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"Fermati che ti devo misurare la pressione". "Sono stata sdraiata per venticinque anni, potevi approfittarne!!!".

Dialogo tra un'infermiera e una paziente che si è appena risvegliata tratto dal film "Risvegli".

 

N.B. Il testo delle recensioni in grigio chiaro svela il finale del film, per cui si consiglia, a chi non lo volesse conoscere anticipatamente, di non leggerlo prima della visione.  

 

I miei film senza tempo (quelli che andrebbero rivisti di tanto in tanto o che hanno comunque lasciato un segno indelebile nella mia memoria e sono tanti, mi limiterò ad aggiungerne qualcuno saltuariamente):

 

 

Christian non ride e non perdona mai. Rimasto orfano si trasferisce in Danimarca con il padre, nella nuova scuola incontra Elias, timido, pestato dai bulli d'ordinanza, genitori perfetti sul lavoro e meno nella coppia. I due scolaretti cominceranno insieme un cammino verso il male sotto gli occhi impotenti dei pur coscienziosi genitori.
Candidato danese per la corsa agli Oscar 2011, In un mondo migliore è l'ultimo film di Susanne Bier, una delle registe scandinave più famose. Come in Dopo Il Matrimonio, la Bier imposta un racconto spola tra famiglia e diverse realtà: povertà e ricchezza.
In un mondo migliore quindi è un viaggio a colpi di montaggio alternato tra l'Africa dei medici da campo e la Danimarca opulenta dei borghesi. Allieva di Lars Von Trier, la regista ha qualche lascito del dogma: le zoomate improvvise nei momenti cruciali, ma più che forma porta in dote quel contenuto raggelante e intenso, bollino di qualità dei film danesi.
"C'è del marcio in Danimarca" e ovunque. Non esiste primo o terzo mondo: con una regia di minimalismo deciso l'autrice danese evita i sociologismi e suggerisce, con tensione costante e perfetta, che la violenza nasce in qualsiasi luogo e condizione sociale, non c'è contesto o spiegazione socioculturale che tenga. La civiltà e il progresso sociale sono bei vestiti da indossare ma si rovinano quando c'è lutto, morte, sofferenza: tre bestie divoratrici dell'evoluzione simbolo del Nord Europa. I genitori, vessilli della buona educazione, sono la parte più debole e soccombono all'ira dei figli che non riescono pure sforzandosi a guidare, perché l'istinto ha una marcia in più, come le interpretazioni degli adulti di questo film: Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm e Ulrich Thomsen, entrambi già visti nel capolavoro Festen.
In questo gioco al massacro dei buoni sentimenti, in questa cattiveria malcelata sembra di essere davanti a un grande film. Ma anche i vetri più robusti hanno il proprio punto debole e il martello distruttore è un finale così buonista e urticante che non giustifica una pellicola così validamente nera.

 

 

Nell'America degli anni '90 una ragazza rimasta sola con il proprio fratello dopo la morte improvvisa della madre (dal padre si erano allontanati anni prima per eccesso di violenza) e la fine del proprio matrimonio, chiusa nella dipendenza dall'eroina decide di affrontare il Pacific Crest Trail a piedi, più di 1.600 Km in totale solitudine macinati in più di due mesi. In questo periodo ripensa a quello che le è successo e che è determinata a superare con un'impresa che pare superiore alle sue forze.
Tratto dal libro scritto dalla stessa protagonista "Wild - Una storia selvaggia di avventura e rinascita" e adattato da Nick Hornby per il grande schermo, il nuovo film di Jean-Marc Vallée non si distanzia molto dal precedente, Dallas Buyers Club, fondato com'è su un percorso di rinascita (che lì coincideva con uno di avvicinamento alla morte qui con uno di sopravvivenza naturale), sulla demolizione fisica e morale della protagonista e sulla sua ricostruzione a colpi di musica e paesaggi.
Jean-Marc Vallée si conferma cineasta di sistema, di conservazione e perpetuazione delle più consolidate sicurezze di Hollywood nel manipolare attenzione e commozione dello spettatore. Abile reinventore di meccanismi eterni che maschera dietro una patina di linguaggio moderno espedienti in voga da sempre. Era decisamente più solido e complesso da questo punto di vista Into the wild nel trarre da una vera storia d'esplorazione un modo differente di guardare l'America dei grandi spazi e di capire qualcosa di complesso su chi la abita o li attraversa. Questa è la prima cosa che manca a Wild: una maniera personale di affrontare l'immersione nella natura, perchè Vallée immerge la propria protagonista più nelle stagioni che nei luoghi, sorvola le particolarità degli ambienti per guardare sempre da vicino il personaggio così che gli unici paesaggi visibili sono ripresi nelle maniere più convenzionali. Più che un film di grandi scenari Wild è un film di vedute, uno in cui la pioggia suggerisce scene tristi, la neve momenti teneri e la violenza del caldo attimi pericolosi.
Si fa fatica anche a rintracciare la penna felice e dinamica di Hornby in una sceneggiatura che in maniera sistematica alterna pericoli ed occasioni, incontri salvifici e altri minacciosi con un'artificiosità da burattinaio, specie considerato il tasso già alto di empatia che la vera storia porta con sè: Cheryl Strayed, che visse da white trash, perse l'unica figura di riferimento e a soli 24 anni sembrava già alla fine della propria corsa, distrutta da sesso occasionale ed eroina, fu anche la persona che riprese tutto per i capelli penetrando 3 stati del suo paese, dimenticando tutto e reimparando ogni cosa in mezzo ai boschi. È allora solo uno specchietto per le allodole la decostruzione narrativa attraverso la quale questa trama ci viene narrata, scomposta in molti flashback che dosano il dramma per tutto il film invece che concentrarlo nell'introduzione ma sostanzialmente naive e semplicistica come se fosse stata raccontata linearmente.
Si perde così anche quella che doveva essere l'impresa di Reese Witherspoon, impalpabile e mai concreta (eccezion fatta per un momento nella prima scena in cui sembra davvero che il suo corpo inizi a stringere un rapporto con l'ambiente che attraversa) elemento stonato e mai in armonia con le location.

 

 

Woody Grant ha tanti anni, qualche debito e la certezza di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Ostinato a ritirare la vincita in un ufficio del Nebraska, Woody si avvia a piedi dalle strade del Montana. Fermato dalla polizia, viene 'recuperato' da David, figlio minore occupato in un negozio di elettrodomestici. Sensibile al desiderio paterno e dopo aver cercato senza successo di dissuaderlo, decide di accompagnarlo a Lincoln. Contro il parere della madre e del fratello Ross, David intraprende il viaggio col padre, assecondando i suoi capricci e tuffandosi nel suo passato. Nel percorso, interrotto da soste e intermezzi nella cittadina natale di Woody, David scoprirà i piccoli sogni del padre, le speranze svanite, gli amori mai dimenticati, i nemici mai battuti, che adesso chiedono il conto. Molte birre dopo arriveranno a destinazione più 'ricchi' di quando sono partiti.
Autore indipendente e scrittore dotato, Alexander Payne realizza una nuova commedia 'laterale' come le strade battute dai suoi personaggi, che si lasciano indietro lo Stato del Montana per raggiungere il Nebraska in bianco e nero di Bruce Springsteen. E dell'artista americano il film di Payne mette in schermo la scrittura 'visiva', conducendo un padre e un figlio lungo un viaggio e attraverso un territorio che intrattiene un rapporto simbolico col loro mondo interiore. Oscillando tra dramma e commedia, Nebraska, versione acustica di Sideways, coinvolge lo spettatore in un flusso empatico coi protagonisti, persone vere dentro storie comuni e particolari da cui si ricava una situazione universale.
Ambientato nella provincia e lungo le strade che la raccordano al mondo, Nebraska frequenta una dimensione umana marginale e fuori mano rispetto all'immaginario hollywoodiano, prendendosi alla maniera del protagonista tutto il tempo del mondo per arrivare a destinazione. Una destinazione dove si realizza un passaggio che non può mai avvenire come effetto di una retorica pedagogica ma si fonda sull'impossibile, l'impossibilità di governare il mistero assoluto della vita e della morte. Non è per sé che il protagonista di Bruce Dern sogna quel milione di dollari, a lui basta un pick-up per percorrere gli ultimi chilometri di una vita spesa a bere e a rimpiangere quello che non è stato. La vincita della sedicente lotteria a Woody Grant occorre per i suoi ragazzi, per lasciare loro 'qualcosa' con cui vivere e per cui ricordarlo. Ma David, sensibile e affettuoso, è figlio profondamente umanizzato, testimonianza incarnata di un'eredità più preziosa del denaro. È il figlio 'bello' di chi è stato e di cui perpetua adesso il valore.
Nebraska è una ballata folk che accomoda allora la bellezza e l'amore, quella di un figlio per il proprio genitore, che prima di lasciare andare torna a guardare dal basso, in una prospettiva infantile e accoccolata ai suoi grandi piedi e al suo piccolo sogno. Intorno a loro scorre l'America lost and found insieme a una storia sincera che battendo vecchie strade, la struttura da road movie che diventa pretesto di 'formazione' (Sideways), ne infila una nuova. Nebraska è una spoglia poesia di chiaroscuri, un'indicazione lirica verso le radici, verso i padri, davanti ai dilemmi di tempi paradossali e senza guida. Diversamente dagli antieroi springsteeniani, il protagonista di Payne non cerca terre promesse e non corre sulle strade di "un effimero sogno americano", decidendo per la lentezza, l'impegno, il rispetto e il senso di responsabilità.
L'amabile David di Will Forte è il "giusto erede" di un genitore vulnerabile che Payne non presenta come esemplare ma come testimonianza eccentrica e irripetibile della possibilità di stare al mondo con qualche passione. E quella di Woody è l'amore, lingua franca di un viaggio che contempla le tracce paterne cicatrizzate nel proprio destino. Su quel padre incerto David ritrova il proprio senso e riprende la strada.

