un problema che indubbiamente la sua mente di bambino non riusciva a capire e che egli riconobbe e capì solo molti, molti anni dopo.

Le incomprensioni, le discrepanze e la confusione che derivavano da queste differenze rispetto alla visione del mondo che era comune e normale negli altri avrebbero potuto menomare il funzionamento mentale di un'altra persona. Nel giovane Milton, invece, queste differenze crearono a quanto pare l'effetto opposto: stimolarono la sua ricerca e la sua curiosità. Ma, cosa più importante, esse portarono a una serie di esperienze inusuali che costituirono la base di una ricerca, durata tutta una vita, sulla relatività delle percezioni umane e sui problemi che ne derivavano, nonché sugli approcci terapeutici riguardanti tali problemi.

Quando aveva sei anni Erickson era un bambino che appariva handicappato dalla dislessia. La sua maestra, per quanti sforzi facesse, non riusciva a convincerlo che un '3' e una 'm' non erano la stessa cosa. Un giorno ella scrisse un 3 e poi una m guidando con le proprie mani quelle del piccolo, ma Erickson non riusciva ancora a coglierne la differenza. D'un tratto ebbe un'allucinazione visiva spontanea in cui la percepì in un lampo di luce accecante.

E.: Puoi capire come questo sia sconcertante? Poi un giorno, c'è stato qualcosa di sbalorditivo: uno scoppio improvviso di luce atomica. Ho visto la m e il 3. La m stava diritta sulle gambe e il 3 poggiato su un fianco con le gambe protese. Già, un lampo accecante! Luminosissimo! Da far dimenticare ogni altra cosa. Un lampo accecante e, al centro di quell'esplosione di luce, il 3 e la m.

R.: Hai visto veramente un lampo accecante? C'era proprio o stai usando una metafora?

E.: Sicuro. Oscurava ogni cosa, tranne il 3 e la m.

R.: Ti rendevi conto d'essere in uno stato alterato? Da bambino qual'eri, ti meravigliavi di un'esperienza così strana?

E.: - è così che impariamo le cose.

R.: - Penso che sia quello che chiamerei un momento creativo (Rossi, 1972, 1973).

E.: Hai sperimentato una vera alterazione percettiva: un lampo con il 3 e la m al centro. Avevano proprio delle gambe?

E.: Li ho visti com'erano. [Erickson fa lo schizzo di un effetto nube con al centro un 3 e una m]. Escludevano ogni altra cosa!

R.: Era un'allucinazione visiva? A sei anni hai effettivamente avuto un importante insight intellettuale sotto forma di allucinazione visiva?

E.: Sì, non ricordo nient'altro di quel giorno. Il lampo più accecante, più abbagliante l'ho avuto al secondo anno di scuola secondaria. Tanto nella scuola elementare quanto in quella secondaria mi avevano soprannominato 'Dizionario' perché passavo un sacco di tempo sul dizionario. Un giorno, poco dopo il segnale d'inizio dell'intervallo di mezzogiorno, me ne stavo seduto al mio solito posto in fondo all'aula e leggevo il dizionario. D'un tratto vi fu un lampo luminosissimo che mi abbagliò, perché avevo imparato a usarlo. Sino a quel momento, leggevo il dizionario. D'un tratto vi fu un lampo luminosissimo che mi abbagliò, perché avevo imparato a usarlo. Sino a quel momento, quando dovevo cercare una parola, cominciavo dalla prima pagina e continuavo a leggere colonna per colonna, pagina per pagina, finché non arrivavo al vocabolo desiderato. In quel lampo accecante capii che per cercare una parola usiamo l'alfabeto come un sistema ordinato. Gli allievi che si portavano la colazione da casa andavano sempre a mangiarla nel piano interrato. Non so quanto tempo rimasi al mio posto, abbagliato dalla luce accecante, ma quando scesi quasi tutti avevano finito di mangiare. Quando mi chiesero perché arrivassi con tanto ritardo, sapevo già che non gli avrei detto che avevo appena imparato a usare il dizionario. Non so perché ci avevo messo tanto tempo. Non potrebbe darsi che il mio inconscio rifiutasse di farlo proprio per la grande quantità di nozioni che ricavavo dalla lettura integrale del dizionario? ( ... )

