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I miei libri senza tempo 3 Stampa

Forse non ci sono giorni della nostra infanzia che abbiamo così pienamente vissuto come quelli che abbiamo creduto di lasciare senza viverli, quelli che abbiamo trascorso con un libro preferito. Di tutto ciò che, in apparenza, li riempiva per gli altri, e che noi allontanavamo come un ostacolo volgare a un piacere divino: il gioco per il quale un amico passava a prendervi sul punto più interessante, l'ape o il raggio di sole invadenti che ci costringevano ad alzare gli occhi dalla pagina o a cambiare posto, le provviste per la merenda che ci avevano fatto portare e che lasciavamo vicino a noi sulla panca, senza toccarle, mentre, sopra la nostra testa, il sole perdeva forza nel cielo blu, la cena per la quale era stato necessario rientrare e durante la quale non pensavamo che a salire per terminare, subito dopo, il capitolo interrotto; di tutto questo, di cui la lettura avrebbe dovuto impedirci di percepire altro che l'importunità, essa esprimeva al contrario in noi un ricordo talmente dolce (tanto più prezioso, secondo il nostro attuale giudizio, di quello che leggevamo allora con tanto amore), che, se ci capita ancora oggi, di sfogliare questi libri di un tempo, è solo più in quanto sono gli unici calendari che abbiamo conservato dei giorni sepolti, e con la speranza di vedere riflesse sulle loro pagine le case e gli stagni che non esistono più. Marcel Proust (Sur la lecture)  

 

N.B. Il testo delle recensioni in grigio chiaro svela il finale del libro, per cui si consiglia, a chi non lo volesse conoscere anticipatamente, di non leggerlo prima della lettura del libro.

 

 

I miei libri senza tempo (quelli che andrebbero riletti di tanto in tanto o che sono pietre miliari della mia conoscenza, e sono tanti, mi limiterò ad aggiungerne qualcuno saltuariamente):

 

 

 

"Cancro, complessità e derive psicoanalitiche", a cura di Fabrizio Franchi, Franco Angeli, 2007. 

cancro_complessitNell'ambito della medicina ufficiale, la psicosomatica è stata ridotta ad una banale competizione tra cause psicogene o cause organiche nell'instaurarsi di patologie non severe come un'ulcera peptica o una cefalea vasomotoria. Quel rigore scientifico che è parola d'ordine dei nostri tempi postula invece che lo sviluppo di un tumore sia un evento che riguarda esclusivamente una concreta biologia molecolare. Ma questo modo di pensare contiene un equivoco. La psiche vi figura come espressione di un'"anima" aliena al corpo. Poiché al contrario psiche e soma sono solo due categorie euristiche sovrapposte alla realtà, l'uomo - e dunque a maggior ragione l'uomo malato - va sempre pensato in termini di unità: tutti gli accidenti umani saranno per definizione psicosomatici. Si tratta di trovare gli strumenti culturali per trattare questa unitarietà. Una tale operazione deve tener conto delle parzialità della medicina scientifica attuale, dell'evoluzione delle teorie psicoanalitiche ma anche delle nuove conoscenze scientifiche generali nonché di un fraintendimento: tra le due aree non c'è una reale incompatibilità di argomenti trattati, bensì la difficoltà di intendere l'uno il linguaggio dell'altro e di considerare la serietà delle reciproche acquisizioni. Questo libro è dunque diretto ai professionisti "di buona volontà", che siano determinati a sfatare una tradizionale concezione divulgata secondo la quale approccio psichico e approccio organico sarebbero campi rivali che si escludono. Esso nasce dai contributi dei fondatori di Synaptica, un'associazione scientifica dedita alla psicosomatica studiata con gli strumenti della psicoanalisi.  

 

 

"Che cosa sappiamo della mente", Ramachandran Vilayanur S., Oscar Mondadori, 2007. che_cosa_sappiamo_della_mente

 

 

Il neuroscienziato anglo-indiano Ramachandran fa il punto in questo volume sulla profonda rivoluzione in corso nel campo degli studi sui meccanismi che regolano il funzionamento della mente. Spiega quali relazioni esistono tra la coscienza - il cosiddetto "fantasma nel cervello" - e il senso della vista e come un danno agli occhi possa modificare la percezione di sé, come e dove hanno origine la creatività individuale e l'invenzione poetica. Frutto di una serie di lezioni, è un volume che guida alla conoscenza dei nuovi traguardi delle ricerche sul cervello.

 

 

 

 

"L'anima e il suo destino", Vito Mancuso, Raffaello Cortina, 2007.

lanima_e_il_suo_destinoIl libro incontrerà opposizioni e critiche, ma sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenerne conto", scrive nella prefazione il cardinale Martini. Gli argomenti sono i più classici, l'esistenza e l'immortalità dell'anima, il suo destino di salvezza o perdizione. Del tutto nuova è invece la trattazione, in cui scienza e filosofia assumono il ruolo di interlocutori privilegiati della teologia, configurando una fondazione del concetto di anima immortale di fronte alla coscienza laica. Criticando alcuni dogmi consolidati, il libro affronta l'interrogativo fondamentale che da sempre inquieta la mente degli uomini: se esiste e come sarà la vita dopo la morte. Qui appare la difficoltà del pensare contemporaneo, anzi del pensare umano in sé e per sé, visto che già Platone constatava che "sull' anima la gente è molto incredula e teme che essa, non appena si allontani dal corpo, non esista più in nessun luogo... e si dissolva disperdendosi come soffio o fumo".

 

"Vincere il dolore", Buddha, Oscar Mondadori, 2007.
vincere_il_doloreLa riflessione sul dolore e sulla via per liberare l'uomo dalla sua schiavitù è il cuore del messaggio buddhista, il motore stesso della ricerca filosofica e spirituale di Siddharta. Questo volume raccoglie i più antichi scritti del buddhismo, ricavati direttamente dall'insegnamento del Maestro, in cui il Buddha riesce a penetrare l'essenza stessa del dolore, la sua origine, e insegna la via per liberarsene, spezzando la catena dell'apparentemente inesorabile sofferenza.
Il Buddha - Contrariamente a quanto si pensa, con il nome Buddha non viene indicata soltanto una divinità, ma anche una persona realmente esistita di cui conosciamo le date e i luoghi di nascita e di morte. Il vero nome del Buddha era Siddharta Gautama, un maestro religioso che nacque nel Nepal, a Kapilavastu nel 565 a.C. e morì a Kusinagara nel 486 a.C.
Discendente della nobile e ricca famiglia Sakaya, Siddharta compiuti i trent'anni affrontò una profonda riflessione sui mali del mondo: la povertà, la vecchiaia, la malattia e la morte. I suoi ragionamenti lo portarono ad abbandonare le ricchezze familiari e a diventare un monaco errante alla ricerca di una via per la salvezza.
Dopo un lungo peregrinare, attraverso la riflessione, egli raggiunse l'illuminazione (Buddha = l'illuminato) e decise di condividere il frutto della saggezza conquistata con il resto dell'umanità, dedicò infatti il resto della sua vita alla predicazione viaggiando come monaco mendicante lungo la pianura mediorientale del Gange.
Dopo la sua morte Siddharta venne deificato, ma se ci basiamo su quanto riportato nelle sue biografie più antiche, egli non era ne diceva di essere un dio ma semplicemente un uomo che attraverso la riflessione era riuscito a trovare la via della salvezza.
Solo successivamente furono attribuiti alla sua storia eventi soprannaturali che contribuirono a rendere la sua figura oggetto di culto per un'innumerevole schiera di fedeli.
Il culto del Buddha andò via via producendo una vera e propria deificazione che portò la scuola Buddhista Mahasanghika ha indicare nella figura di Siddharta una manifestazione terrena del Buddha-divinità, venuto tra gli uomini per indicare loro la via della salvezza. A questa concezione si aggiunse poi quella del Maitreya (il Buddha futuro), quella che attribuiva a Siddharta dei predecessori, e quella della scuola del Buddhismo settentrionale (mahayana) per la quale è esistito ed esisterà un Buddha per ogniuno dei mondi possibili. A ben vedere, queste concezioni del Buddha come entità divina è onnipresente, svolgono un'importante funzione dato che grazie ad esse la "Buddhità", l'illuminazione e quindi la salvezza dai mali del Mondo, sono un bene a disposizione di tutti perchè in ogni mondo e in ogni tempo vi è un Buddha capace di mostrare la giusta via a chi lo ascolta.
Grazie alla tradizione Buddhista Birmana e a quella Singalese, nel I secolo a.C. vennero raccolti i "Discorsi del Buddha", prima di allora affidati alla trasmissione orale. Nei "Discorsi", il Buddha risponde alle domande delle persone che lo avevano incontrato durante il suo peregrinare. Attraverso esempi, massime, poesie e canzoni egli indica la via della salvezza: solo rinunciando alle ricchezze materiali, alle distrazioni mondane e praticando la meditazione e l'ascetismo, gli uomini potranno liberarsi dalla schiavitù del dolore. Per far questo, però, gli uomini dovranno attraversare la "via media" in cui la salvezza potrà essere raggiunta attraverso l'eliminazione di ogni desiderio.

 

 

"Il simbolismo dei colori", Claudio Widmann, Edizioni Magi, 20062.

simbolismocoloriNove capitoli per nove colori e nove colori per gli stati d'animo per immagini. La realtà è colorata. Per giungere a questa banale affermazione è stato necessario compiere un lungo cammino evolutivo e un complesso percorso scientifico. I mille colori di cui gli antichi dicevano fosse composto l’arcobaleno, i sette colori del prisma di Newton, i tre colori dell’alchimia, i quattro colori delle tipologie antiche e moderne, qualunque sia il numero degli omnes colores, essi sono l’immagine simbolica della totalità nelle sue diverse manifestazioni: reale, esperienziale, psichica. Perché i colori sono l’universo. Apprendere il loro linguaggio è la base necessaria per utilizzare nella forma più piena questo elemento inseparabile dalla nostra realtà.

I colori possono essere "segni" e in questo senso i loro significati sono individuali, consci e convenzionali.
I colori possono essere "simboli" e in questo senso i loro significati sono universali, inconsci, sovradeterminanti, intrinseci e corrispondono a contenuti emozionali complessi e ambivalenti. La realtà nel quale siamo immersi è una realtà colorata e il suo aspetto cromatico esercita una precisa influenza sull'organismo umano. I colori hanno determinato effetti fisiologici, esercitano influenze sul piano psichico ed emotivo.
Questo volume nasce dalla volontà di rendere fruibile al vasto pubblico la varietà di riflessioni, oggi possibili, sulla dimensione simbolica del colore, per scoprirne lo spessore culturale e per riconoscerne la grande utilità in ambito clinico. Dalla lettura dei saggi che appartengono agli autori che maggiormente si sono interessati all’argomento in Italia, il colore emerge come elemento complesso, mediatore tra la realtà materiale e quella psichica. Richiami alle riflessioni sul colore, da Aristotele a Goethe, a Jung, agli studi e al test dei colori di Max Lüscher, testimoniano la visione ad ampio raggio del libro. Dall’ambito antropologico a quello terapeutico, dal collettivo all’individuale, dalla dimensione evolutiva a quella psicodinamica, dal racconto al sogno tutto porta infatti, attraverso i vari saggi, a quella dimensione metaforica che costituisce la trama della realtà psichica. Il colore trova cioè in questo volume il valore emotivo e il «luogo» che gli compete e i lettori potranno scoprire la tonalità, la dimensione architettonica e la trama concettuale del racconto che più si addice alla loro storia.

 

“Ti canterò l'oro
del mondo.colori
Ti parlerò del giorno
ridendo
sfiorandoti le mani,
mescolando il riso
al pianto.
Ti parlerò del giorno
cantando la forza
che lo fa vincente
la tenerezza del suo chiarore
lucente.
Ti parlerò di me
scaldando
la mia voce con la tua.
Ti canterò l'oro del mondo
nella luce che lo tiene
ti parlerò di me
mentre guardo
te e l'oro intorno.”(a.a.)


Il colore giallo, associato alla luce e all'irraggiamento, ha un impulso centrifugo legato all'immagine psichica dell'apertura, dell' espansione e della fuga.
Corrisponde allo scoppio di una risata, e a tutto ciò che si gioca su un crescendo di suspense.
Più vicino al rosso, nella sua carica energetica, svolge un effetto stimolante.
Presso gli Indiani d'America, la pittura ebbe il carattere di una sinfonia cromatica, espressa dalle gradazioni di rossi e gialli.
Il sole, l'oro, e il giallo raffigurano l'intelligenza, ma anche la divinità.
Gli Egizi ritenevano che la materia solare fosse d'oro, e che di questa sostanza fosse anche il corpo degli dei.
Per questo motivo i luoghi consacrati al divino, in ogni epoca, sono stati ricchi d'oro.
Grano maturo e girasoli, ginestre e denti di leone esprimono la prorompenza vitale.
Il giallo e il rosso combinati insieme danno l'arancione, colore anch'esso legato all'energetica e alla vita.
Le tipologie in giallo sono legate al temperamento impulsivo e irritabile, alla vivacità spumeggiante e briosa.
Il simbolo della sopravvivenza è invece legato al verde, colore della rinascita, della primavera, colore giovanile dell'immaturità, ma anche della speranza, della guarigione, della salute e della longevità.
La tipologia di temperamento in verde vede una caratteristica flemmatica, ed un'organizzazione di personalità di tipo ossessiva, espressa nell'amore per la perfezione, per la cura eccessiva delle minuzie.
Ed ecco, ora, apparire sulla scala dei colori il viola magenta, il più spendente.
Nasce dalla fusione di rosso e blu e ne raccoglie i caratteri opposti.
Non abbiamo, afferma Widmann, una grande esperienza di questo colore, proprio perchè ci viene difficile tenere insieme gli opposti (amore-odio, verità-menzogna,..)
Colore poco stabile, il viola, come un funanbolo deve fare molta attenzione a non sbilanciarsi troppo dalla parte del rosso o del blu.
E' il colore del femminile, perchè, più pronto alla sintesi, conserva l'ambivalenza che gli consente di tenere insieme due parti opposte.
Per Lücher è il colore della transizione, quello che oltrepassa il confine del proprio regno fidato per entrare in un altro territorio, inaffidabile e pieno di mistero: esso anela all'altro.
Porta nel suo nome la radice vis ( forza), la stessa a cui rinviano
anche i termini violare e violenza.
Afferma Widman che tanta varietà di contenuti, nel suo testo la ricchezza è enorme, non manca di farci riflettere sulla natura e sulla fenomenologia del nucleo psicodinamico cui il viola simbolicamente rimanda, quello del principio individuationis, quell'impulso che è inscritto nella psiche e che la vincola alla trasformazione.
Il percorso individuativo, diventare ciò che si è, è un processo travagliato e gravido di sofferenze che impone rinunce e patimenti, ma che conduce verso mete di grande saggezza.
Esso comunque non esprime un punto finale, poichè ogni integrazione è momentanea e conduce sempre a forme di sintesi superiori.
Tanè è il marrone, per i francesi.
E' il colore della brace, un rosso-nero che è mescolanza di fuoco cenere e fuliggine.
Negli esperimenti di associazione verbale il marrone viene associato alla terra.
Per Lücher il marrone è un rosso-giallo reso più scuro, dove la forza vitale del rosso, però, viene offuscata.
Assume, tuttavia, un aspetto di ricettività, di accoglienza nella misura di una dimensione materna.
Esprime,soprattutto aspetti legati alla corporeità e alla fisicità.
Il grigio, da parte sue, si rifugia nell'argento, nelle perle, e nel cielo delle giornate uggiose.
Una delle due chiavi dell'angelo portinaio nel Purgatorio di Dante, era grigia.
“L'una era d'oro e l'altra d'argento....
Per Kandisky quanto più scuro diventa il grigio, tanto maggiore prevalenza acquista la disperazione, tanto più cresce il soffocamento.
Nel bianco ritroviamo l'assoluto e il divino.
Il bianco appartiene alla costellazione del Sé, alla totalità psichica; essa, infatti, contiene gli opposti.
Il bianco, colore unitario, dato dalla totalità dei colori si trova ad esprimere una coppia: quella del bianco e del nero, della fortuna sfortuna,del bene-male, quindi della totalità.
La costellazione bianco-luce si intreccia con la coscienza- pensiero.
Nella cultura alchemica il passaggio dall'opera al nero all'opera al bianco assume aspetti affascinanti, caratterizzati da uno sbiancamento della materia, descritti con figure simboliche : le cerve e gli unicorni, la neve e il bucato, la rosa bianca e il giglio, le colombe e i cigni.
Il passaggio liberatorio, attraverso immagini di purezza, sta a simboleggiare la verginità e l'innoccenza, ma anche la trasparenza e la chiarezza del bianco del diamante, e soprattutto della conoscenza e della sapienza. (Claudio Widmann)

 

Sullo stesso argomento consiglio anche il suo libro

"La psicologia del colore", scritto a due mani con Magda Di Renzo, edito nel 2005 sempre da Magi.