 

 

Robyn Davidson ha venticinque anni e un progetto folle: attraversare a piedi il deserto centrale australiano, da sola. Da Alice Springs all'Oceano Indiano, camminerà per 2700 kilometri, in compagnia di tre cammelli e del suo cane Diggity. Dopo un paio d'anni di preparazione, passati a prendere confidenza con gli animali e ad indurirsi i piedi in vista della fatica, e dopo i saluti alla famiglia e ai pochi amici, nel 1977 Robyn dice no all'inazione e alla mancanza di concretezza che guida le vite di tanti suoi coetanei e muove i primi solitari passi, con la sponsorizzazione del National Geographic e l'accordo di incontrare periodicamente lungo la strada il fotografo Rick Smolan, per permettergli di documentare l'epica impresa.
Il regista John Curran, americano trasferitosi in Australia all'età del viaggio della protagonista, ispirandosi al reportage della Davidson sulla rivista internazionale e al bestseller che ne è seguito, spinge Mia Wasikowska "into the wild", convinto, a ragione, che quell'esperienza di solitudine estrema possa avere ancora -e di più- un impatto significativo oggi, nel tempo della connessione perpetua e della socialità virtuale.
Fin dove la motivazione del viaggio resta inespressa e ignota ("A chi mi domanda: "Perché?", io rispondo: "Perché no?"), esattamente come il cammino a venire, il film dispiega le sue carte migliori, lasciando intravedere la circumnavigazione di un cuore di tenebra, che però non avvicinerà mai veramente. Man mano, infatti, che il passare dei giorni avanza verso la perdita del conto, Tracks sembra soffrire di ciò che invece la sua protagonista non conosce, e cioè la paura dell'ignoto. Curran si preoccupa così di marcare le tappe con il ricorso a scampoli di eventi e di motivazioni psicologiche, che affondano nel tragico passato di Robyn, ma anche nel rischio di tesi. E il difetto (anche per eccesso) di scrittura, proprio nel racconto del personaggio di una scrittrice, non è l'unica contraddizione formale e sostanziale del film: basti pensare al peso riservato alla colonna sonora, melodica e insistente, che impedisce di fatto l'esperienza del silenzio, ancora una volta addomesticando il mistero che invece sbucava dal primo incontro con i cammelli e con la loro selvaggia vocalità.
Nonostante l'interesse di Curran si concentri evidentemente sulle belle riprese del paesaggio australiano e dell'attrice (impegnata, al contrario, nella finzione, a lamentare lo sguardo invasivo del fotografo che l'assiste), il regista centra l'obiettivo nel restituire la natura obbligatoriamente individuale dell'impresa: il film è tutto sulle spalle scottate ma resistenti della Wasikowska, che dà una prova di determinazione e talento -questa sì- coerentemente eccezionale.

 

 

Still life
 

John May è un funzionario comunale dedicato alla ricerca dei parenti di persone morte in solitudine. Diligente e sensibile, John scrive discorsi celebrativi, seleziona la musica appropriata all'orientamento religioso del defunto, presenzia ai funerali e raccoglie le fotografie di uomini e donne che non hanno più nessuno che li pianga e ricordi. La sua vita ordinata e tranquilla, costruita intorno a un lavoro che ama e svolge con devozione, riceve una battuta d'arresto per il ridimensionamento del suo ufficio e il conseguente licenziamento. Confuso ma null'affatto rassegnato, John chiede al suo superiore di concedergli pochi giorni per chiudere una 'pratica' che gli sta a cuore e che ha il volto di Billy Stoke, un vecchio uomo alcolizzato che aveva conosciuto un passato felice. Di quel passato fa parte Kelly, la figlia perduta per orgoglio molti anni prima. Lasciata Londra per informarla della dipartita del genitore, John si muove tra i vivi e assapora la vita che ha il volto di una donna e il sapore di una cioccolata calda.
Quando si muore si muore soli, cantava Fabrizio De Andrè e scriveva Cesare Pavese che avrebbero potuto immaginare e mettere in versi il protagonista di Still Life, scritto, diretto e prodotto da Uberto Pasolini. Un film rigoroso, coerente, denso, profondo nell'immagine e nel senso, che ha la precisione e la lentezza di Tsai Ming Liang e la fissità e la dimensione iconica di Ozu. Non sembrino esagerati i riferimenti perché Still Life è un'opera importante che respira cinema dall'inizio alla fine.
Al suo secondo film, Pasolini ha un'idea di cinema coerente e matura che racconta i giorni sempre uguali di un funzionario comunale 'morto' in vita e riscoperto al tavolo con una donna. Una giovane donna divorata come lui, e le persone che 'seppellisce' e 'archivia', dalla solitudine e dal mare famelico che può essere la vita. Il punto di vista iniziale sul personaggio basta a imprimere un segno di funerea fatalità alla storia, insinuando un presagio e un destino. John May è la natura morta del titolo ed è la materia di cui è fatta la sua vita, che nel suo svolgersi produce un'altra possibile logica del mondo tutta da scoprire, tutta da rilevare. Perché da John apprendiamo la cura dovuta ai morti, compresi quelli che non hanno più nessuno a cui dare disposizioni, a cui lasciare in eredità il desiderio, a cui testimoniare il proprio. Alla loro sepoltura con pietas e misericordia provvede il protagonista, accompagnandoli sull'altra riva e ricomponendone la storia.
Diversamente da Foscolo, John è convinto che "all'ombra dei cipressi e dentro l'urna confortata di pianto" il sonno della morte possa essere meno duro. John May del poeta ha la forza intramontabile della poesia, capace di (re)suscitare i sentimenti più belli, di superare i limiti temporali e geografici, di ripristinare la giustizia che la vita con il suo corso ha sopraffatto. Interpretato con lirica sospensione da Eddie Marsan, John May ricopre una funzione sociale rilevante che eleva lo spirito nel momento in cui accoglie e custodisce e che ci sprona a vivere con responsabilità civile il nostro ruolo nella società. Perché, parafrasando Ennio Flaiano, un lavoro ben fatto è la vera rivoluzione.

Fioravante è un gentiluomo di mezza età che svolge svariate mansioni. Elettricista, idraulico, artista floreale e in tempi di magra gigolò, Fioravante attrae le donne con la sua dignità e la sua costanza. Factotum cortese passeggia tra i borough di New York in compagnia di Murray, amico di vecchia data che gli procura i contatti con donne in cerca di avventure erotiche o carezze amorevoli. Condiviso da due ricche signore di Park Avenue, Fioravante le ascolta e le celebra in lunghe sedute in cui sfoggia la naturale sensibilità, l'arte della danza e del massaggio. Se Murray tiene il conto degli affari, Fioravante non ha messo in conto di innamorarsi. Incontrata Avigal, giovane vedova di un Rabbino, il nostro cede armi e cuore. Contro di lui si solleva una comunità chassidica e Dovi, ebreo ortodosso invaghito da sempre di Avigal. Tra erotismo ed ebraismo, Fioravante muoverà nella vita e nei sentimenti con la delicatezza delle sue composizioni floreali.
Che cosa potrebbe mai accadere tra un uomo e una donna in un appartamento di New York dopo anni di sfruttamento di quella certa formula e di quel certo décor? Cosa di raccontabile potrebbe ancora accadere ce lo rivela John Turturro, alla sua quinta regia fuori standard e sommamente chic. Sguardi rapiti e solitudini sospese si incrociano dentro una commedia vaga e garbata conficcata nei molti cuori (etnici) di New York. Ventotto anni dopo Hannah e le sue sorelle spetta a John Turturro dirigere Woody Allen, che nella finzione lo inventa gigolò. Apprendista gigolò, perché il suo protagonista impara sul campo il 'mestiere più vecchio del mondo', per cui dimostra una straordinaria disposizione, valorizzando donne a cui qualcuno ha smesso di prestare attenzione. Fioravante, riservato e cortese tuttofare di origine italiana, parla poco e osserva molto catturando il nostro sguardo e quello delle sue signore, che avvicina con movimenti morbidi come pennellate.
Avvolgente e ipnotico, Gigolò per caso è una radiografia ravvicinata di una solitudine gravosa, interrotta dal delicato movimento romantico del Fioravante di Turturro, che pratica l'amore ai tempi della crisi, diluita in qualche bicchiere e in amplessi retribuiti. Amore che non significa stare insieme ma uno accanto all'altro, amore che osserva la bellezza irraggiungibile delle donne, quelle che il protagonista desidera, ama e lascia (andare) nel corso della sua vocazione. Un campionario femminile di rilievo, erotizzato da Sharon Stone e Sofía Vergara, 'incapricciato' da Vanessa Paradis e familiarizzato da Aida Turturro, in cui si inserisce senza deprezzarle l'attore autore, che lascia salire la temperatura emotiva della storia fino a concentrarsi ancora e sempre sul territorio dei sentimenti. Perché Fioravante alla fine cede alla tentazione di rompere il cerchio dell'isolamento, di far scorrere ancora la vita, di intrecciare una relazione, solo verbale, solo di sguardi, con la vedova ortodossa di Vanessa Paradis.
Non è un amore, è solo la promessa di un amore possibile ma sufficiente a scatenare un terremoto emozionale nell'ordinaria routine del protagonista, affiancato dal lenone di Woody Allen. E al 'venerabile maestro' Turturro non chiede di risplendere per le opere passate ma per la capacità di essere attore del presente, accordando le loro poetiche con parole, note e notazioni antropologiche. Come i suoi personaggi, il Murray di Allen cerca una soluzione alla propria crisi d'identità, lanciandosi (conto terzi) in un'avventura sessuale, sfuggendo alla propria ebraicità ma finendo giudicato da un tribunale chassidico e intrappolato in una concezione del mondo profondamente ebraica. Se per Allen la relazione sentimentale rappresenta la soluzione, per Turturro la soluzione elaborata è un congedo di irripetibile delicatezza.
Così in Gigolò per caso niente davvero accade perché il regista sa non farlo accadere nello stile stranito e lievemente livido che segna le migliori commedie sentimentali americane degli ultimi dieci anni. Lavorando sul filo dell'understatement solenne, John Turturro è la garanzia emotiva di un impalpabile romance, che sfuma le cigarettes, 'suona' la canzone popolare, consuma l'offerta di corpi, promesse e misteri. La ragione d'essere sono invece le protagoniste femminili che nei dialoghi con lui ricevono il doppio di tempo e di spazio. Perché a Fioravante, sovente in silenzio, spetta il compito equilibratore del testimone.

 

 

 