E.: Devo avere avuto una leggera dislessia. Non avevo dubbi sul fatto che quando dicevo: co-mick-al, vin-gar, goverment e mung, la mia pronuncia fosse identica ai suoni prodotti quando gli altri dicevano: comical, vinegar, government e spoon. Quando facevo il secondo anno di scuola secondaria, la professoressa di dizione cercò inutilmente per un'ora intera di farmi dire: government. Poi, con una improvvisa ispirazione, si servì del nome di un mio compagno, 'La Verne', e scrisse sulla lavagna: 'govLaVemement'. Io lessi: 'govlavernement'. Lei allora me lo fece rileggere omettendo il La di La Verne. Quando lo feci, una n accecante cancellò altro oggetto circostante compresa la lavagna. Devo a Miss Walsh la mia tecnica di introdurre l'inatteso e il non pertinente in uno schema fisso e rigido fino a farlo esplodere. Oggi è venuta una paziente, tutta tremante e singhiozzante: "Sono stata cacciata via. Ne capita sempre. Il mio capo ufficio mi strapazza. Ricevo degli insulti e piango sempre. Oggi mi ha urlato: 'Stupida! Stupida! Fuori di qui! Fuori!'. Ed eccomi qui". Le ho detto con estrema coscienza e serietà: "Perché non gli dice che bastava che lui glielo facesse sapere e lei avrebbe lavorato volentieri in un modo ancora più stupido! ". È rimasta perplessa, sconcertata e sbigottita, poi è scoppiata in una risata. Il resto del colloquio si è svolto bene, con risate improvvise in genere all'indirizzo di se stessa.

R.: Le sue risate indicano che l'hai aiutata a far breccia nella sua visione limitata di se stessa come vittima. In quella vecchia esperienza con Miss Walsh è illustrato un principio fondamentale del tuo approccio di utilizzazione: lei aveva utilizzato la tua capacità di pronunciare LaVerne per aiutarti a irrompere fuori del tuo errore stereotipo nella pronuncia della parola government" (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 138-140).

Erickson finì con lo scoprire in completa autonomia i fenomeni ipnotici (ideodinamici) nel corso della sua riabilitazione. Sviluppo inoltre una enorme capacità di attenzione e percezione dell'ambiente circostante, in particolare in rapporto ai segnali non verbali quando cercò di rimparare dalla sua sorellina piccola a camminare. In questo periodo che sviluppa la sua tecnica di utilizzazione, cioè di recuperare le proprie risorse inconscie:

Se c'è mai stato qualcuno che ha impersonato l'archetípo del medico malato, colui che impara a guarire gli altri guarendo innanzitutto se stesso questi fu Milton H. Erickson.

L'esperienza più formativa nei suoi primi anni di vita fu a sua prima lotta con la poliomielite all'età di diciassette anni (il secondo attacco lo ebbe all'età di 51 anni). Nel seguente dialogo egli così ricorda quella crisi della sua vita, e la propria esperienza di uno stato percettivo alterato, che successivamente riconobbe essere una sorta di autoipnosi:

"E.: Quella sera, dal mio letto, udii per caso i tre medici dire ai miei genitori, nella stanza accanto, che il loro ragazzo non sarebbe arrivato al mattino. Divenni furibondo all'idea che qualcuno potesse dire a una madre che il figlio sarebbe morto entro il mattino. Poi mia madre entrò con l'espressione più serena che le riuscì di prendere. Le chiesi di spostare il comò, spingendolo d'angolo contro il lato del letto. Lei non capiva perché; pensava che stessi delirando. Parlavo con difficoltà. Ma in quell'angolo, grazie allo specchio che sormontava il comò, riuscivo a vedere attraverso la porta e la finestra di ponente dell'altra stanza. Non volevo a ogni costo morire senza aver visto un'ultima volta il tramonto. Se avessi qualche attitudine al disegno, potrei ancora disegnarlo.