psicologiacoloreNegli ultimi anni gli autori che si sono occupati di psicologia del colore hanno focalizzato la propria attenzione soprattutto sul suo aspetto simbolico. In questo libro troviamo una serie di saggi nei quali il colore viene colto non solo come elemento significativo dell’esperienza psichica, non solo come indicatore dei tratti della personalità, ma anche e soprattutto come elemento dinamico che varia al variare della psiche umana, sia essa soggettiva che collettiva.
Il colore emerge come un complesso elemento che nella vita quotidiana lega incessantemente la realtà materiale alla dimensione psichica di ogni individuo.
Gli autori affrontano ogni sua possibile dimensione intrinseca, da quella emotiva infantile a quella psicodinamica junghiana, dal valore attribuitogli nelle antiche pratiche alchemiche al valore simbolico del colore nel sogno, in modo da restituirgli uno spazio e un luogo che lo pongano in rilievo nell’ambito antropologico e psicoterapeutico.
Scorrendo le pagine di questo libro infatti, risulta interessante come il colore divenga uno dei parametri di lettura della relazione terapeutica, e uno strumento interpretabile all’interno della terapia.
Gli autori partono dall’ipotesi che la scelta cromatica, come la particolare simpatia o antipatia per un determinato colore non sia casuale ma avvenga in maniera inconsapevole per un qualche motivo. Molteplici sono, in tutto il libro, i riferimenti al test dei colori di M. Lüscher, il test che dal 1947 è stato più usato fra quelli che utilizzavano il colore come item.
Per Lüscher, il test dei colori offre uno strumento di valutazione dell’individuo per quello che realmente è, poiché questo tipo di test non risente di quegli ostacoli che normalmente possono invalidare un questionario o un’inchiesta, come, ad esempio, le false risposte dovute all’alta desiderabilità sociale, ecc.
Nella prima parte del libro viene affrontato il concetto di “Doppio di Sé” nel bambino. Per studiare tale concetto gli autori utilizzano un esperimento che consiste nel chiedere ad alcuni bambini, di età compresa fra i 2 e i 7 anni, di disegnare se stessi e la propria ombra, e di spiegare che cos’è secondo loro l’ombra. Quello che maggiormente interessa gli autori è il fatto che i bambini, nella maggior parte dei casi, percepiscono l’ombra come una compagna di giochi. E cosa accade di strano dunque nei disegni di alcuni bambini? Accade che l’ombra, che nella realtà è scura e monocromatica, acquista dei colori nelle loro rappresentazioni, ed insieme al colore, acquista anche emozioni, atteggiamenti e a volte comportamenti, in maniera tale che diventa spesso difficile distinguere nei disegni qual è l’ombra e qual è il bambino che la proietta. Questo non sembra accadere invece nei bambini che disegnano la propria ombra più fedelmente alla realtà, ovvero scura e monocromatica. In questo caso l’ombra rispecchia totalmente le movenze e le espressioni facciali del bambino che la proietta, il quale, ovviamente, è invece dotato di colori! Ciò dimostra come sia importante per il bambino la percezione del colore e come rappresenti, già dai primi anni, un simbolo di vita e di dinamismo.
Dopo questo primo approccio in cui si evidenzia la fondamentale importanza del colore anche nelle fasi evolutive della psiche umana, vengono trattate in maniera più ampia le relazioni che intercorrono tra luce, colori e personalità. Scrive Lia Luttazzo:
“Ciascun colore riflette come in uno specchio l’individuo e la società, aderisce a temi inconsci, esprime atteggiamenti psichici e affettivi, agisce sull’emotività con attrazioni e repulsioni, diventa luogo della realtà e dell'irrealtà.”
Quindi il colore viene interpretato come chiave di lettura di contenuti spirituali, altrimenti difficilmente esprimibili. I colori creano dunque un sistema di rappresentazione comunicazione e interpretazione. Il colore è inteso però, anche come metafora di conoscenza del mondo e in questo caso quindi occupa tre luoghi: lo spazio di Dio, lo spazio dell’uomo e lo spazio della scienza.
“Nello spazio divino il colore rivela la presenza di Dio, i colori sono il frutto dell’interazione fra luce e oscurità. Nel Medioevo si riteneva che la luce che filtrava attraverso le vetrate colorate delle chiese avesse addirittura proprietà curative.
Nello spazio dell’uomo il colore acquista una proprietà razionale ed empirica e la luce diventa un mezzo di esplorazione della natura, che permette la visione chiara delle cose e determina le caratteristiche fisiche degli elementi. In questo spazio il colore diventa anche simbolo sociale, dove il blu rappresenta nei diversi momenti storici il “barbarico”, l’“imperiale”, il“borghese”, il“proletario”, il“libertario” e il “conservatore”, il rosso invece simboleggia il “sacrificale”, il “regale”, la “corruzione”, il “popolare/socialista”, il“consumistico”, mentre al viola vengono associati solitamente la“trasgressione”, le“alte gerarchie di potere”, lo “spiritualismo magico”, la “passione”, ecc.
Nello spazio della scienza il colore invece si associa alle proprietà chimico-fisiche e percettive, e con i progressi scientifici e tecnologici il colore diventa sintetico e indistruttibile acquistando nuovi significati anche nell’immaginario collettivo. Per fare un esempio, il verde, dopo aver simboleggiato per anni la speranza e il trionfo della natura, ha acquistato solo al giorno d’oggi, dopo le riprese dei bombardamenti notturni che illuminano i cieli di bagliori verde acido, il simbolo dell’asettica guerra tecnologica; il blu che nel Medioevo era simbolo di spiritualità e trascendenza è oggi immagine dello spazio cibernetico e dei suoi abitanti. ”
Ma, secondo gli autori, il colore è soprattutto ricco di valenze e significati affettivi ed emotivi. E’ infatti rivelatore degli strati più profondi degli affetti. La mancanza di colore nel mondo affettivo di una persona è un indizio di distanziamento dall’oggetto e di una difesa dal coinvolgimento emotivo.
Anche i test proiettivi rivelano le valenze affettive del colore e la sua funzione di rivelazione della situazione emozionale dell’individuo, in cui la presenza o assenza del colore o la preferenza per uno rispetto ad un altro, sono indicazioni del differimento e del controllo degli impulsi. Ad esempio, secondo Schafer, nel test di Rorschach, dove le risposte-colore rivestono un’importanza diagnostica tutta particolare, ad una scarsa insistenza sul colore corrisponderebbe un soffocamento dell’affettività e dell’impulso.
Nel rapporto colore-affetto, l’esperienza sembra dimostrare che le risposte colore indichino il modo dell’individuo di vivere e trattare affetti, impulsi, azioni e il suo modo di affrontare gli impulsi emozionali:
“Le risposte-colore sarebbero indicative anche della riuscita o meno del differimento della soddisfazione istintuale o della estensione della rimozione necessaria a un controllo degli impulsi ed eventualmente al loro fallimento. L’accentuazione delle risposte colore può indicare una costellazione psichica ricca di affettività, ma un eccesso di tali risposte rappresenta una perdita di controllo e l’emergere di un’affettività impulsiva e selvaggia.”
Queste considerazioni rimandano ancora una volta al test di Lüscher che individua la struttura psicologica dell’individuo basandosi sull’attrazione e la repulsione per ciascun colore. Secondo l’autore infatti il colore non è soltanto esperienza percettiva e affettiva, ma le combinazioni cromatiche sono in grado di generare risposte comportamentali, emotive e fisiche particolari, e quindi il rifiuto e la predilezione per un colore rivelano precisi aspetti caratteriali e tendenze emotive nei confronti della vita affettiva e di relazione.
In breve, i colori parlano di noi, dando informazioni sui nostri desideri, bisogni, paure, rifiuti, basta saper decifrare il messaggio.
Anche neurofisiologi ed etologi sono dell’opinione che esista una relazione tra visione dei colori ed emozioni, poiché è dimostrata l’importanza fondamentale della visione di colori particolari per mettere in moto delle sequenze istintuali specifiche. Così si spiega come la funzione della distinzione dei colori sia svolta dall’emisfero cerebrale non dominante (il destro) deputato alla creatività e alle emozioni.
Nella dimensione psicoterapeutica il colore rappresenta invece una risorsa per le tematiche di compimento dell’analisi. Nel libro si fa riferimento al metodo dell’immaginazione attiva che esprime uno dei nuclei centrali nel progetto junghiano e che vincola l’attendibilità dell’individuo allo sviluppo creativo dei propri simboli. L’immaginazione attiva costituisce un piano di realtà psichica nel quale gli opposti di cui siamo fatti se la vedono tra di loro, si confrontano i punti di vista egoici e quelli dell’inconscio.
Inoltre per quanto riguarda il simbolismo del colore, Jung ipotizza una tipologia che stabilisce delle simmetrie tra colori e funzioni di coscienza: i colori e le funzioni psichiche ad essi correlate si rivelano come porte d’entrata nell’esplorazione della psiche dell’individuo.
“Nell’immaginazione attiva ogni colore porta con sé qualcosa di ciò che fu, contrassegni di storia personale, ma ora riluce come indice di trascendenza.”
Nel percorso analitico, attraverso l’uso del colore l’individuo può approdare a quei luoghi arcaici dell’anima che fino a quel momento non hanno trovato alcun altro modo di espressione. Dando la possibilità di colorare e macchiare viene concessa l’occasione di lasciare una indelebile traccia di sé, e i dipinti possono arrivare a costituire la massima espressione delle necessità del soggetto.
In passato la scienza ha mantenuto un atteggiamento distaccato e un po’ disinteressato nei confronti di questo argomento, lasciando piuttosto che si occupassero di tali argomenti filosofi, antropologi o studiosi che si occupavano di culture orientali. A causa di ciò, purtroppo, oggi mancano esperimenti e prove di laboratorio che contribuiscano a dare validità alle teorie di psicologia del colore.
Tuttavia questo campo sembra comunque essere in ascesa, poiché anche la semplice esperienza di vita insegna come la luce e il colore contribuiscano ad attenuare sofferenze e disagi nelle persone, e nel libro vengono riportati diversi esempi.
Questo testo in effetti riporta una seri di storie raccolte appositamente per fornire una visione completa, che va dalla nascita del simbolismo del colore, studiato attraverso i trattati di alchimia, che per secoli ha fatto parte dei miti, delle leggende e delle tradizioni religiose, fino agli ultimi studi sulle relazioni tra colori e aggressività o depressione, passando per la simbologia psicoanalitica junghiana e per i colori visti attraverso la lente del test di Lüscher, offrendo un percorso ricco di spunti di riflessione e approfondimenti.

Claudio Widmann, analista junghiano, vive e lavora a Ravenna. È Direttore dell’icsat (Italian Committee for the Study of Autogenic Therapy) e docente di «teoria del simbolismo» presso Scuole di Specializzazione in Psicoterapia. È autore e curatore di saggi che trattano temi inerenti la teoria e la prassi junghiane tra cui, per i tipi delle Edizioni Magi, sono stati pubblicati: ll viaggio come metafora dell’esistenza (1999), Il simbolismo dei colori (2000), Le terapie immaginative (2004), La simbologia del presepe (2004), La psicologia del colore, (2005), Sul destino (2006).

Magda Di Renzo, laureata in Filosofia e in Psicologia, analista junghiana, membro del cipa (Centro Italiano di Psicologia Analitica) e dell’iaap (International Association for Analytical Psychology). Responsabile del Servizio di Psicoterapia dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Istituto di Ortofonologia di Roma, dirige il Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’Età Evolutiva a indirizzo psicodinamico. Autrice e coautrice di numerose pubblicazioni, tra cui Il movimento disegna (1996), Un approccio terapeutico al balbuziente (1996), Il colore vissuto (1998), Sante de Sanctis (1998), Vivere bene la scuola (2000), Fiaba, disegno, gesto, racconto (2005).

 

"Disturbi dell'attaccamento. Dalla teoria alla terapia", Brisch Karl H., Editore Fioriti, 2007.
disturbi_dell_attaccamento13Karl Heinz Brisch dimostra chiaramente come la teoria dell'attaccamento di Bowlby possa essere impiegata nella prassi clinica. Dopo uno sguardo di insieme agli aspetti principali della teoria dell'attaccamento, Brisch sviluppa un modello e una classificazione delle diverse forme dei disturbi dell'attaccamento, prendendo in considerazione fasce di età differenti, dai neonati ai bambini in età infantile e fino agli adulti. Basandosi su numerosi casi tratti dalla pratica reale, egli dimostra come si possa applicare un approccio orientato all'attaccamento in diverse situazioni - ambulatoriali, ospedaliere o in collaborazione con pediatri e ginecologi - e dà vita a un modello prezioso per diagnosticare e trattare i disturbi psichici da una nuova prospettiva. Inoltre, quest'approccio si rivela utile in campo pedagogico, dove
può aprire più ampie prospettive di assistenza.

 

"Menti Morali Le origini naturali del bene e del male", Hauser Marc D., Saggiatore, 2007. 

menti_moraliCome attestano universalmente il mito e le religioni, l'interrogazione sulla natura del bene e del male rappresenta da millenni una questione cruciale del pensiero umano. In Occidente la ricerca filosofica, in particolare l'etica, ha fornito le risposte più diverse: sono state chiamate in causa la volontà divina, l'ordine del cosmo, la libertà soggettiva, i principi utilitaristici, la riflessione razionale, i sentimenti morali, l'identità culturale.
Marc D. Hauser riconsidera il problema alla luce di una differente impostazione, incentrata su un'ipotesi evoluzionista secondo la quale esiste una facoltà morale che si è evoluta come le altre facoltà degli essseri umani. Muovendo dalle analisi linguistiche di Chomsky, che postulano una grammatica generale costituitasi attraverso l'evoluzione, Menti morali individua le linee di una grammatica morale universale sottostante ai sistemi culturali che in tempi e luoghi diversi si sono proposti di stabilire che cosa è bene e che cosa è male. Alla base delle norme sociali, dei criteri di giudizio e dei precetti religiosi si colloca un fondo antropologico comune che porta a formulare un codice morale specifico. I nostri istinti morali risultano pertanto immuni dalle norme sociali, culturali, religiose (pur concordando a volte con esse), poiché formulati al di qua di ogni ragionamento consapevole. In tale schema l'essere umano non si presenta come una creatura "humeana" o "kantiana", guidata dalla ragione o dai sentimenti, ma come una sorta di creatura "rawlsiana", i cui giudizi morali derivano da meccanismi inconsci e inaccessibili. L'influenza dell'ambiente, della cultura e della società perde quindi la sua centralità, ma non scompare: diventa un metro per la regolazione e l'affinamento dei parametri associati a qualsiasi istinto e azione morale. Da un confronto ampio con neuroscienze, psicologia cognitiva, linguistica, etologia e diritto, l'autore ricava solidi argomenti a favore della propria ipotesi pervenendo a riflessioni originali e convincenti su essenziali questioni filosofiche, bioetiche e politiche del presente e del futuro. Menti morali rappresente una conquista del pensiero moderno conseguita attraverso un viaggio affascinante fra neonati umani e scimmie selvagge, test di laboratorio e casi di cronaca.

"A partire dal paradigma biologico, Marc D. Hauser costruisce una teoria empiricamente fondata sulla natura dell'organo morale umano, sulla sua unità e sulle sue variazioni, sul suo sviluppo e sulle sue implicaizoni giuridiche e pratiche. Un'introduzione lucida, approfondita, provocatoria a un campo che progredisce rapidamente, ricco di promesse e con effetti di grande portata." Noam Chomsky
"Il contributo più importante al dibattito in corso sulla natura dell'etica." Peter Singer
Il libro di Hauser è un tentativo perfetto di mettere insieme filosofia, antropologia, scienze cognitive e neuroscienze. Il risultato è audace e sapiente."  Antonio Damasio.

 

"La teoria della complessità", Benkirane Reda, Bollati Boringhieri, 2007.

teoria_della_complessitChe cos'hanno in comune la complessità di una rete informatica e quella degli insetti sociali? Quali sono le possibilità e i limiti dell'intelligenza artificiale? Che cos'è il caso? Dio è un orologiaio, o piuttosto un computer cosmico? L'Universo è finito o infinito? E possibile una teoria del tutto? Ecco alcune delle affascinanti questioni poste da Réda Benkirane ai più grandi esperti di teoria della complessità, tra cui Edgar Morin, Ilya Prigogine e Francisco Varela. Le conversazioni, riportate nel libro, formano la trama di un viaggio attraverso diversi campi e livelli della realtà: particelle elementari, atomi, molecole, geni, neuroni, formiche, pulci elettroniche, automi cellulari, robot, cyberspazio, individui e società contemporanee, entità matematiche, corpi celesti saranno osservati e descritti attraverso il prisma della complessità.

 

"Adulteri", Naouri Aldo, Codice edizioni, 2007.

adulteriL'argomento dell'adulterio è stato trattato in questo libro di Naouri, l'ideale prosecuzione di "Padri e madri" (Einaudi 1999) e "Le figlie e le loro madri" (Einaudi 2005). Con Adulteri, il pediatra prosegue e completa un'accurata analisi della famiglia moderna, anche dal privilegiato lettino dello psicanalista.
Da questo libro scopriamo che gli adulteri, in fondo, sono tali perché obbediscono a norme, a regole, a istruzioni che gli sono state impartite da bambini, con metodi si potrebbe affermare scientifici.
«Già il titolo non era gradito agli editori - esordisce Aldo Naouri - era ritenuto non di buon gusto, con quel riferimento al 7° comandamento... era meglio parlare di infedeltà, cosa ormai consueta tra le coppie, ma come non ci si vergogna di avere Delitto e Castigo sul comodino, così non deve spaventare ciò che è nell'animo umano. La pulsione adulterina è in tutti. Le donne sono oggetto del desiderio e gli uomini non si preoccupano di seguirle. La parola adulterare per me significa ad-verso ulter-altro errare- sbagliare: fare un errore andando verso l'altro».
Quello che esiste è il fantasma legato al soddisfacimento sessuale che è il desiderio. Un fantasma che descrive bene Woody Allen: «abbiamo passato una notte eccezionale, eravamo diventati una sola persona: io». Invece di comportarci come sarebbe logico si cerca invece di formare una coppia eterna. Quello che è in gioco è il sentimento, l'amore. Quello che si prefigge nel fare la coppia è di trovare l'amore. Ma perché l'amore dopo un po' nella coppia scompare? Qui Aldo Naouri interviene con un suo aforisma: «È più facile fare l'amore con cento donne diverse che farlo cento volte con la stessa».
Ancora una volta l'autore parte da lontano, dal neonato, dal potere della madre sull'infante: l'onnipotenza, fonte di vita e di morte. Così ogni uomo cercherà sempre la propria madre da sposare. Per le figlie, le donne, invece si tratterà di cercare un padre che piace alla madre, un padre che è della madre; il senso di colpa le colpirà e le accompagnerà sempre. Nascono allora le differenze dell'eterosessualità maschile e delle fobie e reticenze femminili.
In conclusione la monogamia non è naturale. Il legame della coppia per la società è importante e se tornassimo alla natura torneremmo alla barbaria. Non ci rimane che imparare a stare insieme, in coppia, e senz'altro con l'aiuto di genitori diversi.
È lo stesso autore a spiegarci l’approccio e i motivi che lo hanno spinto a scrivere questo libro: «Non smetterò d’essere il pediatra e l’analista che sono sempre stato. In effetti, ho dedicato parecchio tempo a interrogarmi sul divenire delle giovani coppie di cui ho curato i figli, tentando di individuare le ragioni che talvolta spingono l’uno o l’altro dei partner a rompere il patto implicito di fedeltà in cui si era impegnato all’inizio dell’avventura».
Ben lontano dal presentare una carrellata di pruriginose strategie di seduzione extraconiugale, o dall’impartire lezioni di fedeltà o di gestione matrimoniale, Naouri avvicina il proprio sguardo ai delicati rapporti di coppia senza alcun criterio moralizzatore, restituendoci l’immagine di uno spaccato sociale che all’alba del XXI secolo stenta a ritrovare la propria identità.
Aldo Naouri, pediatra e analista, vive e lavora a Parigi. Ha scritto numerosi libri, da testi più specialistici a saggi di grande successo sulle relazioni familiari della famiglia moderna. In Italia Einaudi ha pubblicato Le figlie e le loro madri (1999) e Padri e madri. L’ordine dei ruoli in famiglia (2005).