Departures
 

Dopo lo scioglimento dell'orchestra, il violoncellista Daigo (Motoki Masahiro) rimane senza lavoro e decide di ritornare al paese d'origine. Assieme alla moglie Mika (Hirosue Ryoko), docile e mansueta come poche, si trasferisce nella sua vecchia casa in campagna alle porte di Yamagata. Qui comincia a cercare lavoro e si imbatte in un annuncio interessante, raggiunge l'agenzia e scopre che i viaggi dell'inserzione non sono vacanze alle Maldive ma dipartite nel mondo dell'aldilà. Titubante all'inizio, si lascia convincere dagli insegnamenti del capo, il becchino Sasaki (Yamazaki Tsutomu), e ritrova il sorriso perso da tempo. Quando la moglie scopre l'identità del suo nuovo mestiere, scappa di casa e lo abbandona solo in paese, dove in molti cominciano a snobbarlo. Ma il destino sta nuovamente per sorprenderlo, costringendolo a fare i conti con il passato, la morte della madre e l'allontanamento precoce del padre, fuggito chissà dove e mai più rivisto.
Il rito della deposizione - la cura del nokanshi - è una tradizione giapponese, un modo prezioso per dare l'estremo saluto alla persona deceduta: la pulizia del corpo, il trucco sul viso e la vestizione sono le ultime simboliche carezze fatte alla persona cara, prima di lasciarla andar via per sempre. Quando Daigo legge l'annuncio sul giornale, viene sedotto dalla parola 'partenze' e crede di candidarsi per un lavoro in un'agenzia di viaggi. In quel gioco equivoco di significati metaforici è racchiuso il segreto del film: la morte è un commiato, più che un semplice passaggio in un mondo altro e sconosciuto. In questo senso, il rito di nokanshi rappresenta la necessità di prepararsi alla dipartita, creando una liturgia laica, utile soprattutto a chi rimane, per impossessarsi dell'ultima delicata riconciliazione con il defunto. I vecchi rancori vengono messi da parte e la voglia di pace trova il giusto spazio e il modo per esprimersi. Il laconico capo Sasaki, interpretato con grande intensità dal raffinato attore Yamazaki Tsutomu, già alle prese con la celebrazione delle esequie in The Funeral di Juzo Itami, scardina la qualificazione macabra e tetra che solitamente accompagna il mestiere di becchino per sostituirla con una cerimonia rispettosa che, in composto e discreto silenzio, dice molto più di lunghe prediche sacerdotali.
Il rapporto con un padre assente, l'amore incondizionato per la figura materna e la difesa del valore poetico della vita sono i temi che ritmano il raggiungimento della maturità di Daigo. Il protagonista conosce così i suoi limiti, accetta di non essere un musicista talentuoso, abbandona le vecchie abitudini e scopre un'incredibile vocazione per l'arte della sepoltura. La sua rinascita spirituale supera le convenzioni sociali, e lo mette di fronte alla drammaticità della morte, in un equilibrio di tragedia compassionevole e umorismo grottesco. L'espressività del volto di Daigo, arrabbiato, sereno, disgustato e perplesso, racconta allo spettatore le fasi di accettazione della fine, intesa come corrispondenza di arrivo e partenza.
Malgrado poi la sceneggiatura scelga di sottolineare i passaggi con simbolismi semplici, un po' troppo esplicativi e chiarificatori, come la pietra regalata dal genitore che ritorna puntualmente ad ogni risoluzione di conflitti (tra padre e figlio, tra moglie e marito), il film ci accompagna per mano in un viaggio fatto di dignità e rispetto. Senza virtuosismi di macchina o eccessi estetizzanti, ci lascia, alla fine, con una conquista in più, raccontandoci emozioni e sentimenti a misura d'uomo.

 

  Locandina Mister Morgan Matthew Morgan è americano e vive a Parigi come il protagonista del celebre film. Tre anni prima ha perso la moglie e da allora si trascina per la città e nella vita, aspettando soltanto il momento giusto per farla finita. Cocciuto e refrattario al prossimo quanto alla lingua francese, Matthew incontra Pauline Laubie, giovane insegnante di cha cha cha orfana di padre. La distanza anagrafica viene riempita molto presto da un affetto sincero, lunghe promenade, pranzi in panchina e cene solenni, in cui Matthew e Pauline aprono i loro cuori e confrontano le rispettive paure. Ma a Pauline non riesce il miracolo di 'trattenere' Matthew, che sprofondato dal dolore cerca riparo nella morte. Sopravvissuto ai sonniferi e al tentativo di suicidio, l'uomo riceve in ospedale la visita dei figli, Karen e Miles, che equivocano la relazione tra il padre e Pauline. Anni di silenzi, rancori e recriminazioni sembrano aver congelato per sempre il cuore di Matthew e quello dei suoi figli.
A volte una buona storia, una bella città e dei bei personaggi non sono sufficienti a fare un film di successo. Mister Morgan si iscrive nell'ordine e spreca il romanzo di Françoise Dornier, "La douceur assassine", preferendo uno sguardo straniero, accomodato sui cliché. Commedia umana e dramma familiare con vista sulla Tour Eiffel, Mister Morgan osserva il procedere affettivo tra un anziano professore in impasse e la sua musa ballerina. Sandra Nettelbeck, regista tedesca di Ricette d'amore, versione originale del più celebre Sapori e dissapori, mette mano al romanzo da invasore e ne realizza una versione esotica che trasforma un vecchio professore parigino in un americano ordinario e una vendeuse in un'insegnante di cha cha cha, che si sogna danseuse classique e ignora sorprendentemente chi sia Rudolf Nureyev. Le parigine lo sanno già in età prescolare ma sorvoliamo clementi.
Confermati, nel romanzo come nel film, sono gli anni che separano Matthew e Pauline e la solitudine che condividono. Chiuso in una bolla di narcisismo personale e culturale l'uno e piena di una fiducia naïve e senza increspature l'altra, diventa impossibile 'resistersi' e resistere alla tentazione di colmare il vuoto, avviando una relazione inedita (e illibata) che costruisce il film come una beffa. Perché la Nettelbeck si abbandona al sentimentalismo e abbandona a metà il tema della senectutem e lo spazio di libertà che si sono conquistati quelli che come Mister Morgan non hanno più niente da cambiare e vorrebbero solo arrendersi con onestà e con stile. Così Mister Morgan naviga a vista, senza disciplina, senza direzione e senza il controllo emotivo dei dialoghi, dei personaggi, dello spazio. Lungo la strada si sovraccarica di una figlia shopaholic, un figlio scontroso e una liaison sentimentale, che ingolfano il motore fino a spegnerlo.
Nella commedia pesante o nel dramma leggero della regista tedesca non c'è una sola battuta in grado di raccontare i personaggi, di drammatizzare due anime fragili in equilibrio sul ciglio del proprio tempo e della propria età. Meglio ripiegare su Paris, la Tour Eiffel, le vin rouge, la baguette e a un abusato verso di Leonard Cohen, dopo il quale la noia ha davvero il sopravvento. A guardarsi intorno senza trovare alcunché di interessante, tranne l'uno per l'altra, sono Michael Caine e Clémence Poésy stonati sopra una panchina e davanti a un immangiabile hot dog.

 

 

  Locandina I Origins

Titolo originale:  I Origins
Nazione:  U.S.A.
Anno:  2014
Genere:  Drammatico
Durata:  113'
Regia:  Mike Cahill
Sito ufficiale:  www.ioriginsmovie.com
 
Cast:  Michael Pitt, Steven Yeun, Astrid Berges-Frisbey, Brit Marling, Dorien Makhloghi, Charles W. Gray, John Schiumo, Farasha Baylock
Produzione:  Verisimilitude, WeWork Studios
Distribuzione:  20th Century Fox
Data di uscita:  2014 (cinema)

I Origins, racconta la storia del dottor Ian Gray (Michael Pitt), un biologo molecolare che studia l'evoluzione dell'occhio. Durante una festa conosce una giovane donna esotica (Astrid Bergès-Frisbey), un incontro breve, ma qualcosa dei suoi occhi lo colpisce... La sua ricerca continua e, anni dopo, con la sua assistente di laboratorio Karen (Brit Marling), fanno una sorprendente scoperta scientifica che ha implicazioni di vasta portata e mette in discussione le sue convinzioni scientifiche e spirituali. Per convalidare la sua teoria, dovrà rischiare il tutto per tutto e fare un viaggio dall'altra parte dell'emisfero... in India dove troverà i suoi occhi in una timida bambina.

 

 "Two Lovers", di James Gray, con Gwyneth Paltrow, Joaquin Phoenix, Vinessa Shaw, Isabella Rossellini, Elias Koteas, Moni Moshonov, John Ortiz, Bob Ari, Julie Budd, USA 2008.
twoloversBrighton Beach, Brooklyn. Leonard, un uomo attraente quanto dal carattere complesso, torna alla casa che gli ha dato i natali dopo aver tentato il suicidio. Mentre si trova sotto lo stesso tetto degli accoglienti genitori, i quali lo aiutano con amore ma faticano a comprenderlo, Leonard conosce due donne in breve tempo. Una è Michelle, una vicina di casa tanto bella quanto misteriosa, la quale cela a sua volta problemi profondi. Ma i genitori cercano di spingere Leonard ad avere una relazione con Sandra, la figlia dell'acquirente della tintoria di famiglia. Inizialmente sulla difensiva, Leonardo scopre in lei una profondità inattesa. Ma la possibile relazione con Sandra finisce per essere ostacolata da Michelle che gli chiede aiuto per risolvere una relazione negativa che la vede legata a un altro uomo. Ora così Michelle sembra essere attratta da Leonard il quale si trova tra due fuochi con il non improbabile rischio di riprecipitare in quello stato d'animo che lo aveva portato a tentare di togliersi la vita.
James Gray segna con Two Lovers un'importante svolta nella sua carriera. Abbandonati (temporaneamente?) i 'romanzi criminali' come Little Odessa, The Yards e I padroni della notte prende ispirazione da un racconto di Dostoevskij "Le notti bianche", per descrivere le dinamiche di un sentimento sempre più difficile da portare sullo schermo perché ormai letto e riletto apparentemente in tutti i modi. Riesce a farlo dimostrando grande sensibilità grazie a una sceneggiatura, scritta con Richard Menello, che analizza con aderenza al reale, le dinamiche amorose. Dopo tanti amori patinati il cinema americano torna a proporci un amore vero. Speriamo che ne arrivino altri.
 

 

"Ti amerò sempre - Il y a longtemps que je t'aime", Philippe Claudel, con: Kristin Scott Thomas, Elsa Zylberstein, Serge Hazanavicius, Frédéric Pierrot, Laurent Grévill, Lise Ségur, Mouss Zouheyri, Souad Mouchrik, Claire Johnston, Olivier Cruveiller, Lily-Rose, Catherine Hosmalin, Jean-Claude Arnaud; Francia, 2008.
tiamersempreSono 15 anni che Juliette non ha alcun contatto con la sua famiglia che l'ha ripudiata dopo la condanna per omicidio. Uscita finalmente di prigione viene ospitata dalla sorella minore Léa che vive a Nancy con il marito, le due bambine adottive e il suocero malato, e con la quale Juliette ha sempre avuto un rapporto molto bello. Il ritorno alla vita però non è facile, tutti le fanno domande sul suo passato e tentano di capire il perché di quel gesto orribile, ma Juliette ha costruito un muro troppo alto intorno a sé e niente sembra più scalfirla. L'affetto di sua sorella e delle sue nipotine la riporterà lentamente a contatto con la realtà e con un mondo che per troppo tempo è andato avanti benissimo anche senza di lei. Il dilemma rimane, come può una donna così dolce e premurosa aver commesso un reato così orribile? Philippe Claudel, uno dei più celebri e apprezzati scrittori francesi contemporanei, grande appassionato di pittura e di cinema, fa il suo esordio dietro la macchina da presa presentando il suo primo film in concorso alla 58ma Berlinale. Ti amerò sempre è una storia di donne, sulle donne, sulla loro forza interiore, sulla loro capacità di ricostruirsi e di rinascere anche dopo eventi tragici come quello che accade alla protagonista del film, interpretato da un'efficace Christine Scott-Thomas. Claudel segue giorno dopo giorno il processo di ritorno alla normalità di una donna quasi aliena, che apprende con indifferenza della morte del padre e dell'Alzheimer in stadio avanzato della madre e, quel che è peggio, non sembra vergognarsi affatto del crimine che ha commesso. I dialoghi sono rarefatti, i silenzi quasi necessari. Le atmosfere molto malinconiche lasciano spesso il posto a qualche perla di umorismo (la più divertente riguarda niente meno che il cinema di Rohmer) e conducono verso un finale risolutore (narrativamente un po' forzato) che fa finalmente luce sul passato della protagonista. Un buon esordio, anche frutto dell'intelligenza di Claudel, sempre equilibrato e attento a non strafare.