R.: La tua rabbia e la tua voglia di vedere un altro tramonto sono state un modo di mantenerti vivo in quel giorno critico nonostante le previsioni dei medici. Ma perché la chiami un'esperienza autoipnotica?

E.: Vedevo quel vasto tramonto che copriva interamente il cielo. Sapevo però che fuori della finestra c'era anche un albero, ma lo avevo escluso.

R: Lo avevi escluso? Si trattava di quella percezione selettiva che ti permette di dire che eri in uno stato alterato?

E.: Sì, non lo facevo consciamente. Vedevo tutto il tramonto, ma non vedevo né la siepe né la grande roccia rotonda che c'erano. Avevo escluso tutto, meno il tramonto. Dopo averlo visto rimasi per tre giorni senza coscienza. Quando tornai in me chiesi a mio padre perché avessero tolto la siepe, l'albero e la roccia. Non mi rendevo conto d'essere stato io a cancellarli quando avevo fissato tanto intensamente l'attenzione sul tramonto. In seguito, quando fui guarito e divenni consapevole delle mie condizioni inabilitanti, mi chiesi come avrei fatto a guadagnarmi da vivere. Avevo già pubblicato un articolo su una rivista agricola nazionale: "Perché i giovani abbandonano la campagna". Non avevo più le forze necessarie per fare l'agricoltore, ma forse avrei potuto farcela come medico.

R.: Diresti che è stata l'intensità della tua esperienza interiore, il tuo spirito e il tuo senso di sfida, a tenerti in vita perché potessi vedere il tramonto?

E.: Certo ai pazienti con scarse prospettive diciamo: "Dovreste vivere abbastanza per farlo il mese prossimo". E loro lo fanno." (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 140-141)

Il modo in cui Milton si riprese costituisce uno dei racconti di auto-guarigione e scoperta più affascinanti che io abbia mai sentito. Quando si svegliò dopo quei tre giorni, si trovò quasi del tutto paralizzato: sentiva i suoni molto bene, vedeva e poteva muovere le pupille, poteva parlare, con grande difficoltà, ma per il resto non poteva fare nessun altro movimento. Nella sua comunità rurale non esisteva nessuna struttura per la riabilitazione, e a detta di tutti egli sarebbe rimasto senza l'uso degli arti per tutto il resto della sua vita.

Ma la sua acuta intelligenza continuò a lavorare. Egli imparò, per esempio, standosene tutto il giorno a letto, a fare dei giochi con la mente, interpretando i suoni che gli provenivano dall'ambiente: dal suono che faceva la porta della stalla nel chiudersi, e dal tempo che impiegavano i passi a raggiungere la casa, lui riusciva a dire di che persona si trattava e di quale umore era.

Poi venne il famoso giorno in cui i suoi familiari si scordarono di averlo lasciato solo, inchiodato nella sedia a dondolo. (Gli avevano costruito una specie di primitivo vaso da notte intagliando un foro nel sedile). La sedia a dondolo si trovava all'incirca nel mezzo della stanza, e Milton, seduto in essa, guardava ardentemente la finestra, col desiderio di esservi più vicino, in modo d'avere almeno il piacere di poter guardare la fattoria lì fuori. Mentre era lì seduto, apparentemente immobile, preso dai suoi desideri e dai suoi pensieri, improvvisamente la sua sedia aveva cominciato a dondolare leggermente, Che enorme scoperta! Era un caso?

Oppure il suo desiderio di essere più vicino alla finestra non aveva forse effettivamente stimolato qualche minimo movimento del corpo, che aveva cominciato a far dondolare la sedia?!