 

"Relazioni Ferite Prendersi cura delle sofferenze nel rapporto Io-Tu”, Maria Luisa Verlato, Maura Anfossi, La Meridiana, 2006.

relazioni_feriteIncrociando la psicoterapia umanistica rogersiana con una lettura fenomenologica della teoria dell’attaccamento, questo volume delinea un inedito approccio integrato per la cura dei disturbi della personalità. Secondo questa visione, per affrontare le crisi della vita è necessario che qualcuno (e non qualcosa) ci “riconosca”, ci “accolga”, ci “alleni”, ci permetta di apprendere, di costruire in noi la capacità di dare un senso alle nostre ferite e diventare “resilienti”. Ne deriva una psicoterapia basata non tanto sull’analisi dei sintomi, ma sulla creazione di uno spazio di accoglienza e confronto dialogico, volto al comune obiettivo della crescita interiore del cliente; una psicoterapia dove si cercano insieme le parole per decodificare e simbolizzare quanto avviene dentro e fuori di sé, favorendo la riflessività. Solo in un sicuro ed empatico incontro Io-Tu si possono lentamente trasformare le cicatrici in ricami, ricucendo gli strappi proprio nella dimensione in cui più intensa è stata la disfunzionalità. Questo permette di trovare il proprio unico e personalissimo cammino di vita e portarlo a compimento, con quell’equilibrio e integrità di fondo che Buber definirebbe l’opera fatta di getto: “Come realizzare un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima unificata”.

 

"Due partite", Comencini Cristina, Feltrinelli, 2006.

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La storia racconta di quattro donne che si ritrovano ogni giovedì per giocare a carte in un elegante appartamento borghese durante gli anni Sessanta. Si riuniscono per fare una partita, chiacchierare, passare il pomeriggio. Portano con sé le loro bambine che giocano nella stanza accanto. Nessuna di loro lavora, fanno le madri, le mogli, si conoscono da molto tempo. Una di loro è incinta del primo bambino.  Quattro persone simili eppure diverse, quattro madri che non lavorano, casalinghe per scelta o per caso. Il loro mondo è la casa, la famiglia, le piccole occupazioni domestiche, il gioco. Giocano ad essere donne, madri, figlie, mogli, amanti; giocano come le loro figlie che si fingono già adulte. Ognuna guarda la sua vita, si rispecchia in quella delle altre: ognuna è meglio, o peggio, ognuna apparentemente più felice e profondamente più sofferente. Sono tutte essenzialmente madri, madri che ritrovano nella maternità il senso talvolta negato della loro femminilità. Si guardano indietro, rimpiangono il passato, vivono il presente, sperano nel futuro. Si guardano in faccia cercando l’una nelle altre una certezza, una sicurezza, una rassicurazione, le risposte a domande millenarie sul senso della vita. Intorno al tavolo da gioco si ritrovano in quanto amiche, ritrovano una identità talvolta dimenticata, e sperano in un destino diverso per le loro figlie.due_partite_comencini
Il primo atto si conclude con una nascita. Il secondo inizia con una morte. È un percorso circolare, chiuso, che si ripete. Quelle che erano madri sono adesso figlie che si ritrovano a giocare la partita della vita. Sono passati quarant’anni, le bambine che giocavano sono adesso delle donne in carriera, ognuna impegnata col suo lavoro, ognuna alla continua ricerca di nuove risposte. Ma i tempi sono cambiati. Chi può dire se in meglio o in peggio? Le donne di oggi sono indipendenti, lavorano, sono apparentemente felici. Non si fanno più mettere i piedi in testa dagli uomini, sono loro a portare i pantaloni. Passati quarant’anni, le bambine che giocavano sono adesso delle donne in carriera. I ruoli sembra si siano invertiti: le figlie fanno ora ciò che le madri non potevano fare, ciò che le madri sognavano di fare. Ma loro sono solo figlie. Non sono madri, hanno perso il senso dela maternità, forse il senso stesso della loro femminilità. Solo una di loro tenta disperatamente di avere un bambino. Invano. Nonostante il lavoro le abbia rese indipendenti sul fronte economico ed emotivo, ognuna è alla continua ricerca di nuove risposte. Certo. Non si fanno più mettere i piedi in testa dagli uomini ma si ha come l’impressione che vogliano sostituirsi alle figure maschili. Le loro estetiche androgine e l’uso di abiti decisamente severi preoccupano più che rappresentare un passo in avanti. Se le loro madri ridevano in modo più spontaneo, ora le figlie lo fanno con un tocco più amaro e leggermente nostalgico. Per ritrovare il senso della parola donna bisogna oggi andare a leggere una poesia. La poesia di un uomo.
Due partite, uno spettacolo corale sul mondo femminile, una commedia divertente sulla forza e sulla debolezza delle donne, una riflessione toccante sull’identità.
L’universo femminile viene indagato a teatro dalla nota regista romana, Cristina Comencini.comenxini In particolare, i rapporti delle protagoniste con la famiglia, il lavoro, gli uomini e la maternità. Con toni sentimentali e comici, ripercorriamo o viviamo per la prima volta tematiche esistenziali e sociali tipiche degli anni ’60. Tutte e quattro sono donne colte prima della rottura della condizione femminile in un universo un po’ chiuso e repressivo. Nessuna di loro lavora ma ciascuna nasconde un sottile disagio nel non essere ciò che la propria indole suggeriva. Il filo rosso che attraversa le loro vite è la predominanza assoluta del ruolo di moglie e madre su tutti gli altri. Il secondo atto, è ambientato ai giorni nostri. Sono passati 45 anni, quattro donne s'incontrano in un'altra casa, è la seconda partita, sono vestite di scuro. Si sono riunite dopo il funerale di una delle loro madri che si è suicidata. Capiamo che sono quelle bambine che nel primo atto giocavano nella stanza accanto. A poco a poco, per rassomiglianza o per contrasto, le colleghiamo una dopo l'altra alle madri. A differenza di loro tutte lavorano e sono più consapevoli. Due epoche, due modi di essere donne. Sono più felici queste donne, più realizzate? La solitudine interiore e le frustrazioni delle madri si contrappongono alle loro inquietudini di donne moderne, alla confusione dei ruoli, agli interrogativi irrisolti nei confronti dell’universo maschile. Il primo atto della commedia racconta le loro storie tra comicità ed emozioni, scandito dalle doglie della partoriente e dal tema più forte, quello della maternità, dei vari modi d'intenderla. In teatro alle amiche prestano il volto quattro attrici italiane per delineare altrettanti diversi caratteri di donne: Margherita Buy disegna il personaggio di una donna impulsiva che ama troppo, Isabella Ferrari un’idealista che vuol credere assolutamente nel matrimonio, Marina Massironi è una perenne ottimista, mamma felice, inconsapevole dei tradimenti del coniuge, e Valeria Milillo, la più moderna e sensuale del gruppo, l’amante per antonomasia. Durante il primo atto della commedia vediamo intrecciarsi le loro storie tra comicità ed emozioni, il tutto scandito dai primi dolori della partoriente: il tema più forte è proprio quello della maternità, dei vari modi d'intenderla. E la fine del primo si chiude con una nascita: il palcoscenico deserto, le carte abbandonate sul tavolo verde, le voci trafelate delle donne fuoriscena. Nel secondo atto oggi, sempre quattro donne che s'incontrano ma in un'altra casa, sono vestite di scuro. Si sono riunite dopo il funerale di una delle loro madri che si è suicidata. Capiamo che sono quelle bambine che nel primo atto giocavano nella stanza accanto. A poco a poco le colleghiamo una dopo l'altra alle madri. Qualche volta per rassomiglianza, qualche volta per assoluto contrasto. Due epoche, due modi di essere donne. Sono più felici queste donne, più realizzate? A tratti pare essersi spezzata una catena, meglio o peggio, chi lo sa? Inevitabile. Ma l'identità stessa femminile sembra a tutte loro qualcosa di indefinibile e perciò perennemente a rischio, oggi come ieri. Una specie di energia, di follia che non vuole farsi disarmare, che risorge sempre dalla morte per dare la vita. La Comencini, autrice e regista di “Due partite”, non a caso ha inserito nello spettacolo i due eventi della nascita e della morte, perché nello svolgimento di questo ciclo vitale si sviluppano tutte le problematiche femminili, dalla sessualità alla maternità.
“Ho sempre pensato di scrivere per il teatro. La mia esperienza di regista-scrittrice mi ha fatto riflettere sulle distanze e le vicinanze tra le parole del cinema, della letteratura, del teatro, sulla possibile contaminazione tra queste diverse forme di drammaturgia. I registi di cinema, gli scrittori italiani si incontrano sempre più spesso, usano i loro diversi strumenti per arricchire le forme e i contenuti del racconto. Penso che questo sia possibile anche per il teatro. Non ho mai creduto che la collaborazione tra le diverse drammaturgie potesse ridurle o omologarle. In tutti paesi in cui il cinema è vivo, si hanno anche un teatro e una letteratura vitali, testi nuovi, attori di cinema e di teatro che frequentano alternativamente il palcoscenico e il set. Iniziando a scrivere la commedia, ho chiesto aiuto a un mio nume tutelare, Natalia Ginzburg, che mi aiutò molti anni fa a pubblicare il mio primo romanzo. Ho preso la sua prima perfetta commedia Ti ho sposato per allegria, l’ho messa accanto ai fogli bianchi, sperando che lo spirito anticonformista e ribelle che la animava possa abitare anche la mia.” Cristina Comencini
Nata a Roma nel 1956, figlia del grande cineasta Luigi, collabora a lungo col padre in veste di sceneggiatrice. Nel 1988 fa il suo esordio nella regia con Zoo. Tra gli altri suoi film: I divertimenti della vita privata, La fine è nota (dal romanzo di Geoffrey Holliday Hall), Matrimoni, Va’ dove ti porta il cuore (dal romanzo di Susanna Tamaro), Liberate i pesci, Il più bel giorno della mia vita.

 

"Il secolo invisibile", Panek Richard, Ponte alle Grazie, 2005.

freud_e_einsteinCosa accomuna Einstein e Freud? Le loro ricerche si svolsero in parallelo, in un momento storico in cui l'uomo sembrava poter guardare all'infinitamente grande e all'infinitamente piccolo grazie ai telescopi e ai microscopi, gli uni puntati sull'Universo, gli altri sulle cellule cerebrali. Mentre Einstein formulava la teoria della relatività, Freud introduceva la nozione di inconscio. Nelle loro scoperte vive l'idea centrale del Novecento: la realtà non può essere spiegata se non indagando nell'invisibile. Richard Panek, giornalista scientifico di fama, racconta con abilità e competenza una storia che affonda le sue radici nel cammino della conoscenza, e nella vita stessa di Einstein e Freud. S'incontrarono una volta soltanto, e le loro ricerche si svolsero in ambiti assai lontani; ma Freud e Einstein avevano più cose in comune di quante loro stessi non immaginassero. Entrambi avevano raggiunto quello che si sarebbe rivelato lo stesso bivio cruciale, entrambi si erano trovati di fronte allo stesso ostacolo: la mancanza di prove - o quantomeno, di ciò che allora la scienza considerava come prove. Dall'alba della grande Rivoluzione scientifica, per trecento anni gli scienziati avevano esplorato il mondo basandosi sull'osservazione e la sperimentazione; ma ora, a cavallo tra Ottocento e Novecento, si affacciavano scoperte di un tipo totalmente nuovo, perché non si fondavano su prove visibili. La scienza penetrava in un dominio, quello dell'invisibile, che sino ad allora era stato appannaggio della religione e della metafisica. Furono proprio Einstein e Freud a diventare i rappresentanti più noti e popolari di quella nuova frontiera. Le loro ricerche raggiunsero universi sino ad allora inimmaginabili - la relatività e l'inconscio - e dettero il via a due nuove scienze: la cosmologia e la psicoanalisi. Partendo dalle 'vite parallele' di Einstein e Freud, dall'intreccio delle loro vicende personali e professionali costellate tanto di intuizioni geniali quanto di dubbi e ripensamenti, Richard Panek ricostruisce la storia avvincente di un secolo di scoperte che hanno sfidato, e poi radicalmente ridefinito il nostro modo di pensare a noi stessi e al mondo che ci circonda.

 

"La fine della competizione", Kohn Alfie, Baldini Castoldi Dalai, 1999.

la-fine-della-competizione-888931Pubblicato per la prima volta nel 1986 e accolto subito da una valanga di opinioni e di critiche ora entusiaste ora fortemente avverse, questo saggio in poco più di dieci anni è diventato il punto di riferimento inevitabile per tutti coloro che, come l'autore, sono convinti dei guasti che la corsa alla competizione provoca nella società odierna. Nato da una serie di riflessioni e di riscontri sempre più approfonditi, lo studio di Kohn dimostra con rigore documentario che la lotta a sfidarsi gli uni contro gli altri, sul lavoro come a casa, a scuola come nel gioco, finisce col creare solo dei perdenti, degli inadatti. Contrariamente al mito che dalla nascita accompagna ogni uomo, Kohn asserisce che la competizione non è una dote congenita dell'umanità e, contrariamente a quello che si crede, non ci costringe a dare il meglio di noi: infatti, negli Stati Uniti come dovunque ormai il criterio competitivo sia invalso, la scuola e il lavoro sono entrati in crisi perché prevalgono valori di gara e di lotta e non gli effettivi risultati. Per lo studioso americano, invece di formare il carattere lo spirito competitivo mina la stima in noi stessi, provoca insicurezza, rovina i rapporti e avvelena ogni divertimento mutando qualsiasi campo di gioco in un terreno di battaglia. Profondamente rivista e aggiornata, questa nuova edizione del saggio ha come aggiunta un puntuale resoconto di come gli studenti possano studiare meglio collaborando in classe invece di sforzarsi a diventare i primi. Inoltre l'autore, in una postfazione documentatissima, analizza tutte le sensibili varianti sul come intendere la competizione seguite alla prima uscita del saggio, descrive le reazioni al messaggio provocatorio e conclude asserendo che per noi stessi, per i nostri figli e per la società sono necessari nuovi modelli di vita, capaci di creare uomini e cittadini più liberi e meno angosciati. Negli Stati Uniti la lotta senza esclusione di colpi per prevalere sugli altri è un mito duro a morire. Con la preparazione dello studioso e la sensibilità del pedagogo, Alfie Kohn ha scritto questo libro per smontare una per una le tesi su cui questo mito antico si regge e cammina, mostrando come la continua contrapposizione con gli altri non faccia altro che aumentare la solitudine e l'infelicità dell'uomo moderno. L'autore dimostra anche come il successo di una persona e il suo livello di competitività siano due variabili indipendenti l'una dall'altra. Kohn avvalora la propria tesi con una serie di argomenti che spaziano dall'antropologia alla sociologia. 

 

 

"Amore liquido Sulla fragilità dei legami affettivi", Bauman Zygmunt, Laterza, 2006.

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Questo saggio affronta il tema della precarietà dell’esistenza e del disfacimento dei legami tra gli individui ma anche tante altre questioni. Bauman ci avverte che stiamo vivendo una nuova fase della modernità all’insegna del principio della sopravvivenza, che spazza via la fiducia, la compassione, la pietà e prelude ad un gorgo di smarrimenti e stordimenti dove uomini e donne si scoprono dilaniati tra il vuoto esterno e lo svuotamento interiore. La solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. In una relazione, puoi sentirti insicuro quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia". I protagonisti di questo libro sono gli uomini e le donne nostri contemporanei, che anelano la sicurezza dell'aggregazione e una mano su cui poter contare nel momento del bisogno. Eppure sono gli stessi che hanno paura di restare impigliati in relazioni stabili e temono che un legame stretto comporti oneri che non vogliono né pensano di poter sopportare. Il sociologo Bauman ci descrive la sua teoria di amore liquido, nel quale anche il sentimento diventa un fatto commerciale: il partner diviene un "usa e getta", e i legami affettivi tra le persone sono fragili, anzi “liquidi”. Inoltre egli focalizza l'attenzione sul rapporto tra causa ed effetto tra i ritmi della nostra vita, discontinua in ogni suo aspetto e la discontinuità nei sentimenti. Bauman ha il pregio di registrare una realtà odierna, il precariato affettivo, l'amore a termine, che sembra modellato, nelle attuali società globalizzate, sul precariato lavorativo ed economico e ad esso molto necessario: l'analisi è brillante e accattivante, ma Bauman non dà al lettore tracce di terapia o di cura del diffuso malessere affettivo. Consiglio da questo punto di vista i libri dello psicanalista Aldo Naouri, in particolare " Adulteri" ove, al di fuori di facili moralismi, si esamina e si cura la malattia dei legami liquidi. Anche le relazioni personali, i legami sociali tendono a dissiparsi, a disgregarsi, sempre più revocabili, sempre più effimeri. Tuttavia, per Bauman, siamo in presenza di “un’inedita fluidità, fragilità e intrinseca transitorietà che caratterizza tutti i tipi di legame sociale che solo fino a poche decine di anni fa si coagulavano in una duratura, affidabile cornice entro la quale era possibile tessere con sicurezza una rete di interazioni umane”(p.126). Lo stato magmatico dei legami personali e sociali produce un individuo afflitto dalla solitudine, egoista ed egocentrico, che vive nel tempo del non più e del non ancora, vede l’altro come un’antagonista, scava trincee, tende imboscate, perché è costretto a muoversi in un gelido mondo neo-darwiniano.

Stiamo vivendo - avverte Bauman - una nuova fase della modernità all’insegna del principio della sopravvivenza che spazza via la fiducia, la compassione, la pietà e prelude ad un gorgo di smarrimenti e stordimenti dove uomini e donne si scoprono dilaniati tra il vuoto esterno e lo svuotamento interiore.

Stiamo vivendo - avverte Bauman - una nuova fase della modernità all’insegna del principio della sopravvivenza che spazza via la fiducia, la compassione, la pietà e prelude ad un gorgo di smarrimenti e stordimenti dove uomini e donne si scoprono dilaniati tra il vuoto esterno e lo svuotamento interiore.

Stiamo vivendo - avverte Bauman - una nuova fase della modernità all’insegna del principio della sopravvivenza che spazza via la fiducia, la compassione, la pietà e prelude ad un gorgo di smarrimenti e stordimenti dove uomini e donne si scoprono dilaniati tra il vuoto esterno e lo svuotamento interiore.