 

"Gran Torino", Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her, Christopher Carley, Austin Douglas Smith, Cory Hardrict, Geraldine Hughes, Brian Howe, Brian Haley, Dreama Walker, Nana Gbewonyo, John Antony, Doua Moua, Sarah Neubauer, Lee Mong Vang, USA 2008.
gran_torinoAttore protagonista e regista della pellicola, Eastwood veste i panni di un veterano della guerra di Korea che, proprio per il suo passato, ha sviluppato un carattere burbero e solitario. Dopo aver visto i suoi migliori amici morire per mano asiatica, Walt Kowalski non può fare a meno di provare uno spiccato sentimento anticoreano e ad inasprire la sua estraniazione si aggiunge il fatto che il quartiere dove vive è diventato il centro principale della comunità asiatica della sua città. Una cosa sola lo consola: la sua Ford Torino, modello classico del 1972, gelosamente custodita in garage. Walt Kowalski ha perso la moglie e la presenza dei figli con le relative famiglie, al funerale non gli è di alcun conforto. Così come non gli è gradita l'insistenza con cui il giovane parroco cerca di convincerlo a confessarsi. Walt è un veterano della guerra in Corea e non sopporta di avere, nell'abitazione a fianco, una famiglia di asiatici di etnia Hmong. Le uniche sue passioni, oltre alla birra, sono il suo cane e un'auto modello Gran Torino che viene sottoposta a continua manutenzione. La sua vita cambia il giorno in cui il giovane vicino Thao, spinto dalla gang capeggiata dal cugino Spider, si introduce nel suo garage avendo come mira l'auto. Walt lo fa fuggire ma di lì a poco tempo assisterà a una violenta irruzione dei membri della gang con inatteso sconfinamento nella sua proprietà. In quell'occasione sottrarrà Thao alla violenza del branco ottenendo la riconoscenza della sua famiglia.
Clint Eastwood non smette mai di stupirci. Dopo averci narrato di Iwo Jima vista dai due fronti e di un'altra intrusione dello Stato nella vita degli individui (Changeling) ci immerge ora nel privato di un uomo che ha fatto dell'astio nei confronti dei diversi da sé (siano essi asiatici, neri o più semplicemente giovani) la sua ragione di vita. Si è murato vivo nella sua casa e la prima pietra dell'edificio è stata collocata a metà del secolo scorso quando ha conosciuto la violenza e la morte in Corea. Il suo personaggio si chiama (e lo ribadisce al fine di evitare appellativi troppo confidenziali) Kowalski.
Eastwood ha una cultura cinematografica così vasta da non poter aver scelto a caso questo cognome. Stanley Kowalski era il brutale protagonista di Un tram che si chiama desiderio da Tennessee Williams interpretato da un Marlon Brando al suo top. Anche Walt è brutale, in maniera così rozza che nessuno fa quasi più caso alle sue offese di stampo razzista. È come se, ormai anziano, il mondo attorno a lui gli facesse percepire la sua inutilità anche da quel punto di vista. Il suo andare sopra le righe ad ogni minima occasione lo apparenta con l'altrettanto anziana vicina di casa asiatica che sa solo inveire e lamentarsi sul portico di casa.
Saranno però i giovani 'diversi' (Thao e sua sorella Sue) ad aprire una breccia nelle sue difese. Hanno l'età dei detestati nipoti ma, a differenza di loro, hanno saputo conservare dei valori che l'Occidente non si è limitato a dimenticare ma ha addirittura rovesciato. Una parte della critica americana ha deriso il 'buonismo' di questo film e chi non lo ha attaccato si è spesso trincerato dietro la fredda analisi che vorrebbe trovare in Kowalski una sintesi dei personaggi interpretati nella sua lunga carriera dall'attore. Può anche essere ma Eastwood non è un regista che assembla ruoli per cinefilia compiaciuta o per autoesaltazione.
Walt è un personaggio sicuramente nella linea di quelli da lui già portati sullo schermo ma è molto più complesso di quanto non possa apparire a prima vista. Il suo rapporto con l'auto e con le armi (straordinario e determinante il segno di pollice e indice a indicare la pistola come nei giochi dei bambini) ma anche quello con l'unico essere umano che si potrebbe definire suo amico (il barbiere) sono solo alcuni degli elementi che, insieme all'insorgere della malattia, costituiscono il mosaico della personalità di un protagonista non facile da dimenticare. 


 

"Sette anime - SEVEN POUNDS", Gabriele Muccino, Will Smith, Woody Harrelson, Rosario Dawson, Bill Smitrovich, Barry Pepper, Michael Ealy, Nadia Shazana, USA 2008.
Sito web:
http://www.setteanime.it/
setteanimeBen Thomas è un giovane uomo che ha commesso un tragico errore. Ossessionato dalla sua colpa è deciso a redimersi risanando la vita di sette persone meritevoli. Osservate e individuate le sette anime, Ben si prende amorevolmente cura di loro, donandogli una parte di sé e una seconda possibilità. Sarà però la bella Emily Posa, colpita al cuore da Ben e da (gravi) scompensi cardiaci, a innamorarlo e a distrarlo dal suo disegno originale. A Ben non resterà che decidere se tornare a vivere o lasciare vivere.
Il titolo italiano, al solito, non "traduce" il senso del secondo film americano di Gabriele Muccino, sostituendo sette pounds (sette libbre) con sette anime e spostando in questo modo l'attenzione dello spettatore dal debitore ai creditori. Di carne, o meglio di libbre di carne, parla invece il titolo originale e aderente alla storia raccontata, riferendosi al pound of flesh (una libbra di carne umana) che "il mercante di Venezia" shakespeariano chiedeva ad Antonio per estinguere il suo debito. Dopo aver affrontato con La ricerca della felicità il dramma a sfondo sociale e a lieto fine, Gabriele Muccino gira un film sulla "donazione" che ha fatto molto discutere in America e altrettanto farà discutere nella cattolicissima Italia. Riconfermato come attore protagonista, Will Smith sembra idealmente restituire, o meglio, ridistribuire un po' della happiness inseguita con tanto accanimento e dopo tante (rin)corse nel precedente film mucciniano. Dopo la redenzione economica del broker Chris Gardner, che intendeva la felicità come ricchezza, il Ben Thomas (sempre di Smith) ricerca una redenzione spirituale che metta a tacere il dolore provocato e il rimorso patito. La supposta distanza, che un regista non americano avrebbe dovuto e potuto garantire rispetto ai meccanismi e alle modalità narrative hollywoodiane, non è in questa seconda esperienza evidente come fu per La ricerca della felicità.
Sette anime è decisamente un film americano che si regge sull'interpretazione degli attori e poco o niente dice dell' "anima" italica che lo ha diretto. Qualche perplessità la solleva pure l'interpretazione non risolta di Will Smith, che rinchiude un dolore cupo e profondo dentro un corpo da supereroe mai tragico, mai corrotto o compromesso dai conflitti inconciliabili del suo protagonista. Se tutto può l'amore, fornendo in qualche modo la chiave morale del film, poco o nulla può contro il ridicolo distribuito a piene mani sull'epilogo, attraversato da affannose corse, frequentato da meduse letali, martellato da un cuore donato e osservato da occhi neri che tornano a guardare. Il tono e il sapore del dramma incombente e inevitabile viene allora travolto da invenzioni maldestre, che precipitano quel poco di intimo che il film era riuscito a costruire, mancando l'abbraccio fatale con il destino inevitabile, bruciando il calore di ciò che è insondabile.

 

 

"Due partite", Enzo Monteleone,  Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi, Paola Cortellesi, Carolina Crescentini, Valeria Milillo, Claudia Pandolfi, Alba Rohrwacher, Italia 2009.
due_partiteUna commedia dolce amara sul mondo femminile. Due epoche, due modi di essere donne.
Anni Sessanta: una partita a carte per stare insieme. Ogni giovedi' pomeriggio quattro amiche si raccontano amori e tradimenti, teorizzando la maternita', la vita e i problemi del matrimonio. Litigano, ridono, parlano con complicita' e un po' di cinismo.
Trent'anni dopo: le figlie si ritrovano al funerale di una delle madri. Sono le stesse bambine che, durante le partite a carte, giocavano nella stanza vicino. Come le loro madri, si confidano sogni e paure, il tempo che passa, il rapporto con il lavoro, il desiderio di maternita'. Sono passati decenni ma l'identita' femminile sembra inalterata, nonostante la carriera e l'emancipazione; essere donna significa oggi come allora energia, allegria, fatica e dolore.

Sito Web: http://www.yahoo.it/duepartite


Tratto dal libro:
Due Partite di Cristina Comencini
anno di pubblicazione: 2006
editore: Feltrinelli

 Anni Sessanta, quattro donne giocano a carte in una casa. Ogni giovedì, da molti anni, si riuniscono per fare una partita, chiacchierare, passare il pomeriggio. Portano con sé le loro bambine che giocano nella stanza accanto. Nessuna di loro lavora, fanno le madri, le mogli, si conoscono da molto tempo. Una di loro è incinta del primo bambino. Durante il primo atto della commedia vediamo intrecciarsi le loro storie tra comicità ed emozioni, il tutto scandito dai primi dolori della partoriente: il tema più forte è quello della maternità, dei vari modi d'intenderla. E la fine del primo si chiude con una nascita: il palcoscenico deserto, le carte abbandonate sul tavolo verde, le voci trafelate delle donne fuoriscena. Secondo atto oggi, quattro donne s'incontrano in un'altra casa, sono vestite di scuro. Si sono riunite dopo il funerale di una delle loro madri che si è suicidata. Capiamo che sono quelle bambine che nel primo atto giocavano nella stanza accanto. A poco a poco le colleghiamo una dopo l'altra alle madri. Qualche volta per rassomiglianza, qualche volta per assoluto contrasto. Due epoche, due modi di essere donne. Sono più felici queste donne, più realizzate? A tratti pare essersi spezzata una catena, meglio o peggio, chi lo sa? Inevitabile. Ma l'identità stessa femminile sembra a tutte loro qualcosa di indefinibile e perciò perennemente a rischio, oggi come ieri. Una specie di energia, di follia che non vuole farsi disarmare, che risorge sempre dalla morte per dare la vita.

Note:
Il film trae spunto dall'omonimo spettacolo teatrale scritto e diretto da Cristina Comenicini in cui si confronta il mondo femminile di oggi con quello degli Anni 60.  
 