Questa esperienza, che probabilmente alla maggior parte di noi sarebbe passata inosservata, portò il ragazzo diciassettenne a un periodo di febbrile esplorazione di sé e di scoperta. Milton stava scoprendo da solo il principio ideomotorio fondamentale dell'ipnosi esaminato da Berneim una generazione prima che il solo pensiero o la sola -idea di un movimento potevano portare all'effettiva esperienza di un movimento automatico del corpo. Nelle settimane e nel mesi che seguirono, Milton andò a ripescare tutti i suoi ricordi sensoriali per cercare di reimparare a muoversi. Per esempio, si guardava per ore e ore la mano, e cercava di ricordare che sensazione gli avevano dato le dita quando tenevano un forcone. A poco a poco si accorse che le sue dita cominciavano a fare dei piccoli scatti e a muoversi leggermente in modo scoordinato. Continuò sino a che i movimenti diventarono più ampi, e lui poté controllarli coscientemente. E in che modo la mano afferrava un ramo d'albero? Come si muovevano gambe, piedi e dita quando si arrampicava su un albero?

Non erano semplici esercizi di immaginazione; erano esercizi di attivazione di reali ricordi sensoriali ricordi che ri-stimolarono la sua coordinazione senso-motoria tanto da permettergli di guarire. Ciò appare evidente dal seguente stralcio di colloquio:

E.: "Dapprima cercai di imparare a rilassarmi e ad accrescere la mia forza. Mi costruii dei tiranti elastici che potevo tendere contro certe resistenze. Ogni notte facevo quest'esercizio e tutti gli altri possibili. Poi mi accorsi che avrei potuto camminare per stancarmi e liberarmi dal dolore. A poco a poco capii che, se fossi riuscito a pensare al fatto di camminare, stancarmi e rilassarmi. ne avrei avuto un sollievo.

R.: Il solo fatto di pensare a camminare e a stancarti riusciva ad alleviarti il dolore allo stesso modo dell'effettivo processo fisico?

E.: Sicuro, poco per volta ci riuscì.

R.: Nelle tue esperienze di autorieducazione, tra i 17 e i 19 anni, ti sei reso personalmente conto che potevi servirti dell'immaginazione per ottenere gli stessi risultati che avresti ottenuto con uno sforzo fisico reale.

E.: Di un intenso ricordo più che dell'immaginazione. Ci ricordiamo di certi gusti, sappiamo che la menta ci dà quella certa sensazione di fresco. Da bambino mi arrampicavo su un albero di un boschetto, poi saltavo da un albero all'altro come una scimmia. Ho cercato di ricordare le varie contorsioni e giravolte che facevo per scoprire quali sono i movimenti che facciamo quando abbiamo la piena disponibilità dei nostri muscoli.

R.: Attivavi dei ricordi reali dell'infanzia per capire quanta parte del controllo muscolare avessi perduto e trovare il modo di riacquisirlo.

E.: Sì, ci serviamo di ricordi reali A 18 anni cercavo di ricordare tutti i movimenti che facevo da bambino per aiutarmi a riapprendere la coordinazione muscolare (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 141-142).

Ma perché potesse guarire era necessario qualcosa di più della semplice introspezione: l'osservazione del mondo esterno.

Fortunatamente in quel periodo la sua sorella minore, Edith Carol, stava appena imparando a camminare. Milton iniziò una serie di osservazioni giornaliere nelle quali notava il suo modo (soprattutto inconscio) di imparare a camminare, in modo da poterlo copiare consapevolmente, e così costringere il proprio corpo a fare lo stesso. In una conversazione sinora inedita, egli così parla di quel periodo:

Imparai a stare in piedi guardando la mia sorellina che imparava a stare in piedi:

usa le tue due mani come base, allarga le gambe, usa le ginocchia come base larga, e poi poggia più peso su un braccio e una mano e sollevati. Ondeggia avanti e indietro per trovare l'equilibrio. Esercitati a piegare le ginocchia e a mantenere l'equilibrio. Dopo che il corpo è in equilibrio, muovi la testa. Dopo che il corpo è in equilibrio muovi la mano e la spalla. Metti un piede davanti all'altro mantenendoti in equilibrio. Cadi. Riprova.

Dopo undici mesi di questo intensivo allenamento, Mílton camminava ancora sulle stampelle, ma stava imparando rapidamente a camminare in modo sempre meno faticoso, in modo da sottoporre a minima tensione il suo corpo.