Non c’è “gabbia d’acciaio” che regga; la modernità liquida è pervasiva, vischiosa, penetrante e disintegra tutto ciò che tocca, raccomanda “mantelline leggere e aborre le gabbie di ferro”, intacca la solidarietà umana, “la prima vittima dei trionfi del mercato dei consumi”. Ed è il consumismo, cioè il ritmo del susseguirsi di acquisti, che trasforma geneticamente l’homo faber della fase solida della modernità nell’homo consumans della fase liquida; quest’ultimo, disorientato da mille cartelli stradali e cooptato dai messaggi che si rincorrono freneticamente sul display del telefono cellulare è “l’unico punto stabile nell’universo degli oggetti in movimento” (p.83).

L’esito di questo processo è preoccupante perché radicalizza l’atomizzazione sociale e genera forme inedite di individualismo e di xenofobia, ma il fenomeno più grave è l’espropriazione dell’agire in comune ripiegato sempre più “sugli affari che sono a portata di mano, su questioni locali e su rapporti circoscritti” (p.139).

In altri termini, le città globali si stanno trasformando in veri campi di battaglia su cui poteri globali, identità locali, mixofobia e xenofobia si incontrano e si scontrano al fine di rabberciare soluzioni locali a contraddizioni globali.

Bauman, anche in questo saggio, che si snoda intorno a quattro capitoli (Innamorarsi e disamorarsi, Dentro e fuori la cassetta degli attrezzi della socialità, sulla difficoltà ad amare il prossimo, Aggregazione smantellata ) segnala i pericoli crescenti della società liquido-moderna che si riassetta come un’enorme discarica di rifiuti che invadono il nostro mondo.

Ma quello che inquieta è che si tratta soprattutto di rifiuti umani (i non luoghi dei campi profughi recintati nel ricco Occidente o il surplus di umanità che sopravvive in ampie parti del globo) che la globalizzazione capitalistica attrae ed espelle.

Chissà che non valga la pena – è l’invito dell’autore ai suoi lettori in alcune belle pagine del libro – riprendere in mano il vecchio Kant, quello della Pace Perpetua, che meditò sul fatto che tutti noi abitiamo e ci muoviamo sulla superficie della terra e non abbiamo altro luogo in cui andare, destinati come siamo a restare per sempre in reciproca compagnia e immaginò un mondo meno liquido e più solido per un viaggio, ‘non utopico’ verso “l’unità universale del genere umano”.

Uno dei tratti più impressionanti dell’attuale fase della modernità è che non vi è più nulla di solido. La liquidità, intesa come processo continui di decomposizione, sembra essere la mobile icona del mondo globalizzato. Zygmunt Bauman ha coniato la metafora della liquidità in un celebre libro di qualche anno fa, uscito in Italia per Laterza, "Modernità liquida"; e ora "Amore liquido", è una sorta di prosecuzione e di sviluppo del discorso sulla società liquido-moderna.

Zygmunt Bauman è nato in Polonia nel 1925. Fuggito nel 1939 con la famiglia in URSS in seguito all’invasione del suo Paese per sfuggire alla persecuzione contro gli ebrei, si arruola in un corpo di volontari polacchi per combattere contro i nazisti. Finalmente rientrato a Varsavia, cerca di realizzare il suo sogno di studiare fisica. Ma davanti alla distruzione della sua terra, Bauman decide di dedicarsi ai “buchi neri” del Paese e “del big bang della sua resurrezione” e sceglie così di occuparsi di sociologia.
Oggi, Zygmunt Bauman, considerato il teorico della postmodernità, insegna Sociologia nelle Università di Leeds e di Varsavia. Nelle sue opere si occupa di una serie di temi rilevanti per la società e la cultura contemporanea: dall’analisi della modernità e postmodernità, al ruolo degli intellettuali, fino ai più recenti studi sulle trasformazioni della sfera politica e sociale indotti dalla globalizzazione.

Indice
Prefazione - 1. Innamorarsi e disamorarsi - 2. Dentro e fuori la cassetta degli attrezzi della socialità - 3. Sulla difficoltà ad amare il prossimo - 4. Aggregazione smantellata - Note 

 

 

"Il sapore del mondo", David Le Breton, Raffaello Cortina Ed., 2007. 

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C'è la foresta del perdigiorno, quella del bracconiere o del guardacaccia, la foresta degli innamorati e quella degli ornitologi: ogni uomo cammina in un universo sensoriale legato a ciò che la sua cultura e la sua storia personale hanno fatto di lui ma il corpo è comunque il filtro attraverso il quale ci appropriamo della sostanza del mondo. Con la piacevolezza di un racconto e il sostegno di "sociologi" come Jonathan Swift, Marcel Proust e Bruce Chatwin, David Le Breton, uno dei massimi esperti di antropologia del corpo, esplora i sensi come pensiero del mondo, ricordando che la condizione umana è corporea prima che spirituale.

 

 

 

 

David Le Breton: «Il corpo, estensione dell'anima»

Il 54enne antropologo francese, autore di Il sapore del mondo. Un'antropologia dei sensi ci accompagna in un personalissimo viaggio. Attraverso l'Europa e i cinque sensi (o sei).

«Sento, dunque sono». Così David Le Breton sintetizza, parafrasando Cartesio, la sua antropologia: studiare l'uomo con un approccio sensoriale. Sì, perché Le Breton è un Robin Hood dei giorni nostri, con i capelli scompigliati (che tocca continuamente) e i jeans al posto della calzamaglia. Col vizio di citare i filosofi del passato. Divulgando. "Rubando" ai ricchi (di sapienza) per "dare" al grande pubblico.

Una città per ogni senso

Quando lo incontriamo l'antropologo francese si trova al Festival della Mente di Sarzana, sulla costa ligure dove ha appena stroncato Aristotele: «È dal filosofo greco che deriva la visione della percezione sensoriale estremamente riduttiva che hanno oggi gli europei», argomenta risoluto. Cinque sensi non bastano, spiega Le Breton, che insegna all'università di Strasburgo. «Quante volte nelle nostre conversazioni tiriamo in ballo la presenza di un sesto senso, o quante altre prendiamo come appiglio l'intuito femminile per spiegare concetti che altrimenti non riusciremmo ad esprimere?», incalza l'antropologo. Ridurre i sensi a cinque è, però, un'operazione di semplificazione che può tornare molto comoda. Specie quando si deve fare una corrispondenza uno ad uno con una città. Dare ai sensi una casa: motivo nobile, per ridurli ad un numero finito. È questo il gioco che proponiamo a Le Breton.

Il tatto è Lisbona

«Difficile», risponde riponendo gli occhialini dalla montatura celeste sul tavolo, a fianco del boccale di birra. Si massaggia le meningi, prende fiato. Poi spara: «Il gusto abita in Italia in generale. No, non costringermi a scegliere una città, ogni regione qui ha gusti magnifici, non saprei quale preferire». E la vista è forse francese? «No, se devo darle una nazionalità, è ancora italiana. Toscana più precisamente. Fiorentina, insomma. È lì che l'architettura ha raggiunto la sua massima espressione. Adoro Firenze. Ma anche Venezia è uno spettacolo per gli occhi». Per liberare i sensi dalla penisola di Dante, e sdoganarli in giro per l'Europa, bisogna passare allora per il tatto: «A livello mondiale, il tatto è cosa di Rio de Janeiro. In Europa, un buon surrogato è Lisbona, che a Rio è comunque legata a doppio filo, per molti versi». Il Portogallo merita anche un altro senso, peraltro uno dei più contesi sulle guide turistiche e promozionali: «L'olfatto lo associo alla città di Funchal, nell'isola atlantica di Madera. I profumi di una vegetazione che in Europa non ha pari. Sì, non ho dubbi, il mio naso mi porterebbe lì, potesse scegliere». Per l'udito, Le Breton supera l'Oceano, per tendere l'orecchio fino a Vancouver e a tutto il Canada con i suoi immensi spazi. «È la mia alcova naturale: solo lì mi sento davvero all'ascolto del mondo».

Il corpo come metafora

Le Breton sembra divertito, e continua a pensare ad alternative e a stimolare la mente annusando vini. Eppure, il gioco non è inedito: già Calvino nel suo "Sotto il sole giaguaro" si era immaginato - con un esercizio di stile formalmente perfetto - di raccontare luoghi e storie un senso alla volta. Ne erano venuti fuori - manco a dirlo - cinque racconti che narravano il mondo da una prospettiva diversa. «I punti di vista alternativi sulle cose mi affascinano: sarà per questo che sono un uomo in perenne migrazione. Mi sento davvero ‘abitante del mondo'». Un cosmopolita con la valigia sempre pronta, eppure senza un cellulare. «Vedi - mi indica ad un tavolo vicino uno dei tanti avventori con il telefono all'orecchio - quello che detesto è la gente che telefona in presenza d'altri».

Nell'era di Second Life

Nei suoi studi si è soffermato sul rapporto della società con il corpo. «Oggi interveniamo sulla nostra carne, sulla nostra pelle, in una maniera molto simile al passato. Sono cambiate le motivazioni: mortificarci, cambiarci, tatuarci. Il corpo è sempre più un'estensione dell'anima. Una misura del mondo». Ciò è sempre vero nel mondo di Internet? «Se mi permetti, ancora di più. Hai presente Second Life? Lì puoi inventarti un corpo nuovo, anche un corpo animale». Ma come vede allora Monsieur Le Breton il corpo, il mondo e il suo corpo nel suo mondo? «Il mio mestiere è fare l'antropologo, e l'antropologia nasce da un assunto di base: tutti gli uomini sono uguali. Combattere il razzismo è uno dei primi doveri di un antropologo, ed ancor prima di un uomo. La nostra pelle, il nostro corpo, deve servire solo come metafora, filtro semantico».

E c'è qualche Stato, in Europa, che ha saputo in qualche modo ‘rispettare' di più il corpo? «Le costituzioni italiane e francesi sono quelle più avanzate in questo senso. Ma è soprattutto una questione di cultura, prima ancora che di carte e diritti». Manca ancora qualcosa: una definizione finale ed onnicomprensiva del corpo, della carne: «La carne è il pensiero del mondo, ma a questo pensiero va dato seguito con l'intelletto». Mens sana in corpore sano: vuoi vedere che il Robin Hood degli aforismi ci ha fregato ancora? -articolo di Filippo Lubrano - Sarzana - 26.10.2007- 

 

 

"Manuale dell'attaccamento", Jude Cassidy, Giovanni Fioriti, 2002.

manuale_dellattaccamentoQuesto è un libro importante. E' importante perchè riunisce in una singola opera i contributi dei maggiori esperti in settori molto diversi della teoria dell'attaccamento. E' importante perchè consente al lettore di avere a disposizione una vastissima bibliografia che copre qualunque tema abbia rilevanza per lo studio dell'attaccamento. Infine è un libro importante perchè non è il prodotto di una singola scuola di pensiero. Dalla prefazione del libro:

 

 

 

 

 