 

"Giulia non esce la sera", Giuseppe Piccioni, con Valerio Mastandrea, Valeria Golino, Sonia Bergamasco, Antonia Liskova, Piera Degli Esposti, Sara Tosti, Chiara Nicola, Sasa Vulicevic, Lidia Vitale, Paolo Sassanelli, Fabio Camilli, Italia 2009.
giulia_nonGuido è uno scrittore di successo, con il suo ultimo libro è entrato nella cinquina dei finalisti di un prestigioso premio letterario. Mentre è alle prese con gli impegni che la candidatura del suo romanzo comporta, inizia a frequentare una piscina e decide di imparare a nuotare, realizzando così un desiderio che coltivava da tempo. Lì incontra Giulia, una donna molto affascinante, soprattutto quando è nel suo elemento: l'acqua. Tra Guido e Giulia nasce una relazione che da subito però rivela delle zone d'ombra. Perché Giulia nasconde un segreto, e un passato misterioso. giulia-small
Giuseppe Piccioni cerca sempre nelle storie e personaggi il proprio modo di essere. Da autore alla maniera della nouvelle vague usa il cinema come un diario intimo, scava nei sentimenti e nelle relazioni interpersonali, e "l´inattualità" ricercata di quel che narra e mette in scena lo allontana (è quello che vuole, ma non è mai sicurissimo di volerlo veramente) dai riflettori puntati sui cosiddetti temi forti. Qui lo scrittore Guido Montani di Valerio Mastandrea si trova a un passo dal vincere un ambito premio letterario che gli viene soffiato da un giovanotto rampante e forse mediocre: ne soffre o si piace così, "diverso" e "fuori dai giochi"? Comunque l´autore gli fa preferire dell´altro: l´incontro, complice l´atmosfera sospesa e separata da tutto di una piscina, con un´enigmatica Valeria Golino, Giulia che non può uscire la sera perché è stata condannata per l´omicidio dell´amante che voleva lasciarla dopo che per lui aveva bruciata la propria vita. La rarefazione del racconto è esaltata dagli inserti (troppi?) che materializzano quanto Guido sta cercando di scrivere per un nuovo libro: amori surreali e infelici. Piccole perle di umorismo malinconico: il fidanzatino della figlia che gli traduce le strazianti melodie di Richard Anthony. Aperto, come tutti i film di Piccioni.

 

"Il Dubbio Doubt", John Patrick Shanley, con  Meryl Streep, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Viola Davis, Lloyd Clay Brown, Joseph Foster, Bridget Megan Clark, Lydia Jordan, Paulie Litt, Matthew Bradley Marvin, Evan Lewis, USA 2008.
doubtE’ il 1964, a St. Nicholas nel Bronx. Un deciso e carismatico prete, Padre Flynn (Philip Seymour Hoffman), sta cercando di allentare i rigidi costumi della scuola, che vengono custoditi gelosamente da Sorella Aloysius Beauvier (Meryl Streep), la Preside con il pugno di ferro che crede nel potere della paura e della disciplina. I venti del cambiamento politico stanno soffiando all’interno della comunità e in effetti la scuola ha accettato il suo primo studente di colore, Donald Miller. Ma quando Sorella James (Amy Adams), un’innocente piena di speranza, condivide con Sorella Aloysius il suo sospetto che Padre Flynn stia prestando troppa attenzione a Donald, Sorella Aloysius è felice di iniziare una crociata sia per svelare la verità che allontanare Flynn dalla scuola. Ora, senza uno straccio di prova se non la sua sicurezza morale, Sorella Aloysius lancia una battaglia contro Padre Flynn, uno scontro che minaccia di sconvolgere la chiesa e la scuola con conseguenze devastanti. 

 

"Noi due sconosciuti" è un film di Susanne Bier del 2007, con Halle Berry, Benicio Del Toro, David Duchovny, Alexis Llewellyn, Micah Berry, John Carroll Lynch, Alison Lohman, Robin Weigert, Omar Benson Miller, Paula Newsome. Prodotto in Gran Bretagna, USA 2008.
locandina_noi_due_sconosciuIl film racconta l'incontro tra due solitudini: un uomo e una donna che si fanno coraggio a vicenda in un momento molto difficile per entrambi. Lei, Audrey, ha appena perso in maniera tragica e assurda il marito e deve crescere da sola due figli piccoli. Lui, Jerry, era il migliore amico di suo marito, che continuava a frequentarlo, sebbene fosse ormai da tempo diventato – da brillante avvocato che era – un eroinomane (e Audrey mal sopportava questa amicizia). Il ricordo del defunto adesso però li unisce ed è così che Audrey decide di ospitare Jerry in casa sua aiutandolo a disintossicarsi. Nello stesso tempo lui farà sì che la donna e i suoi figli, i quali lo vivono come un sostituto del padre, elaborino meno traumaticamente il lutto. Ma la regista è realista: non fa nascere una storia d'amore tra i due e soprattutto non regala un lieto fine scontato.

Probabilmente si tratta di un'opera su commissione, ma di quelle che i bravi registi riescono a trasformare, se non in un lavoro interamente personale, almeno in un prodotto di valore, in cui è riconoscibile il loro tocco. Alla sua prima regia statunitense, Susanne Bier, l'autrice danese di «Dopo il matrimonio», non delude le attese firmando con «Noi due sconosciuti» un intenso dramma familiare, impreziosito da due prove strepitose di Halle Berry (finalmente alle prese, dopo una serie di parti sbagliate, con un ruolo all'altezza di quello di «Monster's Ball», che le ha fruttato l'Oscar nel 2002) e di Benicio Del Toro (la cui versatilità non finisce mai di sorprendere).
La trama non inganni. Non c'è niente di melenso in questo dramma sulla perdita e sul superamento del dolore. Da regista nordica, Susanne Bier lascia che a parlare siano anche i silenzi in questo suo primo film hollywoodiano. Insiste sui primi piani e sui dettagli (tipici del suo stile) e, anche se trasmette un senso di autenticità e di verità, cerca il più possibile di asciugare una materia ad alto tasso emotivo evitando gli stereotipi. Insomma, non seguirà più alla lettera i dettami di Dogma (pur continuando a girare con la macchina a mano), ma con profondità di sguardo sa sfuggire alle trappole di quella che in altre mani sarebbe potuta diventare una pellicola patinata. Qualche concessione a Hollywood si ravvisa solamente in una o due scene madri, che però non infastidiscono, bensì valorizzano ulteriormente i due protagonisti (entrambi al massimo delle loro possibilità). Come spesso accade, il titolo italiano, oltremodo generico, non ha la bellezza di quello originale, dove si allude agli oggetti persi in un incendio, metafora della necessità di non rimanere troppo ancorati ai ricordi, se si vuole tornare a vivere dopo un lutto, un dispiacere o un dolore.
Sconvolta dall’improvvisa morte del marito, Audrey invita il migliore amico di lui, un avvocato finito nella spirale della droga, a trasferirsi a casa sua. L’uomo comincerà a ricostruire la propria vita aiutando la vedova e i suoi figli a superare il dolore della perdita.
Audrey (Halle Berry) è felicemente sposata con Brian (David Duchovny), ha due bambini e conduce una vita agiata e tranquilla. A sconvolgere tutto arriva una tragica fatalità: mentre cerca di sedare un litigio per la strada, Brian rimane ucciso da un colpo di pistola. Durante il funerale, Audrey incontra dopo tanto tempo Jerry (Benicio Del Toro), vecchio amico del marito costretto a una vita ai margini, ma al quale Brian non aveva mai smesso di offrire il suo aiuto. Jerry non è mai stato ben visto da Audrey, ma l’occasione sembra finalmente promettere una riconciliazione. Sola in una grande casa, con due figli da accudire, Audrey decide di ospitare Jerry, promettendo vitto e alloggio in cambio di piccoli lavori domestici. Il rapporto tra i due migliora di giorno in giorno, tanto più che Jerry stabilisce da subito un forte legame con i bambini e appare intenzionato a rimettersi in sesto e a trovare un buon lavoro. 

 

"Nelle tue mani", di Peter Del monte, con Kasia Smutniak (bellissima e bravissima), Marco Foschi, Severino Saltarelli, Luciano Bartoli, Simona Caramelli, Alberto Cracco, Gaetano Carotenuto, Alba Rohrwacher, Carolina Levi, 2008.
nelletuemaniTeo, brillante studente di astrofisica, viene investito dall'auto guidata da Mavi, una ragazza di Spalato che, insieme al padre, vive da diversi anni in Italia. Dopo aver prestato soccorso e donato il sangue a Teo, Mavi sparisce nel nulla, ma qualche anno dopo i due si ritrovano e ben presto si innamorano l'uno dell'altra. La loro vita insieme scorre felice, si sposano, hanno una figlia, Caterina, ma quando Teo trova un nuovo lavoro che lo porta spesso in viaggio, tra lui e Mavi, che inizia a dare segni di squilibrio, sorgono una serie di problemi che sfociano in liti furibonde. Teo decide di trasferirsi a casa dei genitori insieme alla figlia, e, con il passare del tempo, grazie ad un nuovo impiego, Mavi appare ristabilita e la famiglia sembra trovare un nuovo equilibrio. L'illusione della tranquillità è però di breve durata poiché Mavi, che in realtà non ha mai superato i fantasmi del suo passato (nei quali si intravede l'attenzione morbosa subita fin dalla tenera età dal padre pedofilo), è ancora una volta vittima della sua instabilità emotiva.
Teo, brillante studente di astrofisica, divide un appartamento con la compagna Carla, anche lei studentessa. Una sera, mentre attraversa distrattamente la strada, viene investito da Mavi, una ragazza originaria di Spalato che, insieme al padre, vive da diversi anni in Italia. Dopo aver prestato soccorso e donato il sangue a Teo, Mavi sparisce nel nulla, ma qualche anno dopo i due si ritrovano, e ben presto si innamorano l'uno dell'altra. La loro vita insieme scorre felice, ma quando Teo trova un impiego che lo costringe a viaggiare, tra lui e la ragazza, che inizia a dare segni di squilibrio, sorgono una serie di problemi culminanti in litigi sempre più violenti. Teo decide di trasferirsi a casa dei genitori insieme alla figlia Caterina, avuta con lei, e da allora le loro strade si dividono. Mavi intanto sembra lentamente ristabilirsi e riesce a ottenere l'affidamento congiunto della bambina, ma l'equilibrio ritrovato, tuttavia, è solo un'illusione: la ragazza cade nuovamente in preda alla propria instabilità emotiva, aggravata dall'ambiguo rapporto con suo padre, da cui sembra trapelare un passato traumatico…
Peter Del Monte, che con i suoi precedenti film - La ballata dei lavavetri (1998), e Controvento (2000) - si era confermato come uno dei cineasti più originali e anticonformisti del panorama italiano, sembra volerci dire qui che è finito il periodo in cui porre la famiglia tradizionale su un piedistallo, perché l'uomo e la donna devono essere guardati così come sono, nella loro natura, senza implicazioni morali o sociali: l'uno con le sue fragilità e insicurezze e l'altra come un misto di luce e tenebre. Nei rapporti che si determinano tra questi due diversi lati del cosmo non c'è mai nulla di definitivo; l'impatto può essere a volte doloroso, problematico, e risolversi in un senso di indefinito e di non perfettamente espresso. 