Scopre anche l'uso del doppio legame e dei paradossi molto presto:

"Il mio primo uso intenzionale del doppio legame che ricordi con esattezza risale agli inizi dell'adolescenza. Un giorno invernale, con temperatura sotto zero, mio padre fece uscire dalla stalla un vitello per portarlo all'abbeveratoio. Dopo averlo dissetato ripresero la via della stalla, ma quando giunsero alla porta l'animale puntò testardamente i piedi e non volle saperne di entrare nonostante gli sforzi disperati di mio padre che lo tirava per la cavezza. Io stavo giocando con la neve e, al vedere quella scena, scoppiai in una gran risata. Allora mio padre mi sfidò a fare entrare il vitello nella stalla. Visto che si trattava di una resistenza ostinata e irragionevole da parte dell'animale, decisi di dargli la più ampia occasione di continuarla secondo quello che era chiaramente il suo desiderio. Di conseguenza lo posi di fronte a un doppio legame: lo presi per la coda e lo tirai fuori dalla stalla, mentre mio padre continuava a tirarlo verso l'interno. Il vitello decise subito di opporre resistenza alla più debole delle due forze e mi trascinò nella stalla" (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 469-470)."

Più avanti nella vita adulta le esperienze di autoipnosi spontanea lo accompagnarono dandogli quella fiducia nell'inconscio che lo caratterizza:

E: "Continuavo a osservare sempre. Ti dirò quale è stata la cosa più presuntuosa che abbia mai fatto. Avevo vent'anni ed ero nel primo semestre del secondo anno di college quando cercai di ottenere un posto al quotidiano locale, The Daily Cardinal, nel Wisconsin. Volevo scrivere articoli di fondo. Il direttore, Porter Butz, mi accontentò e mi disse che avrei potuto lasciarglieli nella buca delle lettere andando la mattina a scuola. Dovevo però leggere e studiare moltissimo per compensare la mia scarsa preparazione letteraria della campagna. Volevo farmi una vasta cultura. Un'idea di come procedere mi venne ricordando il modo in cui, quand'ero più giovane, a volte correggevo in sogno dei problemi di aritmetica.

Il mio piano era questo: avrei studiato la sera e sarei andato a letto alle dieci e mezza, addormentandomi immediatamente, dopo aver caricato la sveglia per l'una di notte. A quell'ora mi sarei alzato, avrei scritto a macchina l'articolo, avrei messo la macchina sopra le pagine scritte e me ne sarei tornato a dormire. Al mio risveglio, il mattino dopo, mi meravigliai moltissimo di trovare qualcosa di scritto sotto la macchina, perché non ricordavo affatto d'essermi alzato per scrivere. Era così che scrivevo ogni volta gli articoli.

Volutamente non li rilessi, ma ne conservai una copia a carta carbone. Lasciai gli articoli non riletti nella cassetta delle lettere, poi diedi ogni giorno un'occhiata al giornale, per vedere se fossero stati pubblicati, ma con esito negativo. Alla fine della settimana esaminai le copie che avevo fatto e constatai di avere scritto tre articoli che erano stati tutti pubblicati. Riguardavano per lo più il college e il suo rapporto con la comunità locale. Non avevo riconosciuto ciò che io stesso avevo scritto vedendolo stampato e avevo dovuto controllare le mie copie per averne la prova".

R.: Perché decidesti di non rileggere al mattino gli scritti della notte?

E.: Mi chiesi se sarei stato capace di scrivere degli articoli. Il fatto di non riconoscere le mie parole sulla pagina stampata significava che nella mia mente c'erano molte più cose di quante non pensassi. Ebbi così la prova d'essere più intelligente di quel che credevo. Quando volevo sapere qualcosa non volevo che la conoscenza imperfetta di qualcun altro la deformasse. Il mio compagno di stanza osservava con curiosità le mie alzate all'una di notte per scrivere a macchina. Mi disse che sembravo non accorgermi di nulla quando mi scuoteva la spalla, e si chiedeva se camminassi e battessi a macchina nel sonno. Gli dissi che doveva essere proprio così, perché a quel tempo non vedevo assolutamente altre spiegazioni. Fu solo al terzo anno di college che frequentai i seminari di Hull e cominciai le mie ricerche sull'ipnosi.