"Quando John Bowlby si interrogò, per la prima volta, sulla relazione tra deprivazione materna e delinquenza giovanile, certamente non immaginava che il proprio lavoro avrebbe prodotto uno dei settori della ricerca più vasto, profondo e creativo della psicologia del XX secolo. Né tanto meno poteva immaginarlo Mary Ainsworth, rispondendo a un annuncio pubblicato su un giornale di Londra che l´avrebbe portata a collaborare con lo stesso Bowlby. Chiunque conduca oggi una ricerca bibliografica sul tema "attaccamento" rintraccia più di 2.000 voci, che coprono tutte le fasce di età, dall´infanzia alla vecchiaia, disseminate nelle varie riviste di psicologia fisiologica, clinica, evolutiva e sociale, oppure raccolte nelle numerose antologie. La teoria dell´attaccamento rappresenta il più significativo quadro concettuale, basato sui dati empirici, nel campo sociale e dello sviluppo emotivo. Va assumendo un ruolo rilevante nella sempre più ampia letteratura clinica relativa agli effetti delle relazioni precoci genitore-figlio, che comprendono il maltrattamento e le relazioni disturbate. Determinante appare la sua influenza in un settore della ricerca, in rapida espansione, che affronta i legami intimi tra adolescenti e adulti, incluso lo studio delle relazioni duali, romantiche e coniugali. Il volume di Bowlby dedicato alla perdita rappresenta tuttora una fonte inesauribile di intuizioni e ispirazione per tutti i ricercatori che si rivolgono allo studio del lutto. Il valore di teorizzazioni psicologiche serie e coerenti è chiaramente dimostrato dalla teoria dell´attaccamento, esempio di come gli studiosi spazino dalla pura attività concettuale alla ricerca empirica, poli di un processo dialettico che garantisce la loro costante interazione e influenza reciproca. L´attuale teoria, benché sostanzialmente simile a quella elaborata trent´anni fa, ha acquistato specificità e consistenza, espandendosi in nuove e significative direzioni, grazie a una ricerca accurata e creativa. Poiché, già all´epoca della sua prima formulazione, la teoria appariva particolarmente ricca di intuizioni e dettagliata, e poiché Ainsworth si rivelò una ricercatrice estremamente dotata, i primi studi ispirati dalla teoria ne confermarono i concetti fondamentali, suscitando inoltre nuovi interrogativi per molti versi sorprendenti e provocatori. La teoria dell´attaccamento, come è giusto che accada per ogni nuova ipotesi scientifica, fu inizialmente soggetta a critiche rilevanti. Gli onori tributati a Bowlby e Ainsworth al termine delle loro carriere testimoniano l´alta considerazione nella quale è oggi tenuto il loro lavoro. A causa della vastità della letteratura sull´argomento, e della continua evoluzione alla luce delle nuove ricerche, solo un ristretto numero di studiosi e ricercatori ha un quadro completo della teoria. Per poterne usufruire al meglio, ricercatori, clinici e insegnanti devono avere familiarità con le formulazioni originarie di Bowlby e Ainsworth, ma anche conoscerne gli sviluppi successivi, i parametri elaborati per valutare l´attaccamento (e ciò che effettivamente misurano), e i recenti contributi empirici e teorici che si riferiscono ai legami tra attaccamento e sviluppo della personalità. Questo volume si propone di soddisfare tali importanti necessità professionali, dimostrando la propria utilità per chiunque si accosti allo studio dei processi di attaccamento, utilizzi la teoria nel proprio lavoro clinico, oppure tenga corsi o seminari dedicati alla teoria, o che ne affrontano l´argomento. Ricerche o corsi incentrati su questo tema possono utilizzare il libro come unica eccellente fonte. La prima sezione, "Una panoramica della teoria dell´attaccamento", fornisce una aggiornata presentazione della teoria. I primi due capitoli corrispondono approssimativamente al primo e al secondo volume della trilogia pubblicata da Bowlby, Attaccamento e perdita. Nel capitolo 1, Jude Cassidy espone il costrutto centrale dell´attaccamento; nel capitolo 2, Roger Kobak illustra il punto di vista di Bowlby e Ainsworth relativamente alle ripercussioni emotive di perturbazioni delle relazioni di attaccamento. Robert Marvin e Preston Britner descrivono, nel capitolo 3, lo sviluppo normativo del sistema comportamentale dell´attaccamento nel corso della vita. Il capitolo 4 fa riferimento all´aspetto probabilmente più noto della teoria: le differenze individuali nella qualità dell´attaccamento elaborate da Bowlby e Ainsworth. Nancy Weinfield, Alan Sroufe, Byron Egeland e Elizabeth Carlson riassumono scoperte recenti, concentrandosi in particolare sugli influenti studi condotti dal loro gruppo di ricerca presso l´Università del Minnesota, relativi alle conseguenze di precoci pattern di attaccamento. Inge Bretherton e Kristine Munholland esaminano, nel capitolo 5, il concetto di "modello operativo interno", utilizzato dai teorici dell´attaccamento per spiegare la coerenza e la continuità degli stili di attaccamento. Benché sia ovviamente impossibile sintetizzare le svariate e rilevanti pubblicazioni di Bowlby e Ainsworth in una sezione di un singolo volume, i primi cinque capitoli di questo manuale forniscono un´utile base teorica ai lettori esperti nel settore o che si avvicinano per la prima volta all´argomento. La seconda sezione del volume, "Prospettive biologiche", valuta l´importanza attribuita da Bowlby all´etologia e alla ricerca sui primati. Molte delle sue idee, prese a prestito da discipline che oggi definiremmo psicobiologia e psicologia evoluzionistica, hanno consentito l´elaborazione di ipotesi di rilievo, verificabili in studi condotti sui primati o su altri mammiferi. Nel capitolo 6, Jeffry Simpson dimostra come sia possibile conciliare la teoria dell´attaccamento con alcune teorie della biologia e della psicologia evoluzionistica, non disponibili all´epoca della sua formulazione iniziale da parte di Bowlby. Come le relazioni genitore-figlio acquistano maggiore significato se considerate in un quadro evoluzionistico comparato, allo stesso modo la teoria dell´attaccamento risulta più comprensibile in un contesto neo-darwiniano. Jay Belsky, nel capitolo 7, approfondisce questa analisi, evidenziando come gli stili di attaccamento principali, delineati da Ainsworth (sicuro, evitante e ambivalente) rappresentino differenti strategie, che si sono evolute allo scopo di incrementare il successo riproduttivo in specifici ambienti fisici e sociali. Prendendo spunto dalle considerazioni evoluzionistiche generali descritte nei due precedenti capitoli, il capitolo 8 è centrato sull´esame, compiuto da Jonathan Polan e Myron Hofer, di specifici e sistematici studi sperimentali effettuati sui ratti, e diretto a valutare processi comportamentali e fisiologici correlati all´attaccamento. Il potente microscopio analitico di questi autori evidenzia una serie di dettagli significativi relativi all´attaccamento e alle reazioni alla separazione, rimarcando la complessità del concetto di sistema comportamentale dell´attaccamento. Nel capitolo 9, Stephen Suomi dimostra come molte delle ipotesi elaborate da Bowlby, fortemente influenzate dalla lettura delle ricerche sui primati, siano state testate e approfondite in recenti studi sperimentali e osservazioni di scimmie reso e altri primati. Due dei principali contributi di questo filone della ricerca consistono nell´aver rivelato l´interazione fra temperamento del bambino e capacità di accudimento del genitore nella determinazione degli esiti del parenting, nonché nell´aver documentato la trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento; processo evidenziato anche in recenti studi condotti sull´essere umano. Nel capitolo 10, Brian Vaughn e Kelly Bost discutono la maggiore difficoltà di specificare la natura e gli effetti del temperamento negli esseri umani, rispetto alle scimmie reso. La descrizione del temperamento umano, infatti, è caratterizzata dalla totale assenza di accordo sulla sua definizione e dalla mancanza tanto di una cornice concettuale, che ne consenta l´interpretazione, quanto di una chiara visione d´insieme delle supposte associazioni tra caratteristiche individuali e natura delle relazioni di attaccamento con parenti o partner. Infine, Nathan Fox e Judith Card illustrano, nel capitolo 11, le svariate tecniche di valutazione psicofisiologica utilizzate dai ricercatori allo scopo di integrare e spiegare gli indici comportamentali dei processi di attaccamento. Benché promettenti, tali tecniche appaiono meno semplici e di facile applicazione di quanto auspicato da alcuni studiosi. La terza sezione del volume, "L´attaccamento nei bambini", raccoglie tre capitoli essenziali per la comprensione dei contributi successivi. La relativa brevità di questa sezione non deve indurre a ritenere che il resto del volume sia dedicato ad argomenti differenti dall´attaccamento nell´infanzia, tema centrale della maggior parte dei capitoli e delle ricerche presentate. Mentre i primi cinque capitoli si proponevano di introdurre la teoria, la presente sezione fornisce una esposizione precisa e articolata delle ricerche empiriche dedicate allo studio dei pattern di attaccamento nell´infanzia. Nel capitolo 12, Jay Belsky sostiene la necessità di considerare tali pattern in un contesto sociale ed evolutivo; è improbabile che ciascuna relazione del bambino, a prescindere dalla sua importanza, non subisca l´influenza dei fattori ecologici e degli altri legami significativi, condizionandoli a sua volta. Ross Thompson, nel capitolo 13, prende in esame i complessi fattori che contribuiscono a spiegare come mai lo stile di attaccamento infantile consenta in alcuni casi, ma non in altri, di prevedere il funzionamento futuro del soggetto. A tal fine, l´autore passa in rassegna svariati studi longitudinali che si propongono di chiarire l´argomento. Nel capitolo 14, Judith Solomon e Carol George riassumono le modalità di valutazione della qualità dell´attaccamento utilizzate nella prima e seconda infanzia. Gli autori dimostrano come la misurazione di tale complesso costrutto sia già stata realizzata con successo nell´infanzia, con tutti i vantaggi scientifici che ne derivano; rimangono invece ancora da sviluppare metodiche che, avvalendosi di modalità multiple e convergenti, ne estendano la valutazione alle fasi successive all´infanzia. I capitoli raccolti nella quarta sezione, "L´attaccamento negli adolescenti e negli adulti", prendono spunto dalla convinzione di Bowlby che il comportamento di attaccamento caratterizzi l´essere umano "dalla culla alla tomba." Nel capitolo 15, Joseph Allen e Deborah Land esaminano studi sugli stili di attaccamento, valutati mediante l´Intervista sull´Attaccamento Adulto (Adult Attachment Interview o AAI), e le relazioni tra genitori e figlio adolescente, il quale, pur ricercando una crescente autonomia, non rinuncia ad affidarsi al contesto familiare, che continua a rappresentare una "base sicura". Nel capitolo 16, Cindy Hazan e Debra Zeifman sostengono che i legami di coppia tra partner adulti rappresentano vere e proprie forme di attaccamento, dunque interpretabili sulla base dell´omonima teoria. Il capitolo 17, di Judith Feeney, consiste in una rassegna di recenti ricerche nel campo della psicologia sociale e della personalità, ispirate dalla prospettiva teorica elaborata da Hazan e Zeifman. Jonathan Mohr, nel capitolo 18, offre la prima esauriente analisi dell´attaccamento in relazioni sentimentali tra individui dello stesso sesso, ritenendola un contributo essenziale per la comprensione globale dei processi di attaccamento. Esaminando le ricerche che chiariscono tali processi in questo tipo di relazioni, l´autore esplora le basi evoluzionistiche dell´attrazione e l´importanza del sistema di attaccamento. I successivi due capitoli della sezione affrontano le complesse problematiche emerse in seguito al tentativo, compiuto da parte di ricercatori con background teorici e sperimentali differenti, di valutare gli stili di attaccamento nell´adolescenza e nell´età adulta. Nel capitolo 19, Erik Hesse fornisce una dettagliata analisi concettuale dell´AAI, illustrandone le origini, le revisioni e l´interessante letteratura che ne è derivata. Judith Crowell, Chris Fraley e Phillip Shaver, nel capitolo 20, valutano l´AAI confrontandola con modalità differenti di misurazione dell´attaccamento negli adulti, molte delle quali elaborate per l´assessment dei pattern di attaccamento riscontrabili in relazioni intime diverse da quelle che coinvolgono genitori e figli. La quinta sezione del volume, "Applicazioni cliniche della teoria e della ricerca sull´attaccamento", riflette le profonde radici della teoria nella psicologia e psichiatria clinica, nonché l´attuale contributo al lavoro clinico. Sia Bowlby che Ainsworth avevano una formazione clinica; il primo, psichiatra e psicoanalista, aveva formulato la sua teoria sulla base dell´esperienza con i pazienti e delle osservazioni cliniche. Ciononostante, fino a pochi anni fa, erano soprattutto gli psicologi sociali ed evolutivi, piuttosto che i clinici, a interessarsi alla teoria dell´attaccamento e alla ricerca sull´argomento. Bowlby e Ainsworth ritenevano che il loro lavoro avesse importanti applicazioni cliniche ed erano entrambi interessati al miglioramento delle terapie. Fu per loro motivo di grande soddisfazione il fatto che, negli ultimi anni, un numero sempre più ampio di clinici giudicasse utile il loro lavoro. I primi tre capitoli della sezione sono dedicati alla psicopatologia, mentre i quattro successivi esaminano la teoria dell´attaccamento in relazione a prospettive terapeutiche specifiche. La connessione tra attaccamento e psicopatologia nell´infanzia è il tema centrale del capitolo 21, scritto da Mark Greenberg; Mary Dozier, Chase Stovall e Kathleen Albus valutano invece tale connessione nell´età adulta (capitolo 22). La decisione di includere in questa sezione un´analisi dell´attaccamento disorganizzato (capitolo 23, di Karlen Lyons-Ruth e Deborah Jacobvitz) nasce dai risultati di studi recenti, che suggeriscono un aumento del rischio di psicopatologia nei casi di disorganizzazione. Gli autori prendono in esame le origini evolutive, i correlati e le conseguenze dell´attaccamento disorganizzato, segnalando i dati e i modelli teorici che lo mettono in relazione alla violenza, ai traumi e al maltrattamento in età adulta. Successivamente sono descritti i contributi della teoria dell´attaccamento e della ricerca a specifiche forme di terapia. Nel capitolo 24, Alicia Lieberman e Charles Zeanah considerano l´apporto alla psicoterapia genitore-bambino e ad altri interventi rivolti al bambino; nel capitolo 25, Arietta Slade valuta il contributo alla psicoterapia individuale con adulti, considerando in particolare i risultati relativi alla somministrazione dell´AAI; infine John Byng-Hall, nel capitolo 27, descrive il contributo alla terapia di coppia e familiare. Il capitolo 26, di Peter Fonagy, fornisce una panoramica sulle complesse relazioni tra teoria dell´attaccamento e teoria psicoanalitica, suggerendo la presenza di sostanziali punti di contatto, ma anche di significative divergenze. Tali considerazioni storiche e teoriche faciliteranno gli scambi reciproci tra studiosi e clinici che operano nell´ambito dei due quadri concettuali. La sezione finale del volume, "Temi emergenti e prospettive", offre un campione dell´ampia gamma di aree coinvolte dall´espansione della teoria dell´attaccamento. Nel capitolo 28, Carol George e Judith Solomon esaminano il comportamento di accudimento (caregiving), comportamento su base biologica che Bowlby riteneva indispensabile indagare per giungere a una profonda comprensione dell´attaccamento, al quale è strettamente correlato. Il capitolo 29 si apre con la premessa che il caregiving non sia un comportamento limitato ai genitori, che non rappresentano dunque le uniche figure di attaccamento per i loro figli. Carollee Howes prende in esame contesti caratterizzati da caregiver multipli, discutendo i criteri per l´identificazione delle figure di attaccamento, dei precursori e delle conseguenze dell´attaccamento non materno e delle interconnessioni tra forme diverse di attaccamento. Passa in rassegna, inoltre, la letteratura empirica relativa all´attaccamento del bambino al padre, ai nonni, alle figure che contribuiscono al suo accudimento, agli insegnanti, ai genitori adottivi o affidatari. Nel capitolo 30, Lisa Berlin e Jude Cassidy esplorano vari tipi di relazione: l´influenza dell´attaccamento con i propri genitori sui legami successivi, l´influenza delle altre relazioni genitoriali sul loro legame di attaccamento con i figli, la concordanza tra pattern di attaccamento tra i vari figli del genitore e tra le diverse figure di attaccamento di ciascun bambino. Il capitolo 31 affronta un interrogativo frequentemente sollevato a proposito dei processi di attaccamento: sono soggetti a significative differenze interculturali oppure si mantengono essenzialmente costanti? Marinus van IJzendoorn e Abraham Sagi, esaminando studi condotti in paesi diversi, dimostrano come il sistema comportamentale dell´attaccamento sia sostanzialmente riconoscibile nelle varie culture, benché comprensibilmente soggetto a variazioni dei parametri. Nel capitolo 32, Chris Fraley e Phillip Shaver riesaminano la questione della perdita e del lutto affrontata da Bowlby nel terzo volume di Attaccamento e perdita. Concludono sostenendo l´attualità delle idee di Bowlby, malgrado gli interessanti risultati e le nuove sfide della ricerca nel settore. Nel capitolo 33, Klaus Grossmann, Karin Grossmann e Peter Zimmermann riconsiderano il ruolo del sistema comportamentale esplorativo, e anche il concetto definito da Ainsworth come "bilanciamento tra adattamento ed esplorazione". Nel capitolo 34, Carol Magai valuta la ricerca sull´attaccamento alla luce delle teorie contemporanee e della ricerca sull´emozione umana. Lee Kirkpatrick sostiene, nel capitolo 35, come la teoria e la ricerca sull´attaccamento possano contribuire alla comprensione di una varietà di fenomeni religiosi. Nel capitolo 36, Michael Rutter e Thomas O´Connor valutano le implicazioni sociali della teoria, in particolare in relazione all´assistenza all´infanzia. Il libro si chiude con un epilogo di Mary Main, che elenca una serie di punti importanti relativi sia alla teoria che alla sperimentazione, proponendo nuove direzioni per la ricerca futura." Jude Cassidy Phillip R. Shaver.

 

 

"La via del non attaccamento", Dhiravamsa, Astrolabio, 1980.

via_del_non_attaccamentoQuesto manuale di Dhirvamsa, studioso e maestro delle tecniche di meditazione Vipassana, descrive una semplice tecnica che mostra come sia possibile il vero rilassamento, una volta che abbiamo imparato a liberarci dal desiderio.

Una difficoltà che si incontra con la parola Nibbana (non attaccamento appunto) è che il suo significato va oltre la capacità di descrizione delle parole. E' essenzialmente indefinibile.
Un’altra difficoltà è che molti buddhisti considerano il Nibbana come qualcosa di irraggiungibile, talmente sublime e remoto che non vale neanche la pena di tentare di arrivarci. Oppure vediamo il Nibbana come una meta, come un qualcosa di sconosciuto e indefinito che dobbiamo cercare di ottenere in qualche modo.
Molti di noi hanno questo tipo di condizionamento. Vogliamo ottenere o raggiungere ciò che in questo momento non abbiamo. Perciò si considera il Nibbana come un premio che si può ottenere impegnandosi a lavorare duramente, a mantenere sila (i precetti), a meditare con diligenza, a diventare un monaco, a dedicare la propria vita alla pratica; allora si otterrà il Nibbana, pur non sapendo che cosa esso sia realmente.
Ajahn Chah usava definire il Nibbana come la "realtà del non-attaccamento. Questo aiuta a inserirlo in un contesto, perché l’accento va posto sul fatto di risvegliarsi al nostro attaccamento, al nostro aggrapparsi perfino alle parole Nibbana o Buddhismo o pratica o sila o qualsiasi altra cosa.
Spesso si dice che la via buddhista è quella del non attaccamento. Ma questa definizione può diventare una prospettiva a cui ci attacchiamo, a cui ci aggrappiamo. E’ un circolo vizioso. Più tentate di dargli un senso, più la confusione si fa totale, a causa delle limitazioni del linguaggio e della percezione. Bisogna andare oltre il linguaggio e la percezione. E l’unico modo per andare oltre il pensiero e le solite emozioni è quello di esserne consapevoli, consapevoli dei pensieri, consapevoli delle emozioni. "L’isola oltre la quale non si può andare" è una metafora per definire questo stato in cui si è svegli e consapevoli, totalmente opposto al concetto di diventare svegli e consapevoli.
Nei corsi di meditazione, spesso la gente comincia con un atteggiamento sbagliato, che dà per scontate alcune esperienze mentali. Infatti può esservi l’idea che c’è un "io che si attacca e che ha un sacco di desideri. Perciò bisogna praticare per liberarsi da questi desideri, per smetterla di attaccarsi e aggrapparsi alle cose. Non bisogna attaccarsi a nulla". Spesso è da qui che si comincia. Cominciamo a praticare partendo da questa base e molte volte si finisce con l’essere disillusi e frustrati, perché basiamo la pratica stessa sull’attaccamento a un’idea.
Infine comprendiamo che, per quanto cerchiamo di liberarci dai desideri, per quanto cerchiamo di non attaccarci a nulla, qualsiasi cosa facciamo – diventare monaci, asceti, sedere ora dopo ora, fare ritiri uno dietro l’altro, fare tutto il possibile per liberarci da questa tendenza ad attaccarci – finiamo con l’essere frustrati, perché non abbiamo mai riconosciuto l’illusione che sta alla base di tutto ciò.
Per questo la metafora "L’isola oltre la quale non si può andare" è così potente, perché indica il principio di una consapevolezza oltre la quale non si può andare. E’ semplicissimo, è diretto, e non lo si può concepire. Dovete solo fidarvi, fidarvi di questa semplice capacità, che tutti abbiamo, di essere completamente presenti e completamente svegli, e cominciare a prendere atto dell’attaccamento e delle idee che abbiamo su noi stessi, sul mondo che ci circonda, sui pensieri, le percezioni e le sensazioni.
La via della consapevolezza passa per il luogo in cui si riconoscono le condizioni così come sono. Semplicemente le riconosciamo e prendiamo atto della loro presenza, senza biasimarle o giudicarle, senza criticarle o approvarle. Sia positive che negative, lasciamo che siano come sono. E man mano che proseguiamo fiduciosi su questa via di consapevolezza, cominceremo a capire la realtà dell’ "Isola oltre la quale non si può andare".
Quando cominciai a praticare la meditazione sentii che avevo molta confusione, e volevo uscire da questa confusione, liberarmi dei miei problemi, e diventare uno senza confusione, uno che sapeva pensare chiaramente, uno che forse un giorno sarebbe diventato un illuminato. Questo fu l’impulso che mi portò verso la meditazione buddhista e la vita monastica.
Ma poi, riflettendo su questo punto, comprendendo che "io sono qualcuno che ha bisogno di fare qualcosa", cominciai a vedere che era una condizione creata da me. Era un presupposto, una teoria che io avevo creato. E se avessi agito da questa prospettiva, avrei senz’altro potuto sviluppare molte capacità e avrei senz’altro potuto vivere una vita meritevole, buona e benefica per me e per gli altri, ma, alla fine, sarei rimasto frustrato di non aver raggiunto il Nibbana.
Per fortuna l’intera vita monastica è basata sul fatto che tutto è diretto verso il presente. Impariamo continuamente a riconoscere e a confrontarci con le teorie che abbiamo su noi stessi. L’assunto che "io sono uno che deve fare qualcosa per diventare illuminato nel futuro" è la sfida più importante con cui confrontarci. Solo riconoscendolo come un pregiudizio creato da noi, la consapevolezza sa che è creato dall’ignoranza, dalla mancanza di comprensione. Quando vediamo e riconosciamo ciò totalmente, smetteremo di creare tali assunti.
Consapevolezza non vuol dire giudicare i pensieri o le emozioni, le azioni o le parole. Consapevolezza vuol dire conoscere queste cose completamente, che sono cioè ciò che sono, in questo preciso momento. Per questo ho trovato molto utile imparare ad essere consapevole delle condizioni senza giudicarle. In questo modo, viene riconosciuto pienamente il karma risultante dalle passate azioni e parole, così come si manifesta nel presente, senza aggiungerci nulla, senza farne un problema. Ciò che sorge, cessa. Nel momento in cui riconosciamo ciò e lasciamo che le esperienze cessino secondo la loro natura, la realizzazione della cessazione aumenta la fede nella pratica del non-attaccamento e del lasciare andare.
L’attaccamento che abbiamo, anche verso le scelte positive come il buddhismo, può essere considerato anch’esso un attaccamento che ci acceca. Ciò non significa che dobbiamo liberarci del buddhismo. Semplicemente riconosciamo l’attaccamento come attaccamento e vediamo che lo stiamo creando a causa dell’ignoranza. Man mano che si continua a riflettere su ciò, la tendenza verso l’attaccamento svanisce e la realtà del non-attaccamento, del non aggrapparsi, si rivela in ciò che possiamo considerare il Nibbana.
Se lo vediamo in questo modo, il Nibbana è qui e ora. Non è qualcosa da raggiungere in futuro. La realtà è qui e ora. E’ molto semplice, ma va oltre qualsiasi descrizione. Non può essere dato né trasmesso, può solo essere conosciuto da ogni persona individualmente.
Quando uno comincia a realizzare o a conoscere che il non-attaccamento è la Via, può capitare che uno senta un forte senso di paura. Sembra quasi che ci sia una specie di annullamento: tutto ciò che penso di essere nel mondo, tutto ciò che considero stabile e reale, comincia a cadere in pezzi; può essere veramente spaventoso. Ma se abbiamo abbastanza fede da sopportare queste reazioni emotive e se lasciamo che le cose sorte svaniscano secondo la loro natura, allora troveremo stabilità non nell’ottenere o nel raggiungere, ma nell’essere – essere svegli, essere consapevoli.
Anni fa, in un libro di William James, The Varieties of Religious Experience, ho trovato una poesia di Charles A. Swinburne. Pur avendo – come alcuni hanno detto – una mente turbata, Swinburne ci ha lasciato riflessioni molto pregnanti.
Qui comincia il mare che finisce solo con la fine del mondo.
Da dove stiamo,
Se potessimo conoscere il segno della prossima alta marea posta oltre a queste onde che luccicano
potremmo conoscere ciò che nessun uomo ha conosciuto,
ciò che nessun occhio umano ha scrutato...
Ah, ma qui il cuore umano fa un balzo, struggendosi per quell’oscurità con temeraria baldanza
dalla riva che non ha altra riva più oltre, posta in tutto il mare.
(da On the Verge in A Midsummer Vacation)
Ho trovato in questa poesia un eco della risposta che il Buddha dette alla domanda di Kappa nel Sutta-Nipata:
Poi ci fu lo studente bramino Kappa:
"Signore, disse, c’è gente che sta in mezzo alla corrente terrorizzata e piena di paura per lo scorrere del fiume dell’esistenza, mentre la morte e il decadimento incombono su di essa. Per il suo bene, Signore, ditemi dove posso trovare un’isola, ditemi se c’è una terraferma, su cui non possa giungere tutto questo dolore".
"Kappa, disse il Maestro, per il bene di quelli che stanno in mezzo alla corrente dell’esistenza, sopraffatti dalla morte e dal decadimento, ti dirò dove puoi trovare terraferma.
C’è un’isola, un’isola oltre la quale non puoi andare. E’ un luogo di non-esistenza, un luogo di non-possesso e di non-attaccamento. E’ la fine assoluta della morte e del decadimento, e per questo lo chiamo Nibbana [estinto, fresco o calmo].
C’è gente che, in piena consapevolezza, lo ha realizzato e si è estinta completamente qui e ora. Queste persone non diventano schiave che lavorano per Mara, per la Morte; non possono più cadere in suo potere".
(da Sn 1092-95, traduzione inglese del Ven. Saddhatissa)
La parola non-esistenza può suonare come annichilimento, annullamento. Ma sottolineando "esistenza" diventa solo "non-esistenza", per cui il Nibbana non è una esistenza da trovare. E’ il posto della non-esistenza, del non-possesso, un luogo di non-attaccamento. E’ un luogo in cui, come diceva Ajahn Chah, si sperimenta "la realtà del non-attaccamento".