 

"Solo un padre", Luca Lucini, con Luca Argentero, Diane Fleri, Fabio Troiano, Claudia Pandolfi, Italia 2008.
solo_un_padreLa vita di Carlo (Luca Argentero), dermatologo trentenne, è sempre stata perfetta: genitori premurosi, una carriera avviata, buoni amici. Un’esistenza “regolare” la sua, quasi ovattata, con poco spazio per i sentimenti. Ma un evento improvviso la sconvolgerà e Carlo si troverà solo ad accudire sua figlia Sofia, una bimba di dieci mesi capace di assorbire tutte le sue energie fisiche e mentali e di far vacillare ogni sua certezza. Per questo ragazzo padre – inesperto e apprensivo – non sembra esserci spazio per nient’altro. Almeno fino a quando non incontrerà Camille (Diane Fleri), una giovane ricercatrice francese. Di fronte alla sua solarità e ai suoi modi appassionati e incerti, Carlo si sentirà rinascere. E, a poco a poco, comincerà anche a capire il senso profondo dell’essere padre.  

 

"Si può fare", Giulio Manfredonia, con Fabio Bonifacci, Claudio Bisio, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Italia 2008. Sito: http://sipuofarefilm.it/
sipufareposterIspirato a una storia vera, Si può fare è diretto da Giulio Manfredonia, autore, insieme a Fabio Bonifacci, della sceneggiatura e vede nel cast anche Bebo Storti e Anita Caprioli. La pellicola, prodotta da Rizzoli Film e distribuita da Warner Bros Pictures, sarà presentata il 30 ottobre al Festival di Roma nella sezione Fuori Concorso e uscirà in sala il 31 ottobre 2008. Milano, anni Ottanta.

Nello, sindacalista ribelle, perso il posto di lavoro, viene spedito a dirigere una cooperativa di ex pazienti di ospedali psichiatrici, dopo l'entrata in vigore della legge 180 di Basaglia. Credendo fortemente nella dignità del lavoro, Nello spinge ogni socio della cooperativa a imparare un mestiere per sottrarsi alle elemosine dell'assistenza, inventando per ciascuno un ruolo incredibilmente adatto alle sue capacità ma finendo per scontrarsi consipuo inevitabili quanto umanissime e tragicomiche contraddizioni. Spinge i “matti” a fare un mestiere vero aiutandoli a mettere in piedi un’impresa di parquet e a riappropriarsi di una dignità loro negata. Il film racconta un’Italia post legge Basaglia, in cui le malattie mentali sono ancora guardate con pregiudizio…

Un bel film dove Bisio fa una bella parte! Da vedere!

 

 

"Un segreto tra di noi. Fireflies in the Garden", di Dennis Lee, con Julia Roberts, Carrie-Ann Moss, Ryan Reynolds, Willem Dafoe, Emily Watson, Hayden Panettiere, Ioan Gruffudd, Shannon Lucio, George Newbern, Cayden Boyd, Chase Ellison, Brooklynn Proulx, Paul Smith, Peter Cornwell, Frank Ertl, Gina Garza, Spencer Greenwood, Molly McCann, Grady McCardell, Tiger Sheu, John C. Stennfeld, Scott A. Stevens, USA 2008.

unsegretotradinoiMichael ha seguito le orme di suo padre ed è diventato uno scrittore. Il suo ultimo romanzo, Fireflies in the Garden, parla della storia della sua famiglia e la sua pubblicazione rappresenterebbe per lui la vendetta umana e professionale nei confronti di un padre padrone che non gli ha mai dimostrato né affetto né stima. Per questo non ha ancora deciso se pubblicarlo o meno. Tutti stanno per riunirsi in occasione dei festeggiamenti per il diploma di sua madre, una donna forte che ha vissuto per tanti anni al fianco di un uomo autoritario ed egocentrico senza essere felice. Durante il tragitto però l'auto dei genitori incappa in un incidente e la donna muore sul colpo. Quello che doveva essere un giorno di festa si trasforma in una tragica riunione familiare e toccherà a Michael, a sua sorella e a sua zia Jane, il compito di rimettere insieme i pezzi di un passato difficile fatto di angoscia e repressione, che nessuno di loro è riuscito ancora a scrollarsi di dosso. 

 

 

"Vicky Cristina Barcelona", Woody Allen, con: Rebecca Hall (Vicky), Scarlett Johansson (Cristina), Christopher Evan Welch (Narrator), Chris Messina (Doug), Patricia Clarkson (Judy Nash), Kevin Dunn (Mark Nash), Julio Perillán (Charles), Juan Quesada (Guitarist in Barcelona), Javier Bardem (Juan Antonio), USA 2008.

vikybarcellonaQual è l'amore perfetto? Quello passionale al punto da diventare pericoloso, quello basato sulla seduzione del momento o quello abitudinario ma rassicurante? Tutti e nessuno.
Così come la passione per l'arte: sia che si manifesti come forma creativa geniale, entusiasmo volubile o interesse intellettuale. Tutti questi aspetti sono incarnati da tre donne molto diverse tra loro che si contendono l'amore di Juan Antonio (Javier Bardem), pittore spagnolo bohémien sensuale e maledetto.vicky4
Vicky (Rebecca Hall) è la classica americana con convinzioni solide e spirito pratico: sta per sposare un uomo benestante e affettuoso che le assicura un futuro agiato e senza troppe sorprese. Cristina (Scarlett Johasson) è uno spirito libero che passa da un fidanzato all'altro con la stessa disinvoltura con cui cambia occupazione: si cimenta prima con la regia, poi con la fotografia.
Le due ragazze americane vanno in vacanza a Barcellona e qui incontrano Juan Antonio: l'uomo offre loro un week-end d'arte e sesso a Oviedo, instaurando un bizzarro triangolo amoroso.
Triangolo destinato a diventare un quartetto perché sulla scena irrompe Maria Elena (Penelope Cruz), ex moglie di Juan Antonio, folle e senza regole, che porta scompiglio come un vento africano. L'equilibrio precario che si instaura tra i personaggi sembra funzionare per un po', ma con il finire dell'estate i nodi vengono al pettinviky6e e tutti dovranno affrontare le loro questioni in sospeso.
È rimasto comunque fedele alla sua musa, Scarlett Johansson, a cui ne ha affiancata una nuova, Penélope Cruz. E visto che l’ambientazione è iberica, non poteva non aggiungere alle due dive l’attore spagnolo internazionale per eccellenza, Javier Bardem.

Barcellona si presta ad essere una delle città più romantiche, di sfondo ad una storia d’amore torbida… Vicky e Cristina sono due turiste americane in terra catalana, l’una posata e stra-fidanzata, l’altra disinibita e alla ricerca di avventure che trova nell’incontro con il fascinoso pittore Juan Antonio (Bardem). L’artista è sposato, con Maria Elena (Cruz), con cui condivide un sentimento vorticoso e una passione infuocata che impedisce loro di stare insieme. Tra Juan Antonio, Cristina e Maria Elena si instaura pian piano e in maniera quasi naturale un menage à trois.Allen dirige per la terza volta la Johansson, dopo Match point e Scoop. “Ogni tanto, nella mia carriera, trovo un’attrice che mi ispira e che mi spinge a scrivere dei ruoli apposta per lei” ha detto il regista. “Scarlett è molto intelligente, sexy, dotata e versatile. Inoltre ha un eccellente senso dell’umorismo e invevicky3nta continuamente delle battute”.
Quanto alla Cruz, Allen non l’aveva mai vista recitare fino alla sua interpretazione candidata all’Oscar di Volver di Pedro Almodóvar: “Ho pensato che fosse semplicemente incredibile. Temevo di non riuscire a scritturarla per il mio film ma poi mi ha chiamato il suo agente e mi ha detto che Penelope aveva saputo che avrei girato un film in Spagna e che avrebbe desiderato tantissimo farne parte. Ed è stata la cosa più bella che potessi sentirmi dire. La mia Maria Elena è una forza della natura ed è esattamente quello che è Penélope”.
Il maestro ha parole anche per Bardem: “È l’unico attore al mondo che avrebbe potuto interpretare questo ruolo per me. Avevo bisogno di uno spagnolo che fosse sexy senza essere il tipico attore belloccio e classico, ma qualcuno di più profondo e intenso. Avevo visto i suoi film e sapevo che era un grandissimo attore. È stato elettrizzante lavorare con
lui anche perché non pensavo che sarebbe mai successo”.È il quarto set fuori dagli Stati Uniti per Woody Allen, che questa volta dopo Londra sceglie Barcellona (ma nel prossimo film, Whatever Works, lo rivedremo nella sua New York). Dopo la trilogia londinese - "Match Point", "Scoop" e "Sogni e delitti" -, Woody Allen rimane in Europa e sceglie come set l'assolata e colorata Barcellona: non più l'atmosfera cupa e riflessiva di Londra, più idonea alla tragedia metropolitana, ma ritmi gitani e vino rosso, perfetti per la spensieratezza della commedia romantica.
vicky5Questo "Vicky Cristina Barcelona" infatti sembra un capriccio del regista, come se Allen stesso avesse voluto concedersi una vacanza: ed ecco quindi una Barcellona da spot pubblicitario sullo sfondo. Allen torna a temi che in passato ha più volte affrontato con i tre film ambientati a Londra, in cui attraverso il linguaggio, per lui nuovo, del dramma, è riuscito a mettere in luce aspetti caratteristici della società attuale. vicky
Il risultato è quindi un mix tiepido di umorismo e leggerezza quasi fuori dalla realtà.
Merita una menzione speciale la strepitosa coppia Bardem-Cruz: lui, fresco di Oscar, con quel viso che sembra dipinto da El Greco, è perfetto nel ruolo dell'artista fascinoso e playboy, lei è straripante e intensa, una prima donna in piena regola. Promettente anche la fresca e sorridente Rebecca Hall. Deliziosa la canzone "Barcelona" dei Giulia y Los Tellarini, tema portante della pellicola.
Dopo il clamore per il bacio saffico tra Penelope Cruz e Scarlett Johansson, era lecito attendersi che il nuovo film di Woody Allen avesse una componente erotica. Ciò è vero solo se pensiamo che l'Eros è qualcosa di impalpabile e profondo, e non necessariamente voyeuristico.
In realtà, infatti, il film di Allen, seppur meno psicologico del solito, mette in scena l'analisi sentimentale di ben quattro personaggi, coinvolti loro malgrado in un ménage - a 'quatre' più che a 'trois' - che solo parzialmente ha a che vedere con il sesso, mentre è molto più rivolto ad indagare i complessi meccanismi mentali e comportamentali che regolano i rapporti amorosi tra gli essere umani.
'Vicky Cristina Barcelona' sono i tre elementi protagonisti della vicenda, nulla di più semplice per sintetizzarla al massimo. Vicky e Cristina, due ragazze americane, giungono a Barcellona: la prima, seria e dalla vita perfetta, deve terminare il suo master in cultura catalana, prima di sposarsi con un brillante avvocato; la seconda, invece, è una ragazza molto spigliata, disinibita e passionale, ancora in cerca del senso della propria vita.
Ad una mostra d'arte, le due incontrano per caso un uomo, l'affascinante pittore Juan Antonio, che, invaghitosi di entrambe, le invita a fare una gita con lui e, senza mezzi termini, offre loro di intavolare un menage a trois... Mentre Vicky è sdegnata per l'audace proposta, Cristina è più che lieta di accettare l'offerta, ma ancora non può sapere che cominciare un 'gioco amoroso' con Juan Antonio la porterà ben presto ad affrontare anche l'ex moglie dell'uomo, Maria Elena, straordinariamente bella ma altrettanto pazza, di cui l'uomo è ancora follemente innamorato.
Nonostante la separazione, i due ex coniugi litigano continuamente, non riescono a comunicare. Tuttavia, la presenza di Cristina, con cui Juan Antonio ha regolarmente rapporti sessuali, addolcisce il rapporto tra l'uomo e Maria Elena, tanto che alla fine la donna è costretta ad ammettere che da quando c'è la ragazza, le cose tra lei e l'ex marito sono molto migliorate.
In un film in cui la città di Barcellona viene 'pubblicizzata' attraverso le straordinarie inquadrature e la resa della sua caliente atmosfera, l'amore e la passione vengono indagati nella loro complessità, nella loro capacità di donare immensa gioia ma anche profonda amarezza.
Pertanto, il lieto fine, nel film di Allen, non è scontato. La commedia è, come sempre, brillante, e non scevra da alcune battute, ma la conclusione è agrodolce, senza guizzi eccessivamente ottimistici. D'altro canto, Woody Allen è così, come l'amore, come la vita, un po' dolce e un po' amaro, ma comunque sempre interessante. 