R.: Con un approccio naturalistico, pratico di questo tipo, potremmo far apprendere ad altri l'attività sonnambulica e l'autoipnosi? Uno potrebbe caricare la sveglia in modo da alzarsi a metà sonno e svolgere qualche attività che poi potrebbe dimenticare. Sarebbe un modo di addestrarsi all'attività dissociativa e all'amnesia ipnotica?

E.: Sicuro, e dopo qualche tempo la sveglia non sarebbe più necessaria. Ho istruito in questo modo molti allievi" (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 143-144).

Ma per quanto, stando a questi primi esperimenti col proprio inconscio, il giovane Mílton sembrasse avere il mondo in pugno, c'erano lezioni ancora più importanti da imparare.

Quanto segue è un esempio di come questo giovane americano di campagna abbia cominciato a pensare al suo futuro di medico:

E.: "Quand'ero agli inizi dei miei studi di medicina ebbi un'esperienza molto amara.

Ero stato incaricato di visitare due pazienti. Il primo era un vecchio settantatreenne, un individuo sgradevole sotto ogni aspetto: fannullone, alcolizzato, ladro, che era sempre vissuto a carico dell'assistenza pubblica. Questo tipo di vita m'interessava: feci un'accurata anamnesi e mi informai di ogni particolare. Risultò chiaro che costui aveva buone probabilità di superare gli ottant'anni. Poi passai al secondo paziente. Era una delle più belle ragazze che avessi mai visto: una personalità affascinante e di grande intelligenza. Visitarla era un piacere. Poi, mentre le esaminavo gli occhi, mi trovai a dirle che avevo scordato di fare qualcosa: mi scusasse, sarei tornato al più presto. Andai nella sala di riunione dei medici e consideraí il futuro. La giovane aveva il morbo di Bright e poteva dirsi fortunata se fosse riuscita a vivere per altri tre mesi. Vidi l'ingiustizia della vita. Un vecchio fannullone di 73 anni, che non aveva mai fatto niente di meritevole, non aveva mai dato niente, era stato solo distruttivo. Qui invece una ragazza stupenda e affascinante, che aveva tanto da offrire. Dissi a me stesso:

"Pensaci sopra e ricavane una visione dell'esistenza, perché come medico ti troverai continuamente di fronte a qualcosa del genere: alla assoluta ingiustizia della vita".

R.: Come c'entra lo stato autoipnotico?

E.: Lì ero solo. So che gli altri entravano e uscivano dalla sala, ma io non ne avevo coscienza. Stavo guardando nel futuro.

R.: In che modo? Avevi gli occhi aperti?

E.: Li avevo aperti. Vedevo i bambini non ancora nati, quelli che dovevano ancora crescere e diventare quel dato uomo e quella data donna, che sarebbero morti a 20, 30 o 40 anni. Alcuni sarebbero vissuti sino a 80 o a 90 anni, e consideravo il loro valore come individui.

Persone di ogni tipo, con le loro occupazioni, la loro vita: tutte mi passavano davanti agli occhi.

R.: Era una specie di pseudo-orientamento nel futuro? Hai vissuto nell'immaginazione la tua vita futura?

E.: Sì, non si può praticare la medicina se si è sconvolti emotivamente. Ho dovuto imparare a riconciliarmi con l'ingiustizia della vita in quel contrasto tra la ragazza avvenente e il vecchio fannullone settantatreenne.

R.: Quando ti sei accorto di trovarti in uno stato autoipnotico?

E.: Capivo di essere assorto come quando scrivevo gli articoli e lo ero semplicemente, senza cercare di esaminare questo mio stato. Vi ero entrato per orientarmi verso il mio futuro di medico.

R.: Ti sei detto: "Ho bisogno di orientarmi sul mio futuro di medico". Allora è subentrato il tuo inconscio e hai avuto questo profondo sogno a occhi aperti. Perciò quando entriamo in autoipnosi diamo a noi stessi un problema e poi lasciamo che se ne occupi l'inconscio. I pensieri venivano e se ne andavano da soli? Erano cognitivi o espressi in immagini?