Una sera Dae Soen Sa Nim tenne il seguente discorso di Dharma al centro zen di Providence. "Cos'è lo Zen? Zen significa conoscere se stessi. Significa chiedersi: Cosa sono io? Io spiego lo Zen con un cerchio. Su questo cerchio ci sono cinque punti. 0°, 90°, 180°, 270° e 360°. 360° e 0° sono lo stesso punto.
Cominciamo con lo spazio tra 0° e 90°. Qui dominano il pensiero e l'attacamento. Il pensiero è esigere e l'esigere porta alla sofferenza. Tutto si sostiene sui contrasti: buono o cattivo, bello o brutto, mio e tuo. Mi piace - non mi piace. Mi piacerebbe essere felice e non soffrire. Così, in questo stato, la vita è sofferenza e la sofferenza è vita.
Sopra i 90° c'è lo spazio della consapevolezza del così detto karma-sé. Al di sotto si è attaccati ai nomi, alle forme ed anche ai pensieri. Prima che nascessi non eri nulla. Adesso sei l'Uno. Quando muori, ritorni nulla. Per questo il nulla è Uno e Uno è il nulla. In questo parte del cerchio, tutti i fenomeno sono uguali, fatti della stessa sostanza. Tutto ha nome e forma, ma nome e forma vengono dalla originaria vacuità e si ritorcono di nuovo sulla vacuità stessa. Il tutto è comunque ancora pensiero.
A 180° non c'è quasi più pensiero. Questa è l'esperienza della vera vacuità. Davanti al pensiero non ci sono né parole né lingua, ma anche nessuna montagna, nessun fiume, nessun dio, nessun Buddha, assolutamente più niente. C'è solo ancora..."
A questo punto Dae Soen Sa Nim colpì il tavolo.
La prossima zona va fino a 270°, questa è la parte del cerchio della magia e del miracolo. Qui domina la pura libertà, non ostacolata né dal tempo, né dallo spazio. Ciò è indice di un pensare vivace. Posso trasformare il mio corpo in quello di un serpente. Posso cavalcare le nuvole del cielo occidentale. Posso camminare sull'acqua. Voglio vivere, allora vivo; voglio morire, allora muoio. In questo arco del cerchio tutto è possibile: una statua può piangere; la terra non è né chiara né scura; l'albero non ha radici; la valle non ha echo. Se resti a 180°, allora rimani attaccato alla vacuità; se rimani a 270° soffrirai per l'attaccamento alla libertà.
A 360° tutti i fenomeni sono così come sono. La verità è semplicemente così com'è. 'Semplicemente così' significa che non si è più attaccati a nulla. Questo punto è esattamente uguale al punto del nulla. Arriviamo lì dove siamo sempre stati. La differenza è che 0° è pensiero d'attaccamento, mentre 360° è pensiero incondizionato/di non attaccamento.
Un esempio: quando si guida un auto e la tua mente è da qualche altra parte allora è probabile che tu possa attraversare un incrocio con il rosso. Questi sono pensieri d'attaccamento. Pensiero di non attaccamento significa che la tua mene è chiara per tutto il tempo. Quindi la verità è semplicemente così com'è. Il rosso significa stop, il verde via libera. E' un'azione intuitiva. Ciò significa un'azione senza reclami, senza trattenimenti. La mia mente è come uno specchio che riflette tutto semplicemente così com'è. Se compare il rosso davanti allo specchio, lo specchio mostra il rosso; compare il giallo, mostra il giallo. Proprio così è la vita di un Bodhidsattva. Non desidero niente per me, le mie azioni sono per il beneficio di tutti gli uomini.
0° è il piccolo-sé. 90° è il karma-sé e 180° è il non-sé. 270° è il libertà-sé. 360° è il grande-sé. Il grande-sé è spazio e tempo illimitati. Quindi non conosce né vita né morte. Ha solo un desiderio: beneficiare tutti gli essere senzienti. Se gli uomini sono felici, sono anch'io felice; se sono tristi, anch'io sono triste.
Zen significa raggiungere 360°. Se hai raggiunto 360° allora scompaiono tutti i gradi della ruota. La ruota è solo un ausilio all'insegnamento zen. Non esiste veramente. La adoperiamo per rendere più semplifice il pensiero e testare la conoscensa di uno studente zen.
Dae Soen Sa Nim prese un libro ed una matita e mosse in alto chiedendo: 'Questo libro e questa matita - sono uguali o diversi?'. A 0° sono diversi. A 90° tutto è Uno, quindi il libro è la matita e la matita è il libro. A 180° tutti i pensieri sono cessati, non ci sono né nome né lingua. La risposta è..." Dae Soen Sa Nim colpì il tavolo. "A 270° domina la pura libertà, una buona risposta potrebbe essere: il libro è irato e la matita ride. A 360° la verità è semplicemente così com'è. Viene la primavera e l'erba cresce; dentro è chiaro, fuori è scuro; tre volte tre fa nove. Quindi la risposta suona: il libro è il libro, la matita è la matita.
Ad ognuno dei cinque punti la risposta suona diversamente. Qual'è quella esatta? Capisci?
Adesso ho ancora solo una risposta per te: tutte e cinque le risposte sono sbagliate."
"Perché?"
Dopo aver aspettato un momento, Sae Soen Sa Nim gridò:"KATZ!!!" e subito dopo aggiunse:"Il libro è blu, la matita è gialla. Quando capisci, capirai te stesso.
Se veramente capisci te stesso allora ti bastonerò trenta volta. Ma se non capisci te stesso ti colpirò comunque trenta volte."
"Perché?"
Dopo aver aspettato ancora un attimo, Dae Soen Sa Nim disse: "Oggi fa molto freddo." 

Le persone materiali sono sempre in balia delle onde di piacere e dolore, successo e fallimento, felicità e dispiacere, appagamento e frustrazione, che si alzano e abbassano all'infinito. La Bhagavad Gita insegna che il segreto della vera felicità risiede nella tranquillità interiore: non l'illusoria pace delle emozioni acquietate, ma la calma profonda che si consegue quando si trascendono le proprie emozioni.
Il non-attaccamento non implica indifferenza; né la calma implica freddezza. Piuttosto, entrambi permettono all'individuo di espandere la propria consapevolezza. Questa espansione può essere paragonata a un fiume che sfocia in un vasto oceano, le cui profondità non sono influenzate dall'attività di superficie. Il non-attaccamento a cui si riferisce questo passo della Gita e la calma interiorizzazione per la quale Gesù lodò Maria non dovrebbero essere confuse con l'apatia. Il vero non-attaccamento si consegue non ottenebrando la propria sensibilità, ma solo approfondendo la propria consapevolezza del Sé. La perfetta realizzazione del Sé è il frutto della meditazione quotidiana e profonda. Con l'espansione del sé si giunge a un'identità universale, che prende il posto di ogni illusione di separazione propria della coscienza dell'ego.
Nel silenzio della comunione interiore, l'anima si eleva al di sopra della sua identificazione con la piccola natura umana e le sue turbolente passioni, per librarsi attraverso la Luce radiosa nella libertà infinita e nella beatitudine eterna.
 

"L'errore di Cartesio", Damasio Antonio, Adelphi, 1995.

errore_di_cartesioRisale a Cartesio la separazione fra emozione e intelletto, ma le indagini sul cervello attualmente in corso muovono in tutt'altra direzione. Damasio è stato forse il primo a porre sotto esame le infauste conseguenze della separazione di Cartesio e oggi è possibile circoscrivere quell'errore sulla base anche di casi clinici e della valutazione di fatti neurologici sperimentali. Tutte le linee sembrano convergere verso uno stesso risultato: l'essenzialità del valore cognitivo del sentimento. Damasio usa la parola "sentimento" per denotare qualcosa di concettualmente nuovo e introduce una distinzione importante fra il sentire di base e il sentire delle emozioni, fondata su osservazioni di architettura anatomico-funzionale del sistema nervoso centrale e non su motivazioni di solo funzionalismo psicologico (come per esempio in Johnson-Laird). Si compie così un grande passo in avanti verso il chiarimento neurobiologico della funzionalità emotiva e dei suoi strettissimi intrecci con l'agire razionale. Proprio qui si addensano le principali novità, che fanno di questo libro una delle letture più appassionanti in un campo - quello del rapporto tra cervello e coscienza - dove ancora moltissimo è da scoprire. In quest'opera Damasio compie il tentativo di unificare mente, cervello e corpo, sulla base di dati rigorosamente scientifici. Partendo da alcuni casi clinici, come quello di Phineas P. Cage, egli cerca di dimostrare che l'idea dell'esistenza di un pensiero puro, di una razionalità non influenzata da emozioni e sentimenti, non ha riscontro nella realtà. La nostra mente, secondo Damasio, non è strutturata come un computer, in grado cioè di presentarci un elenco di argomenti razionali a favore o contro una determinata scelta. La mente umana agisce in maniera molto più rapida (anche se meno precisa): prende in considerazione il peso emotivo che deriva dalle nostre precedenti esperienze, fornendoci una risposta sotto forma di sensazione viscerale. L'errore di Cartesio è stato quello di non capire che l'apparato della razionalità non è indipendente da quello della regolazione biologica, e che le emozioni e i sentimenti spesso sono in grado di condizionare fortemente, e a nostra insaputa, le nostre convinzioni.
Phineas Gage era un abile ed esperto capo operaio americano, che, in un giorno per lui sfortunato del 1848, ebbe il cranio trapassato da un palo di ferro lungo un metro e dieci centimetri, del diametro di circa tre centimetri. Il palo, sparato dall'esplosione accidentale di una carica da mina, penetrò nella guancia sinistra di Gage e uscì dalla sommità del suo cranio avendo attraversato la parte frontale del cervello. Gage perse i sensi solo per pochi minuti. Fu curato da un medico molto capace - il dottor John Harlow - che gli evitò le conseguenze peggiori dell'inevitabile infezione. Guarì, e non solo: le sue capacità cognitive (linguaggio, ragionamento, ecc.) risultarono sostanzialmente intatte. Eppure, aveva subito un mutamento profondo, che gli avrebbe reso impossibile una vita normale. Nelle parole del suo medico, egli era divenuto "bizzarro, insolente, capace delle più grossolane imprecazioni (da cui in precedenza era stato del tutto alieno)... a volte tenacemente ostinato, e però capriccioso e oscillante: sempre pronto a elaborare molti programmi di attività future che abbandonava non appena li aveva delineati". Non fu in grado di tornare al suo vecchio lavoro, n‚ di tenerne altri per un periodo sufficiente; morì a San Francisco nel 1861, forse in seguito a una serie di attacchi di epilessia.
Che cosa era successo esattamente a Phineas Gage, e che cosa succede agli altri che, come lui, subiscono una lesione selettiva alle cortecce prefrontali del cervello? L'eccellente libro di Damasio, ben tradotto da Filippo Macaluso, è - tra molte altre cose - un tentativo di rispondere a questa domanda. La risposta è dettagliata, e chiama in causa molte conoscenze e non poche speculazioni (non tutte cogenti, ma sempre interessanti): tra l'altro, si intreccia con una teoria generale del rapporto tra mente e corpo, con un'ipotesi sulla costi-tuzione del sé e sulla coscienza e con una teoria delle emozioni e dei sentimenti. Qui cercherò di limitarmi al filo principale di questo intreccio.
Il problema è chiaro. I pazienti prefrontali come Gage si comportano in modo "irrazionale": in particolare, a essere menomati sono i loro processi decisionali. Per esempio, in un'occasione un paziente di Damasio, dovendo scegliere la data dell'appuntamento successivo (una decisione banale e non particolarmente problematica), andò avanti per quasi mezz'ora a soppesare i pro e i contro delle possibili alternative in relazione ad altri impegni, alle condizioni del tempo, a ogni possibile elemento interferente; salvo poi accettare senza esitazione la data proposta dai medici. Eppure, questi pazienti non presentano anomalie dei processi cognitivi: parlano e ragionano normalmente. Questo suggerisce che la deliberazione non sia un compito puramente cognitivo, non sia cioè - come vorrebbe una tradizione che da Kant giunge alle moderne teorie della scelta razionale - un puro calcolo di costi e benefici, che esamina uno dopo l'altro i corsi d'azione possibili scegliendo infine quello caratterizzato dalla massima "utilità attesa".
Se davvero dovessimo decidere a questo modo, saremmo come i cerebrolesi studiati da Damasio: non ne usciremmo mai. Saremmo sempre nelle condizioni dell'asino di Buridano, che muore di fame non riuscendo a decidersi tra due mucchi di fieno. Certo, nel caso dell'asino i due mucchi erano uguali; ma il punto è che non è sempre facile determinare - in termini strettamente cognitivi - quale di due mucchi è il più grosso: "Non è facile tenere a mente i molteplici livelli di guadagni e perdite che bisogna confrontare: dalla lavagna della memoria semplicemente scompaiono le rappresentazioni dei passi intermedi che bisogna tenere in serbo... Di quei passi intermedi si perdono le tracce, giacché attenzione e memoria operativa hanno capacità limitata".
Se la deliberazione dev'essere possibile nei tempi e con le risorse normalmente disponibili a un essere umano, dev'esserci un meccanismo automatico che la semplifica drasticamente: ed è all'alterazione di questo meccanismo che dev'essere imputata la menomazione a cui sono soggetti i pazienti prefrontali. Questo meccanismo, per Damasio, ha a che fare con le emozioni, le quali svolgono, nella produzione di comportamenti razionali, un ruolo molto più importante di quello che viene loro solitamente attribuito. Damasio ritiene che ci siano buone ragioni, sia neurobiologiche sia psicologiche, per respingere l'immagine consolidata secondo cui le emozioni sarebbero appannaggio del nucleo evolutivamente più antico del cervello (ipotalamo, limbo, ecc.), mentre la razionalità sarebbe gestita dalla corteccia cerebrale più recente. Secondo lui, ciò che chiamiamo razionalità è l'effetto combinato di parti antiche e parti recenti.
Quando deliberiamo, all'esito dei corsi d'azione alternativi che ci immaginiamo è connesso un marcatore somatico, positivo o negativo. Il marcatore è un segnale che ha la funzione di incentivare o disincentivare le scelte al cui esito è associato, in modo tale che esse vengano decisamente preferite o invece escluse dalla considerazione del deliberante. L'esempio più chiaro di marcatore somatico (negativo) è la spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco che proviamo quando ci immaginiamo l'esito negativo di una certa possibile scelta. Ma non è indispensabile che il corpo subisca davvero una modificazione; esiste un meccanismo alternativo in cui il corpo viene aggirato: le cortecce prefrontali e l'amigdala dicono alla corteccia somatosensitiva di or-ganizzarsi come se il corpo fosse stato messo in un certo stato. Il cervello, in parole povere, percepisce un corpo "emozionato" anche se il corpo non è davvero cambiato.
In entrambi i casi, l'idea è che le alternative vengono preselezionate anche in base al loro contenuto emotivo, dove un'emozione "è un insieme di cambiamenti dello stato corporeo connessi a particolari immagini mentali che hanno attivato uno specifico sistema cerebrale", e provare un'emozione è l'esperienza di quei cambiamenti in giustapposizione alle immagini mentali che hanno dato avvio al ciclo. Non so quanto l'anticartesiano Damasio sia consapevole della forte somiglianza tra il suo modo di guardare a emozioni e sentimenti e la teoria delle passioni di un grande cartesiano eterodosso, Spinoza: il sentimento, per Damasio, è l'esperienza di ciò che il corpo fa "mentre corrono i pensieri riguardanti specifici contenuti"; Spinoza, unificando emozioni e sentimenti nella nozione di affetto, diceva che un affetto è un'"affezione del corpo... e insieme l'idea di questa affezione".
Una serie di test estremamente ingegnosi mostrano che i pazienti prefrontali sono meno capaci di emozioni dei soggetti normali; nel senso, per esempio, che non esibiscono risposte somatiche a immagini emotivamente coinvolgenti, pur sapendo che si tratta di immagini emotivamente cariche, ed essendo perfettamente in grado di spiegare di quali specifiche emozioni si tratta: essi sono in grado di dire che un'immagine dovrebbe suscitare orrore, ma nulla nel loro corpo esprime un tale orrore. In loro si è interrotto il circuito immaginazione - risposta somatica - cambiamento mentale che nei soggetti normali è alla base dei processi deliberativi. D'altra parte, vi sono secondo Damasio buone ragioni neurobiologiche per ritenere che le aree prefrontali siano proprio quelle deputate alla gestione della maggior parte dei processi implicati nel circuito in questione.
L'immagine di un cervello che invia segnali al corpo e a sua volta ne "ascolta" continuamente e attentamente le risposte ("il cervello è l'avvinto uditore del corpo") si generalizza, nel libro di Damasio, in un'immagine del rapporto tra mente e corpo e in una teoria del sé, in cui è centrale la costante rappresentazione cerebrale dello stato del corpo. Il sé è fatto in parte di memoria autobiografica (sapere come ci chiamiamo, dove abitiamo, che cosa ci piace, che vita abbiamo vissuto, ecc.) e in parte non minore della rappresentazione continuamente ripetuta dello stato del nostro corpo: di qui l'angosciosa perdita di sé dei pazienti affetti da anosognosia, che sono condannati a una conoscenza "oggettiva", esteriore del proprio corpo passato, perché la loro mente non percepisce più il suo stato presente. E di qui anche la polemica anticartesiana di Damasio (che dà il titolo al libro, ed è largamente ingiusta): contro il dualismo cartesiano - la netta separazione di mente e corpo - e subordinatamente contro la priorità della mente sul corpo, che sarebbe espressa dal celebre "Cogito ergo sum". Per Damasio, al contrario, la mente deriva dal corpo e anzi dall'intero corpo, non solo dal cervello.
Qualche tempo fa Gianni Vattimo sottolineava sull'"Indice" (1995, n. 9), l'importanza, per la filosofia, della filosofia fatta dai non addetti ai lavori. Non credo che avesse in mente libri come questo, perché citava la critica d'arte, le teorie sui media, le riflessioni sul costume, ecc. Se la filosofia, tra i suoi vari scopi, ha anche la comprensione di che cos'è essere umani, sembra a me che queste riflessioni di un neurobiologo portoghese-americano ci dicano cose più radicali e più illuminanti di molte analisi della contemporaneità, che in fondo hanno sempre a che fare con episodi effimeri - anche se per noi significativi - della vicenda della nostra specie.
 