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Ironico, scabroso, passionale, il nuovo film di Woody Allen è un’esperienza alla scoperta del più misterioso e conosciuto dei sentimenti: l’amore. Un’indagine accurata dei moti dell’animo umano che si avvale della straordinaria espressività del cast di attori.

Woody Allen è sempre stato tanto amato e idolatrato in Europa quanto poco considerato dal pubblico americano.

Un vero e proprio paradosso per il celebre cineasta, newyorkese e vero e proprio cantore della Grande Mela, praticamente mai abbandonata fino alle esperienze londinesi e spagnole di questi ultimi anni. Venerato dalla critica europea, che l’ha ricoperto di premi, invitandolo praticamente sempre ai vari Festival nazionali, Allen ha sempre avuto enormi difficoltà a sbancare i botteghini americani, fino all’arrivo di Mezzanotte a Barcellona, che sta risollevando le sorti commerciali del regista negli States.

Candidato a 21 Oscar, 3 dei quali vinti, ai quali si vanno ad aggiungere 9 Bafta, un Orso d’Oro a Berlino, 5 David di Donatello, 2 Cèsar, un Festival di Cannes, un Leone d’Oro alla Carriera a Venezia, un Golden Globes e 4 Writers Guild of America, Woody Allen negli Usa ha incassato ’solo, 440 milioni di dollari con ben 35 film a disposizione.

A conti fatti una media per film di appena 12 milioni e mezzo di dollari, per uno dei registi più amati e celebri della storia del cinema. Ad oggi, il film di Allen che ha incassato di più negli Usa è Hannah e le sue Sorelle, con poco più di 40 milioni di dollari, seguito da Manhattan, trionfatore agli Oscar, con poco meno di 40 milioni di dollari. Da allora, era il 1986, nessun film di Woody è mai riuscito a superare i 23 milioni di dollari, incassati 3 anni da fa Match Point. Malissimo l’ultimo Cassandra’s Dream, con meno di un milione di dollari incassati, interessante Scoop, con 10 milioni di dollari, mentre deludentissimi Melinda e Melinda e Anything Else, con 4 milioni di dollari a testa. Fino all’arrivo di Mezzanotte a Barcellona, capace ad oggi d’incassare negli Usa 14 milioni di dollari in 18 giorni di programmazione. Riuscirà il film a toccare quota 20 milioni, ridando fiato alle tasche sempre mezze vuote dei produttori del buon Woody? 

 

 

"Pa-ra-da", Marco Pontecorvo, con Jalil Lespert, Evita Ciri, Gabi Rauta, Patrice Juiff, Daniele Formica, Bruno Abraham-Kremer, Robert Valeanu, Cristina Nita, Florin Precup, Andreea Perminov. Italia 2008.
parada_thumbnailMiloud è un clown di strada franco-algerino che giunge a Bucarest nel '92, tre anni dopo la fine della dittatura di Ceausescu. Nella capitale della Romania entra in contatto con i "boskettari", bambini fuggiti dagli orfanotrofi o dalla povertà di famiglie indifferenti che vivono in condizioni disperate nella rete dei canali dove passano i tubi del riscaldamento. Miloud decide di andare a stare tra di loro per conquistare la loro fiducia e fare qualcosa per quei randagi dei tombini.  

 

 

 

 

 

"Un amore senza tempo. - Evening", di Lájos Koltai, con Claire Danes, Toni Collette, Vanessa Redgrave, Patrick Wilson, Hugh Dancy, Natasha Richardson, Mamie Gummer, Eileen Atkins, Meryl Streep, Glenn Close, Ebon Moss-Bachrach, Barry Bostwick, David Furr, Sarah Viccellio, Cheryl Lynn Bowers, USA 2007.
unamoresenzatempoTratto dal pluripremiato romanzo di Susan Minot Un amore senza tempo è la storia di Ann Grant Lee che - in punto di morte, bloccata a letto da un tumore in fase terminale e sul quale la accudiscono un'infermiera e le due figlie - si trova a rivivere i momenti più importanti della propria vita in un costante intreccio di presente e passato. Tra i ricordi più intensi e salienti della sua vita, a cominciare dall'incontro con l'amore più importante, avvenuto in occasione del matrimonio della sua migliore amica, molti prima su un'isolotto del Maine. Tra sogno, ricordi e realtà, la donna fa un bilancio della sua vita… c'è Harris, amore mai dimenticato, ma delle ombre emergono e le impediscono di affrontare serenamente gli ultimi momenti... Mentre anche la figlia minore non vuole accettare la propria maternità.
La storia si dipana su due piani temporali: quello passato, con la sempre apprezzabile Claire Danes alle prese con una travagliata storia d'amore, e quello presente, che racconta la onirica agonia di Vanessa Redgrave, devastata da un tumore: amori, matrimoni, famiglie in crisi, malattie, con tutti questi elementi presenti contemporaneamente.

 

"Grace Is Gone", James C. Strouse, con John Cusack, Alessandro Nivola, Mary Kay Place, Doug Dearth, Gracie Bednarczyk, Shélan O'Keefe, Doug James, Marisa Tomei, Dana Lynne Gilhooley, Penny Slusher. USA 2007.

grace_20080804103325E' il dramma di un padre che non sa come dire alle sue figlie che la loro madre, che era un sergente dell'esercito americano impegnato in Iraq, è rimasta uccisa al fronte e non tornerà più a casa. Per trovare il coraggio, l'uomo decide di fare un viaggio con le due ragazzine verso un parco di divertimenti in Florida.
'Grace Is Gone' è un saggio sui diversi stati psicologici del lutto: lo shock immediato, il successivo rifiuto, l'impotenza nel far fronte a un evento del genere.
Trama particolareggiata: Stanley Phillips ha un lavoro e due figlie: Heidi di 12 anni e Dawn di 8. Stanley avrebbe voluto servire il suo Paese partendo per l'Iraq ma un difetto fisico glielo ha impedito. Così si occupa delle bambine mentre è sua moglie Grace ad essere impegnata sul fronte. Finché un giorno, mentre le figlie sono a scuola, arriva la notizia: Grace è stata uccisa. Stanley è sconvolto e inizialmente non sa come reagire. Poi decide di non sottoporre subito Heidi e Dawn allo choc. Le porterà in Florida a un grande Parco Giochi. Nel viaggio si fermeranno anche a far visita allo zio. Prima o poi la dolorosa verità dovrà essere partecipata ma ora è troppo presto. Stanley non ce la fa e si costringe a tenere il dolore dentro. Con immensa fatica. Nel 1987 un film di un maestro del Cinema, Francis Ford Coppola, ci costrinse a guardare il Vietnam con lo sguardo di chi credeva in quella guerra e soffriva nel vedere tanti giovani mandati allo sbaraglio. Il film era Giardini di pietra. Oggi che gli Stati Uniti si sono impantanati in un Vietnam mediorientale ci porta ad osservare il mondo con gli occhi di qualcuno che vorrebbe 'essere là'. Possiamo non essere d'accordo (come il fratello liberal) ma entrare nell'animo di chi sostiene ragioni diverse dalle nostre è spesso un esercizio proficuo. Se poi a sostenere il ruolo c'è John Cusack l'esito è assicurato. Se nel cinema bellico classico erano le mogli o le madri (perfettamente omaggiate nella breve ma ormai 'classica' sequenza di Salvate il soldato Ryan) che aprivano la porta agli ufficiali che portavano la notizia della morte del soldato, oggi la situazione può essere rovesciata. Nella sofferenza 'on the road' di un padre che non sa come dire alle proprie figlie che la madre non tornerà se non in una bara avvolta dalla bandiera (mista al senso di colpa per non essersi trovato lui al suo posto) è insita una vasta gamma di espressioni che solo un grande attore può riuscire a trovare. Cusack lo è e riesce a conferire a Stanley una grande umanità che non ne fa il fanatico guerrafondaio ma, molto più semplicemente, un uomo e un padre carico di dolore e di amore per le proprie figlie. Grace Is Gone è un piccolo film da vedere. Senza temere la commozione.