E.: Tutte e due le cose. Vedevo il bambino piccolo crescere e farsi uomo" (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 144-145).

A differenza delle terapie in voga Erickson non dava importanza all'insight e promuoveva varie tecniche innovative come le suggestioni indirette, i doppi legami, le metafore, la disseminazione di concetti, l'utilizzazione secondo il famoso principio: "tutto ciò che il paziente ti presenta in studio, va assolutamente utilizzato."

Chiaramente Erickson non arrivò subito a utilizzare tali tecniche, iniziò con il classico approccio all'ipnosi per poi sviluppare un proprio stile centrato sul cliente: nel 1973 egli disse : "... le persone vengono per essere aiutate, ma anche per ricevere qualche giustificazione razionale del proprio comportamento e per salvare la faccia. Io mi preoccupo molto di rispettare questa loro necessità e cerco di parlare in modo tale da dare la sensazione che sono dalla loro parte" (Haley, 1975)

L'inconscio descritto da Erickson non era quello di Freud, si trattava di una forza amica dalla quale trarre risorse ma che funziona comunque secondo la logica descritta da Freud cioè per metafora e metonimia.

Per capire come Erickson intendeva l'inconscio basta prendere alcune parti delle sue induzioni:

"E nello stato di trance puoi lasciare che la tua mente inconscia passi in rassegna il vasto deposito di cose che hai appreso, che hai appreso nel corso della tua vita. Ci sono molte cose che hai imparato senza saperlo. E molte delle conoscenze che ritenevi importanti a livello conscio sono scivolate nella tua mente inconscia."

Erickson era capace di comunicare all'inconscio poiché utilizzava il suo stesso linguaggio mentre al contempo distraeva e sovraccaricava la mente cosciente. E in effetti sembra che Erickson considerasse l'Io cosciente la vera causa dei problemi con i suoi pregiudizi, i suoi schemi rigidi e le convinzioni limitanti.

Quindi l'ipnosi come spiega Erickson "di per sé non provoca la guarigione, questa è ottenuta tramite una ri-associazione delle esperienze della persona" (Opere, Vol. IV)

Si può anche dire che Erickson era un pragmatico, non arrivò a sviluppare una teoria completa della personalità. Scrive Lankton: "[...] secondo alcuni l'influsso di Erickson eguaglia quello avuto da Freud. Ma se Freud può essere considerato come l'Einstein della teoria, Erickson sarà ricordato come l'Einstein dell'intervento terapeutico."

Erickson sviluppa più che altro una teoria dell'intervento strategico che si basa sui seguenti punti a parere di Lankton:

1. La persona agisce secondo la propria mappa interna, e non secondo la propria esperienza sensoriale.

2. In un qualsiasi dato momento, la scelta che la persona compie è quella per lei migliore

3. La spiegazione, la teoria o la metafora cui si ricorre per dire qualcosa su una persona non esauriscono la totalità della persona

4. Rispettate tutti i messaggi del cliente

5. Insegnate a scegliere, non cercate mai di limitare la scelta

6. Le risorse di cui il cliente ha bisogno risiedono nella sua storia personale

7. Andate incontro al cliente all'interno del suo modello del mondo

8. L'elemento più forte di un sistema è la persona che dispone della maggiore flessibilità o possibilità di scelta

9. Non è possibile non comunicare

10 Se una cosa è troppo difficile, suddividetela in pezzi

11. Il risultato è determinato a livello inconscio

 

Potremmo anche aggiungere che Erickson aveva fiducia nel processo inconscio e nelle sue risorse. Inoltre si concentrava sul positivo e sulla soluzione piuttosto che sui problemi o sull'elaborazione di teorie complicate.

 

Proprio in riferimento al punto 10 occorre rendersi conto che Erickson era veramente abile nel ridurre le variabili complesse in variabili semplici. Era capace di redarre una induzione di 30 pagine per poi ridurla fino a una pagina e mezza. Questa è una caratteristica dei grandi retori, che potremmo definire come la conclusiva brevità ovvero la capacità di esprimere compiutamente e concisamente il proprio pensiero. Ma questa abilità la si può trovare solo alla fine di un lungo percorso di affinamento. Scriveva Pascal: "Mi scuso per avere scritto una lettera così lunga, non avevo tempo per scriverne una più breve."