Nel saggio lo scienziato portoghese restituisce all’essere umano la sua vera dimensione umana; dimostra come l’uomo non esiste solo per la sua facoltà di pensare ma, al contrario, ha la facoltà di pensare proprio perché esiste. Così, denuncia l’equivoco di Cortesio e mette in dubbio quelle teorie difese dai positivisti che, in un eccesso di entusiasmo ed altrettanta ingenuità, non potendo ancora conoscere i meccanismi del cervello, abbracciano frettolosamente l’ambiguo razionalismo, secondo il quale si può risalire ad ogni conoscenza grazie alla nostra capacità di ragionare. Damasio, in modo semplice ed entusiasmante, restituisce un po’ di ragione al fisico Blaise Pascal, secondo il quale, non tutte le ragioni si spiegano con la ragione, proprio perché “il cuore ha le sue proprie ragioni che la ragione non intende”. In questo modo l’essere umano riprende le sue vesti più umane e cessa di usare quella tuta meccanica, evitando di agire come macchina. Qui il saggio assume un interesse particolare perché le osservazioni di Damasio derivano proprio dall’identificazione dei meccanismi del cervello, nel quale il sentimento ha una sua precisa e fondamentale ubicazione ed una sua specifica funzione. Senza tale sentimento cesseremmo di essere individui umani per diventare ciò che ci auguriamo di non dover mai divenire: degli automi. Per concludere, raccomando a tutti coloro che hanno fiducia nelle capacità umane e nell'individuo in particolare, di leggere quest'opera; essa consolida convinzioni sull'insostituibilità, l’unicità ed l'assoluta diversità di ogni individuo creativo, svalutando ogni modello coercitivo riduttivo collettivista. Infatti, il progresso nasce dalle osservazioni e dalle scelte particolari dell'individuo che esce dalla folla e guarda alla dottrina criticamente, contro la quale si può pure ribellare, confrontandosi spontaneamente con i suoi dubbi, e cercare nuove strade che producono nuovi paradigmi, ossia innovazioni che finalmente costituiscono continue nuove soluzioni per il bene di tutta l'umanità.

 

 

"Intelligenza sociale", Goleman Daniel, Rizzoli, 2007.
intelligenza_socialeSulla scorta delle scoperte di una nuova disciplina - le neuro-scienze sociali -, l'autore dimostra come le relazioni interpersonali plasmino la mente e influiscano sul corpo. Il cervello è, per sua natura, socievole e le emozioni sono contagiose come un virus. Proprio per questo è importante allenare la propria intelligenza sociale, così da vivere con pienezza le relazioni d'amore, educare i figli alla felicità e costruire attivamente il dialogo con l'altro. Un saggio che analizza le radici delle solitudini dell'uomo di oggi per riscoprire e recuperare i rapporti personali e affettivi.

In questo libro, lo psicologo americano indaga sulla natura intrinsecamente socievole del cervello umano, e su come le relazioni interpersonali plasmano la mente e influiscono sul corpo.
Unendo al rigore scientifico esempi concreti tratti dalla vita quotidiana, a scuola e in ufficio..., Goleman mostra che le emozioni sono contagiose come virus, proprio perché la nostra mente è predisposta all'interazione.
Scopriamo così la sorprendente accuratezza delle prime impressioni, le complesse dinamiche dell'attrazione erotica, ma anche i processi mentali inconsci attraverso i quali capiamo che il nostro interlocutore ci sta mentendo.
Gli esseri umani sono naturalmente portati all'empatia, alla cooperazione e all'altruismo. Si tratta allora di sviluppare al massimo queste capacità innate in ciascuno di noi, "allenando" la nostra intelligenza sociale e ricercando attivamente il dialogo con l'altro: soprattutto oggi, in un epoca in cui la diffusione massiccia delle nuove tecnologie ci costringe a relazioni a distanza, chiudendoci in un vero e proprio "autismo sociale".
Potenzare al massimo questo tipo di intelligenza significa vivere con pienezza le relazioni d'amore, educare i nostri figli alla felicità, diventare leader e insegnanti capaci di stimolare la creatività e le risorse nascoste di ognuno.
Daniel Goleman, già professore di psicologia a Harvard, è autore di Intelligenza Emotiva (1996), che ha venduto oltre cinque milioni copie in tutto il mondo.
Ha avuto il grande merito di aver contribuito a sviluppare un atteggiamento culturale più rispettoso e favorevole alle emozioni.  

 

 

"L'intelligenza emotiva", Goleman Daniel, Rizzoli, 1997.

intelligenza_emotivaLe emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione. Aristotele

Che le emozioni abbiano un ruolo importante nella vita umana è fuori di discussione. Finora però siamo stati abituati a pensare che la parte di noi che "pensa" (quella razionale) e la parte di noi che "sente" fossero separate, invece esse interagiscono in continuazione. Ecco perché la stessa definizione di intelligenza va corretta alla luce delle recenti acquisizioni scientifiche. Il libro capovolge le opinioni consolidate sui rapporti tra ragione e sentimento. Il vecchio paradigma sosteneva un ideale in cui la ragione poteva liberarsi dalla spinta delle emozioni. Il modello qui proposto invece, propende per l'integrazione delle due componenti.
Partendo dalla scoperta di Joseph LeDoux (libro del mese di febbraio 2001) che l'amigdala (sede dei sentimenti più primitivi e potenti) reagisce agli stimoli esterni prima della neocorteccia (il cervello pensante), il libro dedica la prima parte alla spiegazione del funzionamento di queste due importanti aree corticali.
Gli ultimi capitoli contengono preziosi suggerimenti su come tenere conto dell'intelligenza emotiva nelle scuole (bisogna insegnarla fin dalla tenera età) e nel lavoro (permette di ridurre i conflitti).
Una nota a margine: ogni paragrafo inizia col racconto di un episodio. La lettura quindi è scorrevole. La traduzione è fatta veramente bene. Perché persone assunte sulla base di classici test d’intelligenza si possono rivelare inadatte al loro lavoro? Perché un matrimonio può andare a rotoli anche se il quoziente intellettivo di entrambi i coniugi è altissimo? La facoltà che governa settori così decisivi dell’esistenza non è l’intelligenza astratta dei soliti test, ma una complessa miscela in cui hanno un ruolo predominante fattori come l’autocontrollo, la perseveranza, l’empatia e l’attenzione agli altri. In breve è l’“intelligenza emotiva” che ha consentito ai nostri lontani progenitori di sopravvivere in un ambiente ostile e di elaborare le strategie che sono alla base dell’evoluzione umana.
L’intelligenza emotiva consente di governare le emozioni e guidarle nelle direzioni più opportune; spinge alla ricerca di benefici duraturi piuttosto che al soddisfacimento degli appetiti più immediati; si può apprendere, perfezionare e insegnare ai bambini, rimuovendo alla radice le cause di molti e gravi squilibri caratteriali. Un saggio appassionante che ci mostra le potenzialità enormi dell’intelligenza umana.
Il concetto ha conquistato l'interesse del pubblico solo di recente, grazie ai best-seller di Daniel Goleman "Intelligenza emotiva" (Rizzoli 1997) e "
Lavorare con Intelligenza Emotiva" (Rizzoli 1999), benché la letteratura scientifica se ne occupi già da circa un decennio.

Ma che cos'è quest'intelligenza emotiva?

E' una miscela equilibrata di motivazione, empatia, logica e autocontrollo, che consente, imparando a comprendere i propri sentimenti e quelli degli altri, di sviluppare una grande capacità di adattamento e di convogliare opportunamente le proprie emozioni, in modo da sfruttare i lati positivi di ogni situazione.

Il termine intelligenza emotiva usato da Goleman si riferisce alla "capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali". Sono abilità complementari ma differenti dall'intelligenza, ossia da quelle capacità meramente cognitive rilevate dal Q.I., che rappresenta l'indice generale delle facoltà cognitive.

Tra queste abilità complementari rientrano ad esempio la capacità di motivare se stessi e di continuare a perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; la capacità di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; la capacità di modulare i propri stati d'animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; la capacità di essere empatici e di sperare.
Più in generale, alla base dell'intelligenza emotiva ci sono due grosse competenze, caratterizzate rispettivamente da abilità specifiche.

Il nostro viaggio. In questo libro voglio guidarvi in un viaggio attraverso le intuizioni scientifiche sulle emozioni, un viaggio che ha lo scopo di far comprendere meglio alcuni degli aspetti più sconcertanti della nostra vita e del mondo intorno a noi. Un viaggio che si propone di arrivare a capire che cosa significhi portare l’intelligenza nella sfera dell’emozione - e come farlo.
[…] Il nostro viaggio comincia nella Prima parte, dove le nuove scoperte sull’architettura emozionale del cervello offriranno una spiegazione dei momenti più sconcertanti della nostra vita, quando i sentimenti sopraffanno completamente la razionalità. La comprensione dell’interazione delle strutture cerebrali responsabili dei nostri momenti di collera e di paura – o di passione e di gioia – ci rivela moltissimo sul modo in cui apprendiamo le inclinazioni emozionali che possono sabotare le nostre migliori intenzioni, e ci insegna anche che cosa fare per addomesticare i nostri impulsi più distruttivi e frustranti. Fatto ancora più importante, i dati neurologici ci indicano la possibilità di plasmare le inclinazioni emozionali dei nostri bambini.
La successiva tappa del nostro viaggio, la Parte seconda di questo libro, ci mostra come le basi neurologiche si esprimano in quella attitudine fondamentale chiamata intelligenza emotiva: essa comprende, ad esempio, la capacità di tenere a freno un impulso; di leggere i sentimenti più intimi di un’altra persona; di gestire senza scosse le relazioni con gli altri – come diceva Aristotele, la rara capacità di «colui quindi che si adira per ciò che deve e con chi deve, e inoltre come, quando e per quanto tempo si deve».
[…] In questa accezione più estesa dell’espressione «essere intelligente» le emozioni sono attitudini fondamentali nella vita. La Parte terza esamina alcune differenze chiave legate a tale attitudine; in particolare, vedremo come l’intelligenza emotiva possa preservare le nostre relazioni più preziose, che in sua assenza si deteriorano […]. L’eredità genetica ci ha dotati di una serie di talenti emozionali che determinano il nostro temperamento. Ma i circuiti cerebrali interessati sono straordinariamente plastici; il temperamento non è destino. Come dimostra la Parte quarta, gli insegnamenti emozionali che apprendiamo da bambini a casa e a scuola plasmano i nostri circuiti emozionali, rendendoci più o meno abili nella gestione degli elementi fondamentali dell’intelligenza emotiva. Ciò significa che l’infanzia e l’adolescenza offrono opportunità importantissime per stabilire le essenziali inclinazioni emozionali che governeranno la nostra vita.
Nella Parte quinta esploreremo i rischi cui vanno incontro coloro che, nel diventare adulti, non riescono a dominare la sfera delle emozioni – vedremo insomma come le carenze a livello di intelligenza emotiva aumentino tutta una gamma di rischi, che vanno dalla depressione a una vita violenta, ai disturbi del comportamento alimentare e all’abuso di droghe. In questa parte parleremo anche di alcune scuole che, adottando programmi pionieristici, stanno insegnando ai bambini le capacità emozionali e sociali delle quali avranno bisogno per esercitare il controllo sulla propria vita.
Forse l’informazione più sconvolgente, fra quelle contenute in questo libro, viene da un’inchiesta a livello mondiale, compiuta su genitori e insegnanti, che ha mostrato la tendenza, nell’attuale generazione di bambini, ad avere un maggior numero di problemi emozionali rispetto a quella precedente: oggi i giovanissimi sono più soli e depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e inclini alla preoccupazione, più impulsivi e aggressivi.
Se un rimedio esiste, personalmente sono convinto che sia da cercarsi nel modo in cui prepariamo i nostri bambini alla vita. Attualmente, l’educazione emozionale dei nostri figli è lasciata al caso, con risultati sempre più disastrosi.
[…] Prevedo un giorno nel quale sarà compito normale dell’educazione quello di inculcare comportamenti umani essenziali come l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo e l’empatia, e anche l’arte di ascoltare, di risolvere i conflitti e di cooperare.
Nell’Etica nicomachea (l’indagine filosofica di Aristotele sulla virtù, la personalità e la vita retta), la sfida lanciata dall’autore era quella di controllare la vita emotiva con l’intelligenza. Le passioni, quando ben esercitate, hanno una loro saggezza; esse guidano il nostro pensiero, i nostri valori, la nostra stessa sopravvivenza. Esse possono, tuttavia, facilmente impazzire, e questo accade fin troppo spesso. Come ben capiva Aristotele, il problema non risiede nello stato d’animo in sé, ma nell’appropriatezza dell’emozione e della sua espressione. Il punto è dunque: come portare l’intelligenza nelle nostre emozioni – e di conseguenza, come portare la civiltà nelle nostre strade e la premura per l’altro nella nostra vita di relazione?”.

L’attuale dibattito sulle “competenze” tende a mettere in luce la necessità di definire curricoli che prevedano non solo l’acquisizione di conoscenze (i saperi), ma anche il saper fare (abilità) e il saper essere (comportamenti), in relazione ai mutamenti del sistema economico, sociale, culturale e del quadro di riferimento valoriale.
La proposta di Goleman di educare all’intelligenza emozionale, da cui dipendono anche l’intelligenza cognitiva e la capacità di motivare e di guidare se stessi nell’azione operativa, ha destato grande interesse in ambito internazionale, promuovendo una serie di pubblicazioni successive, riferite ad ambiti specifici.
L’apprendimento emozionale viene connesso alla sicurezza sociale: nelle scuole si dovrebbe insegnare l’autoconsapevolezza, a contenere le emozioni incanalandole in armonia con il compito, a risolvere positivamente i conflitti e a sviluppare l’empatia.
L’intelligenza emotiva viene analizzata in connessione con i modelli di intelligenza multipla proposti da H. Gardner (“Formae mentis”, 1983) che, tra le sette forme di intelligenza, individua l’intelligenza personale, distinguendone l’aspetto interpersonale da quello intrapersonale. Goleman va  oltre la tesi di Gardner, al quale rimprovera di essere rimasto troppo legato al modello di mente proprio delle scienze cognitive e di aver lasciato inesplorati due concetti: “la possibilità che l’intelligenza sia presente nelle emozioni e l’educabilità della stessa”.
E’ fondamentale l’opportunità offerta all’infanzia, definita da Goleman “una finestra aperta” per modellare le inclinazioni emotive destinate a durare tutta la vita.
Accanto all’alfabetizzazione culturale dovrebbe, secondo l’autore, trovare posto nei curricoli anche l’alfabetizzazione emotiva. L’insegnamento delle capacità interpersonali vengono proposte nei vari States durante le lezioni di “Scienza del sé”, o di “Sviluppo sociale”, o di “Apprendimento sociale ed emozionale”....... E’ stretta l’analogia delle suddette discipline con il campo di esperienze “Il sé e l’altro”, previsto negli Orientamenti del 1991, con l’ “Educazione alla convivenza democratica” e gli “Studi sociali” dei programmi di scuola elementare del 1985. E’ da evidenziare, inoltre, che alcuni dei progetti ORME realizzati nella fase sperimentale erano centrati su obiettivi inerenti alla conoscenza di sé e allo sviluppo della responsabilità personale, allo sviluppo di atteggiamenti socio-collaborativi e di una mentalità associativa e imprenditoriale, alla gestione di situazioni conflittuali, allo sviluppo di abilità decisionali rispetto a situazioni problematiche identificate.
Può risultare interessante il confronto con le componenti principali del curricolo adottato dal Nueva Learning Center di San Francisco:
·   Essere autoconsapevoli: osservare se stessi e riconoscere i propri sentimenti;
·   Decidere personalmente: esaminare le proprie azioni e prevedere le conseguenze, sapere se una decisione è dettata da un pensiero o da un sentimento;
·   Controllare i sentimenti: cogliere i messaggi negativi e le autodenigrazioni, capire cosa c’è dietro un sentimento, trovare il modo di controllare la tristezza, la collera, l’ansia;
·    Essere empatici: comprendere i sentimenti e le preoccupazioni degli altri; prospettare un fatto da diversi punti di vista;
·    Comunicare: esprimere con efficacia i propri sentimenti; saper ascoltare, domandare, esprimere un punto di vista; distinguere fra ciò che qualcuno fa o dice e le proprie reazioni o giudizi al riguardo;
·    Essere perspicaci: identificare modelli tipici nella propria vita emotiva e nelle proprie reazioni, riconoscere modelli simili negli altri;
·    Autoaccettarsi: riconoscere i propri punti di forza e di debolezza; essere capaci di ridere di se stessi; accettare i propri sentimenti e umori; sviluppare prospettive realistiche di autopromozione;
·    Essere personalmente responsabili: assumersi responsabilità, portare a compimento gli impegni assunti, riconoscere le conseguenze delle proprie decisioni e azioni; affermare i propri interessi e sentimenti senza passività o collera;
·    Saper entrare nella dinamica di gruppo: saper collaborare; sapere quando e come comandare e quando e come eseguire;
·    Saper risolvere conflitti: saper affrontare lealmente, compagni, genitori, insegnanti; saper negoziare i compromessi.

 

Nella vita:

"Ci sono prove convincenti sull'effetto delle condizioni psicologiche sulla salute. Depressione, dolore, pessimismo, tutto sembra far peggiorare la salute sia nel breve che nel lungo termine." (Martin Seligman, Learned Optimism, 1998).

Il successo dipende da un accurato adattamento che comprende l'altruismo, l'umorismo, la capacità di gestire se stessi, l'ottimismo. Le persone cambiano nel tempo (George Vaillant, Adaptation to life, 1995).

Circa l'80% del successo degli adulti deriva dal quoziente dell'intelligenza emotiva. (Daniel Goleman, 1995).

Il 75% delle carriere peggiorano per ragioni legate alle competenze emotive, inclusa l'incapacità di affrontare problemi interpersonali; una leadership insoddisfacente in momenti di difficoltà o di conflitto; incapacità di adattarsi ai cambiamenti o assumersi responsabilità (The Center for Creative Leadership, 1994).

85-95% delle differenze tra un buon leader e un leader eccellente dipende dall'intelligenza emotiva (Goleman, 1998).

I maschi impulsivi hanno più probabilità di diventare adolescenti violenti. Le femmine impulsive, invece, hanno una maggiore probabilità di rimanere incinte durante l'adolescenza (Block, 1995).

L'ottimismo è una abilità che può essere insegnata. L'ottimista è molto più motivato, ha più successo ed ha più alti livelli di riuscita. In più è significativamente più sano sia mentalmente che fisicamente (Seligman, 1991).

I depressi/tristi cronici hanno il doppio delle probabilità di ammalarsi. (McEwen, Stillar, 1993) (Robertson & Ritz, 1990).

Le persone che percepiscono accuratamente le proprie emozioni sono più abili nell'affrontare cambiamenti e nel costruire solide relazioni sociali.

Nei bambini, l'abilità di affrontare le frustrazioni, controllare le emozioni e stare con altre persone sono indicatori di successo più che il QI.

Le emozioni e la ragione sono connesse tra loro ed entrambe sono elementi cruciali per risolvere i problemi (Damasio, 1997).

Le abilità sociali ed emotive sono quattro volte più importanti del IQ nel determinare il successo professionale ed il prestigio.


Nella scuola:

Dopo il training nell'EQ, le punizioni date dai presidi diminuiscono del 95% (Johnson & Johnson, 1994).

Le abilità sociali ed emotive portano a risultati migliori (Ornstein, 1986; Lakoff, 1980).

Miglioramenti delle abilità emotive favoriscono comportamenti mirati al compito (Rosenfield, 1991).

Lo sviluppo delle abilità sociali ed emotive riduce i problemi legati alla disciplina(Doyle, 1986).

"L'unità base della memoria umana è un'informazione contestualizzata e connessa a sentimenti. Questo significa che il modo con il quale si apprende è importante tanto quanto ciò che si apprende (Maurice Elias, 1999).

Le emozioni stimolano maggiormente il cervello. Ciò aiuta a ricordare meglio (Cahill et al, 1994).

Dopo 30 lezioni centrate sulle emozioni, l'ostilità diminuisce mentre i comportamenti pro sociali aumentano (Grossman, Second Step).

Il training in EQ aumenta la concentrazione, l'apprendimento e la collaborazione, migliora le relazioni in classe e diminuisce la violenza (Anabel Jensen, Self-Science Pilot Study, 2001).

"Per il cervello, le emozioni sono più importanti e potenti delle più alte abilità di pensiero" (Eric Jensen, Brain Based Learning).

Le persone con scarse abilità nella lettura del linguaggio del corpo hanno meno probabilità di successo accademico (Katz and Hoover, 1997).

A scuola, i bambini con abilità sociali maggiormente sviluppate hanno risultati migliori rispetto a quelli che non ce le hanno (Grossman, et al, 1997).

Gli studenti ansiosi o depressi hanno voti più bassi e hanno più probabilità di essere bocciati (Kovics and Baatraens, 1994).

I racconti scritti o parlati dei bambini sono più accurati, dettagliati e coerenti quando preceduti da contenuti emotivi.

Le emozioni sono cruciali per lo sviluppo sensoriale poiché facilitano l'immagazzinamento e il richiamo delle informazioni (Rosenfield, 1988).

Lo stress e il senso di minaccia provocano effetti negativi sul cervello; ciò riduce l'opportunità di crescita dei neuroni e causa l'inibizione dell'apprendimento (Ornstein and Sobel, 1987).

Bassi livelli di empatia sono associati a risultati scolastici negativi (Nowicki and Duke, 1992, cited in Frey 1999).

I bambini che rispondono agli ostacoli con speranza e fiducia invece che con rabbia e sfiducia conseguono maggiori successi in ambito accademico e sociale (Dweck, 1996).

Gli studenti che credono nel supporto e nell'attenzione dei propri insegnanti, sono più diligenti (Skinner and Belmont, 1993); essi valorizzano maggiormente il proprio lavoro ed hanno voti scolastici più alti (Goodnow, 1993, cited in Frey 1999).

I bambini più abili nel trattenere la gratificazione sono più popolari, ottengono voti migliori ed hanno una media di oltre 210 punti nel SAT tests (Shoda, Mischel, and Peake, 1990).

I punteggi dei test sulla speranza sono indicatori dei voti al college più del SAT (Snyder, 1991); lo stesso è valido per i test sull'ottimismo.

Gli insegnanti possono aiutare gli studenti a ridurre la propria frustrazione, prevenire problemi comportamentali e ad accelerare l'apprendimento fornendo loro informazioni e abilità per scelte appropriate. (Dewhurst, 1991; Meyer, 1990).

 

Negli affari:

La perdita di clienti è connessa con ragioni legate al EQ (ad es. non essere soddisfatti del customer service di un'azienda) (Forum Corporation on Manufacturing and Service Companies, 1989 - 1995).

Negli affari, il 50% del tempo sprecato dipende dalla mancanza di fiducia (John O. Whitney, Director, Deming Center for Quality Management).

In un anno, US Airforce ha investito meno di $10,000 per testare le competenze emotive, risparmiando in recruiting $2,760,000 (Fastcompany "How Do You Feel," June 2000).

In una multinazionale, i partner con alti livelli di competenze emotive guadagnano il 139% in più delle consociate con bassi livelli di EQ (Boyatzis, 1999).

American Express testò le competenze emotive dei consulenti finanziari all'interno di un percorso formativo. Questi aumentarono le vendite del 18.1% confronto il 16.2% e quasi il 90% riferì di aver migliorato le proprie prestazioni lavorative. Ora, tutti i consulenti finanziari neoassunti partecipano ad un percorso formativo sull'intelligenza emotiva della durata di 4 giorni (Fastcompany "How Do You Feel," June 2000).

A seguito di un percorso formativo sull'intelligenza emotiva rivolto ai responsabili di uno stabilimento industriale, gli incidenti si ridussero del 50%, i reclami formali diminuirono in media a 15 per anno e la produttività superò quella prevista di $250,000 (Pesuric & Byham, 1996).

I migliori addetti alle vendite sono più produttivi dell'85% rispetto alla media dei venditori. Circa 1/3 di questa differenza è dovuta a competenze tecniche e abilità cognitive mentre i 2/3 dipende dall'intelligenza emotiva. (Goleman, 1998).

Una ricerca dell' UCLA mostrò che solo il 7% del successo della leadership è attribuibile all'intelletto; il 93% di esso è in relazione a fiducia, integrità, autenticità, onestà, creatività ed elasticità (tratto da Cooper and Sawaf, 1996).

All'Oreal, gli agenti di vendita selezionati in relazione a loro particolari abilità emotive vendono di più di quelli selezionati con normali procedure ($91,370 con un incremento netto di circa $2,558,360). Anche il turnover nel primo anno è il 63% in meno (Spencer & Spencer, 1993; Spencer, McClelland, & Kelner, 1997, tratto da Cherniss, 2000).

Nella marina americana, i leader migliori sono più espressivi e socievoli (Bachman, 1988, tratto da Cherniss, 2000).

I lavoratori con ritmi pressanti e scarse abilità manageriali hanno più probabilità di perdere il lavoro rispetto a quelli che hanno maggiori e più forti competenze di self- management (Essi Systems, 1997).


Daniel Goleman è uno psicologo cognitivista, professore di psicologia ad Harvard, scrittore ed autore di numerosi libri.
Ha avuto il grande merito di aver contribuito a sviluppare un atteggiamento culturale più rispettoso e favorevole alle emozioni.
Oltre ad aver scritto molti libri di successo (tra i quali ricordiamo Intelligenza Emotiva, Lavorare con l'Intelligenza Emotiva, Forza della Meditazione) scrive abitualmente sulle pagine scientifiche del "New York Times" e su "Psychology Today".


"Il cervello emotivo. Alle radici delle emozioni", LeDoux Joseph, Baldini e Castoldi Dalai, 1998.

ledouxcervCosa succede nel cervello quando proviamo paura e amore, gioia e odio, rabbia e felicità? Esiste un modo per controllare le emozioni o sono loro, sempre e comunque, a controllare noi? Gli animali provano emozioni? E come mai episodi della nostra infanzia, anche quelli che abbiamo dimenticato, continuano a influenzare i nostri comportamenti da adulti?
Sono queste, e tante altre per la verità, le domande che hanno spinto Joseph LeDoux, neurobiologo di fama mondiale, a scrivere Il cervello emotivo. Il risultato è un
libro di grande efficacia, capace di aggiornarci -con chiarezza e semplicità - sulle ricerche che hanno portato a quella "rivoluzione emotiva" che negli ultimi tempi ha invaso i settori e le discipline più disparate, dalla psicologia alla letteratura al marketing. L’autore dimostra come le emozioni provengano dal cervello e come questo risponde e percepisce gli stimoli emotivi; inoltre spiega come si formano i ricordi e il modo in cui i nostri sentimenti coscienti emergono da processi inconsci. LeDoux, ispiratore e protagonista del libro di Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, indaga in maniera spregiudicata tra i meccanismi cerebrali alla base delle nostre emozioni e che solo ora si vanno rivelando ai ricercatori.
A differenza dei sentimenti consci, quelli di cui siamo pienamente consapevoli,
le emozioni hanno origine a un livello ben più profondo della mente e sono il risultato di sofisticati sistemi neurali comparsi nel corso dell'evoluzione con un obiettivo preciso: garantire la sopravvivenza dell'individuo. Nel funzionamento del cervello emotivo i sentimenti consci sono irrilevanti, mentre sono le emozioni ad avere un ruolo determinante. Anche se si tratta di meccanismi neurali, ciò che le scatena può mutare attraverso l'esperienza. Proprio questa - dice LeDoux - è la chiave per capire, e forse per cambiare, la noledoux2stra costituzione emotiva.
Con le sue implicazioni per la comprensione della natura umana, Il cervello emotivo è un resoconto sorprendente e intrigante di come la scienza, la neurobiologia in particolare, stia cambiando il nostro modo di vedere - e vivere - le nostre emozioni.
"Dalle anime alle amine». Con questo anagramma è possibile sintetizzare il passaggio da una visione della mente ancora cartesiana ad una che tenga conto delle recenti e decisive acquisizioni neuroscientifiche; da una filosofia senza scienza («anima» è ormai un sostantivo dalla genericità imbarazzante) ad una scienza che studia le basi biologiche dei fenomeni mentali (le amine sono tra i più importanti neurotrasmettitori) senza, sia chiaro, volerli murare in un paralizzante riduzionismo. LeDoux inquadra anzitutto il cervello nell'insieme: ricorda come esso sia un prodotto dell'evoluzione e della selezione naturale; come non lo si possa utilizzare nella falsa analogia col computer; come in esso il rapporto tra struttura e funzione - tra i neuroni e, poniamo, la coscienza - non sia solo legato a precise regioni ma anche a complesse dinamiche di interazione fra le stesse. Distrugge di conseguenza i più rancidi luoghi comuni della psicologia, insistendo soprattutto sul fatto che emozione e cognizione (brutalmente: passione e ragione) dipendono da sistemi cerebrali distinti (sistema limbico, più «arcaico», e neocorteccia, più «nuova») ma collegati. Infine, nella parte insieme più difficile e spettacolare, non riduce ma riconduce molte emozioni (come la paura) e molte funzioni superiori (come la memoria) alla loro complessività neurobiologica. In quest'ottica è possibile convincere il lettore che la psicoanalisi non è più il solo strumento terapeutico: che, anzi, l'integrazione farmacologica è necessaria, specie in una società che ha sacrificato già troppe innocenti vittime sull'altare di una malintesa «resistenza umana» e di un irresponsabile terrorismo antiscientista.

"Secondo il riduzionismo la conoscenza è nelle singole parti. Secondo il principio olistico la conoscenza è nell'insieme, nel tutto. Io sono per il principio olistico. Ma siamo in pochi: quasi tutta la scienza procede sulla base del principio riduzionista. Tranne: a) la scienza della complessità; b) alcuni scienziati cognitivi, come Antonio Damasio. Ho trovato un altro scienziato favorevole a una prospettiva olistica nello studio del cervello: l'Autore di questo libro, Joseph LeDoux. La sua tesi è: l'esperienza emotiva dipende da come avviene l'esperienza cosciente. È importante perciò studiare la memoria di lavoro, perché è direttamente connessa con i sistemi sensoriali. Quindi, aggiungo io, occorre uno sguardo d'insieme su come funziona il cervello. Il principio che guida l'Autore è il seguente: nello studio di qualsiasi oggetto occorre che il metodo sia adeguato ad esso. E se nella realtà tout se tient, allora il metodo deve essere quello olistico." LeDoux Joseph. 

Andrebbe letto un'altro suo libro più recente (2002) uscito per Raffaello Cortina: Il Sé sinaptico in cui LeDoux ci spiega come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo. Il saggio è nuovo ma, come spesso capita, a parte alcuni aggiornamenti tecnici e storici, non è per nulla nuovo. A chi sembrasse materia ostica, va detto che LeDoux è un divulgatore eccelso e semplice da leggere, mentre le scoperte della neuroscienza sono imprescindibile patrimonio di ogni amante della letteratura di oggi e di ieri. Chi siamo e perché siamo diventati quelli che siamo? Come interagiscono le nostre funzioni cognitive, emotive e motivazionali? Oggi sono le neuroscienze, e in particolare la neurobiologia, a offrirci le risposte più convincenti.
Raccogliendo i risultati di oltre vent’anni di ricerca e combinando il rigore dello specialista con il gusto per la divulgazione, Joseph LeDoux ci guida in un affascinante viaggio alla scoperta del Sé. Non solo le nostre attività mentali sono il frutto di processi fisici che avvengono nel cervello, ma questi plasmano l’intera nostra esperienza, e viceversa.
È infatti l’estrema plasticità delle connessioni sinaptiche, delle trasmissioni degli impulsi da un neurone all’altro, che per LeDoux costituisce la base dell’apprendimento e della memoria, e permette di chiarire l’emergere di quel senso di continuità necessario alla costituzione del Sé e della personalità.

Joseph LeDoux è considerato uno dei più importanti studiosi di neurobiologia. Ha scoperto che nel cervello gli input sensoriali viaggiano dapprima diretti al talamo e all'amigdala; un secondo segnale viene poi inviato dal talamo alla neocorteccia; è docente presso il Centro per le Neuroscienze della New York University. 

 

"Alessitimia", a cura di Vincenzo Caretti, Daniele La Barbera, Astrolabio, 2005.

alexitimiaL’alessitimia, ovvero l’incapacità di dare espressione ai propri contenuti affettivi ed emotivi, ha suscitato nell’ultimo decennio un grande interesse nella comunità scientifica, che vi ha riconosciuto una possibile causa di blocchi o insuccessi nei processi terapeutici. La valutazione di tale costrutto tramite la Toronto Alexithymia Scale consente al clinico di individuare e curare queste persone che vivono in una ‘pseudonormalità’, immerse in un vuoto affettivo. La scoperta dell'alessitimia quale dimensione psicopatologica trae origine dalle osservazioni cliniche effettuate su pazienti affetti da malattie psicosomatiche classiche: l'ulcera, l'asma, la colite ulcerosa, l'eczema, l'ipertensione, eccetera. Nel 1973, P. E. Sifneos coniò il termine 'alessitimia', che tradotto letteralmente significa: emozioni senza parole o mancanza di parole per le emozioni, e che descrive un insieme di deficit della capacità di elaborare gli affetti sul piano sia cognitivo sia esperienziale.

La scoperta dell'alessitimia quale dimensione psicopatologica trae origine dalle osservazioni cliniche effettuate su pazienti affetti da malattie psicosomatiche classiche: l'ulcera, l'asma, la colite ulcerosa, l'eczema, l'ipertensione, eccetera. Nel 1973, P. E. Sifneos coniò il termine 'alessitimia', che tradotto letteralmente significa: emozioni senza parole o mancanza di parole per le emozioni, e che descrive un insieme di deficit della capacità di elaborare gli affetti sul piano sia cognitivo sia esperienziale.

Vincenzo Caretti, psicologo clinico e psicoanalista, insegna Psicopatologia dello Sviluppo presso il dipartimento di psicologia dell'Università di Palermo. Ha curato l'edizione italiana del DSM-IV Guida alla diagnosi dei disturbi dell'infanzia e dell'adolescenza (con N. Dazzi e R. Rossi, Milano 2000) e ha pubblicato, con D. La Barbera, Psicopatologia delle realtà virtuali (Milano 2001) e Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia (Milano 2005).

Daniele La Barbera, medico psichiatra, insegna Psicologia Clinica presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Palermo, dove è presidente del Corso di Laurea in Tecnica della riabilitazione Psichiatrica e Psicologia Clinica dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico di Palermo e presidente della Società Italiana di Psicotecnologie e Clinica dei Nuovi Media (SIPtech). Con Vincenzo Caretti ha fondato la rivista Psicotech, di cui è direttore responsabile.

 

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