Erickson era veramente meticoloso, arrivò per esempio a registrare e a studiare gli schemi linguistici usati da uno psicotico per poi comunicare nel suo stesso stile.

Quel caso è anche una perfetta dimostrazione del punto 7: Erickson ricalcava e utilizzava la mente cosciente del cliente per poi comunicare nel suo stesso stile a livello verbale e non verbale e per far ciò occorre una enorme flessibilità e acutezza sensoriale, infatti il terapeuta deve trasformarsi in uno strumento di biofeedback per il cliente.

Dominique Megglé spiega che l'approccio alla terapia di Erickson in realtà ne riassume diversi: "Per la sua inclinazione alla sperimentazione (ma solo in laboratorio!) e per l'importanza attribuita all'apprendimento, la terapia eriksoniana si avvicina alle terapie comportamentali. Per il suo orientamento sulle qualità del trattamento dell'informazione (differenti fra conscio e inconscio) essa evoca le terapie cognitive. Per il suo lavoro sulle associazioni mentali, i simboli inconsci e per l'attenzione all'economia psichica, si situa nella corrente psicanalitica. Infine per il suo interesse volto più alla crescita della persona che alle sue deficienze, può essere considerata una terapia umanistica." (Dominique Megglé, Psicoterapie brevi, Red).

 

 

 

Alcuni testi fondamentali:

 

L'uomo di febbraio. Lo sviluppo della coscienza e dell'identità nell'ipnoterapia (1992);
Opere. Vol. 1: La natura dell'Ipnosi e della suggestione (1987);
Opere. Vol. 2: L'Alterazione ipnotica dei processi sensoriali, percettivi e psicofisiologici (1987);
Opere. Vol. 3: L'Indagine ipnotica dei processi psicodinamici (1987);
Opere. Vol. 4: Ipnoterapia innovatrice (1987);
L'esperienza dell'ipnosi. Approcci terapeutici agli stati alterati (1985);
La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici (1983);
Tecniche di suggestione ipnotica. Induzione dell'ipnosi clinica e forme di suggestione indiretta (1979).


Particolarmente utili sono inoltre i testi di Haley, Bandler e Grinder fra i quali segnaliamo:

Terapie non comuni. Tecniche ipnotiche e terapia della famiglia (Haley Jay - 1976);
I modelli della tecnica ipnotica di Milton H. Erickson (Bandler Richard; Grinder John - 1984).


In rete è possibile trovare numerosi filmati che mostrano questo grande ipnoterapeuta in azione.

 

Qui di seguito ne riporto alcuni che ritengo particolarmente interessanti e degni di nota:

 

1) Milton Erickson Hypnosis Session: Woman's First Time


Un incredibile documento storico, della durata di 33:59, dove Milton Erickson conduce una sessione di Ipnosi con una sua paziente.
Interessante notare le qualita' vocali e le tecniche induttive applicate da Erickson.
Video in Inglese
www.youtube.com (33 minuti e 59 secondi)

 

2) Milton H. Erickson Md - Explorer In Hypnosis And Therapy
Un documentario di Jay Haley e della sua compagna, Madeleine Richeport della durata di 52:02.
Il documentario ripercorre la biografia del grande ipnoterapeuta.
Video in Inglese
video.google.fr (52 minuti e 2 secondi)

3) Milton H. Erickson MD - Nick And Mondy
Breve filmato dalla durata di un solo minuto, dove e' possibile osservare Erickson mentre svolge una seduta con una giovane coppia (filmato del 1975 ca).
www.youtube.com (60 secondi)


 

Milton H. Erickson: Links utili

LA FONDAZIONE ERICKSON
WIKIPEDIA, L'ENCICLOPEDIA LIBERA
CORSI E MASTER DI PSICOLOGIA: IPNOSI

 

 


 

 

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