 

"Gone Baby Gone", di Ben Affleck, con Casey Affleck, Michelle Monaghan, Morgan Freeman, Ed Harris, John Ashton, Amy Ryan, Amy Madigan, Titus Welliver, USA 2007. [Uscita nelle sale venerdì 4 aprile 2008]
gone_baby_gonePatrick Kenzie è un bostoniano da sempre e questo gli ha consetito di conoscere così tante persone da fargli decidere di divenire detective privato. Nella professione è aiutato dalla sua compagna Angie Gennaro. Un giorno i due giovani investigatori si vedono contattare perché coadiuvino la polizia nelle ricerche di Amanda, una bambina di quattro anni scomparsa recentemente. Non è però la poco affidabile e tossicodipendente madre Helene a cercarli ma gli zii della bambina. Nonostante la contrarietà del capo della polizia locale Jack Doyle i due si mettono all'opera coadiuvati da due poliziotti che Doyle assegna loro come aiutanti. L'indagine non è facile anche perché finirà con il mettere in gioco delle complesse scelte morali.
Ben Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa fa subito centro con un film di genere che va oltre il genere per affrontare delicati temi legati al rapporto tra adulti e bambini. L'unica pecca del film è il titolo che, somigliando a quello di una canzone che potrebbe essere dei Bee Gees così come dei Platters, rischia di avere un contenuto diverso da quello che invece possiede. D'altronde si tratta del titolo originale di un romanzo scritto da Dennis Lehane che è (oltre che l'autore di quattro storie che hanno al centro Patrick e Angie) colui che ha scritto "Mystic River". Scusate se è poco. Si potrebbe dire che con un autore così alle spalle chiunque avrebbe potuto ottenere un buon risultato ma, purtroppo, diverse esperienze di trasposizioni non riuscite non confortano questa valutazione. Così, lo ripetiamo, onore a Ben Affleck che si è per di più assunto l'onere di offrire un ruolo importante al meno noto fratello Casey affiancandogli dei comprimari come Morgan Freeman ed Ed Harris che possono mettere in difficoltà anche attori molto più rodati di lui.
Invece Casey Affleck e Michelle Monaghan offrono il ritratto di una coppia capace di uscire dagli stereotipi di genere e capace di attraversare una città rivisitata non da troppo tempo sotto l'ottica del malaffare (The Departed) mostrando la complessità del male che si insinua non nei grandi traffici ma davvero sotto lo zerbino della porta accanto.
La stessa inflessione di Affleck nell'originale risulta un misto di determinazione e timidezza, offrendo al personaggio uno spessore insolito. Perché, se è vero che ancora una volta un romanzo di Lehane torna a scavare nell'intimo delle coscienze cercando di leggere il talvolta inestricabile groviglio tra torti e ragioni, a portarlo sullo schermo è un regista che sa scegliere gli attori. Lo si vede, al di là dei nomi citati, nell'interpretazione offerta da Amy Ryan nel ruolo della madre della bambina. Le sue dichiarazioni dinanzi alle telecamere dopo la sparizione della figlia mettono in luce, con una naturalezza difficile da raggiungere al cinema, la profonda povertà materiale e morale della donna mista alla sua ignoranza. In quel momento sembra di assistere a uno dei nostri telegiornali infarciti fino all'inverosimile di cronaca nera e dei suoi attori. Quelli, purtroppo, veri.
Sul film
Se l’etica fosse un insieme di precetti stabiliti una volta per tutte, non avremmo nessun bisogno di dotarci interiormente di ciò che Kant definisce imperativo categorico: se cuore e ragione indicano spesso strade divergenti, eppure ugualmente giuste, all’individuo resta il peso di una scelta secondo coscienza, sacrificando comunque qualcosa e portandosi dentro il rimorso o il rimpianto. Eppure la legge morale è la sola lampadina accesa nella casa buia ed è ciò che allontana l’uomo dal mostro repellente e dai suoi peccati infamanti: Gone Baby Gone, diligente esordio alla regia dell’attore Ben Affleck, fedele all’intreccio e al contesto del romanzo di Lehane, ambientato nel bel mezzo del quartiere degradato di Dorchester a Boston, trasforma la torbida storia di una bambina rapita a una madre tossicomane e promiscua in un aggrovigliato dedalo nel quale la coppia di detective alle prime armi, Casey Affleck e Michelle Monaghan, interpreti un po’ troppo depurati dal fango in cui sono nati per avvoltolarsi in esso in maniera credibile, devono imparare ad orientarsi per trovare in se stessi il kantiano imperativo categorico che consiste nella volontà di operare secondo ciò che il loro giudizio individuale stabilisce come equo. Il tracciato educativo non è lineare però per il semplice fatto che se gli infami nell’abiezione sono più o meno simili e tragicamente immutabili, il tratto peculiare dell’onesto è al contrario l’avere un’idea di onestà personale non sempre conciliabile con quella di un altro. Per questo colpi di scena e rivelazioni inaspettate in Gone Baby Gone non portano a una soluzione univoca, il lieto fine arriva sempre, non arriva mai, c’è e forse non c’è: al centro dell’universo sta una bambina di quattro anni ed è rispetto all’innocenza di lei che si pone il dilemma per lo spettatore su cosa sia bene e su cosa sia male. E nella conclusione sospesa a un futuro non conoscibile è racchiuso l’arcano della vicenda, la cui non facile ammissibilità per il buon senso comune Affleck volutamente accentua: il male si serve spesso fini nobili per giustificare mezzi abietti, il bene raramente ha avuto dalla sua parte verità provate, se non le astrazioni inascoltate racchiuse nei tomi dei filosofi. Mio blog..http://spettatore.ilcannocchiale.it
Ogni storia di Dennis Lehane è contrassegnata da uno stile che unisce un'ironia intelligentissima e agente ad intermittenza a un quadro doloroso e talvolta crudele: la coppia di detective Pat McKenzie e Angie Gennaro è al centro di quattro romanzi dell'autore di "La morte non dimentica", da cui Eastwood trasse "Mystic river". Ambientato in una Boston violenta, che cova un sottobosco di orrori appena sommersi, il film è l'esordio alla regia di Ben Affleck, da un pò di tempo in fase appannata della sua carriera d'attore: a giudicare da questo lungometraggio, che riporta piuttosto fedelmente la trama narrata nel romanzo originario, il divo di "Daredevil" risulta assai più convincente dietro la macchina da presa che davanti. Qua e là più spiccio della novel di Lehane, soprattutto negli snodi cruciali del racconto, il film è tuttavia un thriller di buona fattura, recitato con abilità da un cast indovinato che tira a concludersi senza lieto fine, versando amarezza in gola agli spettatori. Casey Affleck, dopo gli apprezzamenti ricevuti per "L'assassinio di Jesse James..." si conferma giovane attore di potenziale buon avvenire, e se continuasse su questa china pure il fratello maggiore Ben si rifarrebbe dei numerosi passi sbagliati della sua carriera da star. Per chi non conoscesse i romanzi di Lehane, "La casa buia", titolo italiano di "Gone, baby, gone" può essere un buon inizio per prendere confidenza.   UN FILM CHE FA DISCUTERE!

 

"Lontano da lei - Away from Her", Sarah Polley, con Julie Christie, Michael Murphy, Gordon Pinsent, Olympia Dukakis, Kristen Thomson, Wendy Crewson, Alberta Watson, Thomas Hauff, Canada 2006.
lontano_da_leiSposati da 44 anni, Grant e Fiona sembrano ancora molto legati l'un l'altra e la loro vita quotidiana è piena di tenerezza e umorismo. La loro serenità sembra vacillare solo in conseguenza degli occasionali e attentamente limitati riferimenti al passato, che sembrano far trapelare che forse il loro matrimonio non è stato solo rose e fiori. La tendenza di Fiona a riferirsi sempre più spesso al passato, oltre alla sua perdita di memoria più evidente ogni giorno che passa, creano una tensione che viene però generalmente dissipata facilmente dall’uno o dall’altra. Quando i vuoti di memoria diventano più lampanti e drammatici, nessuno dei due può ignorare che Fiona sia stata colpita dal morbo d'Alzheimer. A quel punto Grant, che teme che la vita di Fiona sia in serio pericolo, intraprende quello che sarà un autentico viaggio d’abnegazione per permettere alla moglie di essere felice per l'ultima volta.
È indubbiamente un film molto poetico, dai tratti delicati eppure forti, quello che ci propone alla sua prima esperienza Sarah Polley, la regia si rivela inaspettatamente oculata nel dosare luci sapienti, fotografia accurata, colori minimal eppure sempre accuratamente necessari. Le scelte d'immagini raccontano e riassumono l'intera trama, spesso e volentieri, sia nelle immagini della sciata iniziale e di quelle successive, sia in una malattia terribile, che i protagonisti tentano disperatamente di chiudere in un cassetto, come una vecchia padella.
Con un intelligente dosaggio di flashback, salti in avanti e all'indietro, conditi dall'uso di pellicola d’epoca e di effetti anticati là dove serve, Polley è in grado di disegnare il lieve e terribile ritratto della solitudine della mente che ci abbandona, insieme all'amore, e di lasciare senza fiato e rapito dall'immenso dolore lo spettatore senza però stordirlo a morte.
Di certo la scelta per interpretare il difficile ruolo di Fiona non poteva che cadere su Julie Christie, impeccabile in un ruolo che incorona la sua bellezza senza età e che trae dagli sguardi intensi assai di più di quanto le parole stesse, accuratamente doppiate, possano dire.
Alice Munro ha fatto un reale capolavoro, traendo da un suo breve racconto questa bella sceneggiatura, curandone i dialoghi ed amandone i contenuti, tanto che molti, dopo la visione, non potranno non correre a leggere i numerosi testi citati, tra cui "Lettere dall’Islanda", per provare le medesime sensazioni.

Diventare estranei
Il film di Sarah Polley è un gioiello di sensibilità e sincerità, capace di raccontare una storia a forte rischio di pietismo con una ricchezza, una grazia e un equilibrio davvero sorprendenti. lontano_da_lei1
Chi l'ha detto che le opere prime da registi degli attori sono sempre trascurabili? Sarah Polley, volto sublime della miglior produzione di Atom Egoyan, di certo non rientra nel lotto e a neanche trent'anni dirige con grazia e intelligenza l'amore di un'anziana coppia giunta a una complice serenità, improvvisamente spezzata dalla crudeltà dell'Alzheimer. Non proprio il soggetto che si immagina in mano a una giovane debuttante dietro la macchina da presa. A guardarlo poi Away from Her - Lontano da lei appare così discreto e trasparente che si rischia di pensare che sia un film di semplice lettura e realizzazione, quando invece è un gioiello di sensibilità e sincerità, capace di raccontare una storia a forte rischio di pietismo con una ricchezza, una grazia e un equilibrio davvero sorprendenti.
Come tutto il migliore cinema indipendente americano Away from Her si dimostra in grado di gettare uno sguardo intenso e toccante su temi tanto battuti quanto di difficile trattazione come l'amore, la vecchiaia e la malattia, raccontando senza ossessioni disfunzionali o atroci stramberie alla Little Miss Sunshine, il progressivo scollamento della realtà causato dalla più atroce delle malattie. Pena infinita specie per chi come Grant (uno straordinario Gordon Pinsent) è costretto a subire impotente la perdita di una memoria comune di una vita costruita insieme. Costretto soprattutto a perdere, giorno dopo giorno, lo sguardo dell'amata Fiona (Julie Christie, grandissima anche lei), dopo 44 anni vissuti insieme. Perché dopo le crisi, le difficoltà e le cattiverie del passato, in lui c'è ormai spazio solo per la persona che ora non lo vede più e finisce anche tra le braccia di un altro.
La delicatezza della regia della Polley commuove senza mai scadere nella retorica o nel sentimentalismo, proprio perché documenta un'agonia che monta e strugge con una sobrietà invidiabile, senza mai ricattare lo spettatore o prendere facili scorciatoie melodrammatiche. La direzione degli attori poi è encomiabile e dimostra che la Polley ha le idee ben chiare e mai viene toccata dalle tipica ansia esibizionista da opera prima (non è un caso a questo proposito la volontà di non apparire come attrice). Scelte che permettono al film di costruire un legame solido con lo spettatore che si sente sempre più parte del dramma di Fiona e Grant sposando lo sguardo di quest'ultimo. Un po' come se la presenza fantasmatica di Grant nella casa di cura necessiti di una compartecipazione e di una validazione esterna che ne certifichi l'esistenza, in un luogo dove non esiste la memoria. Perché fa davvero troppo male osservare da soli una perdita irreversibile.
 
 

 

"Non è un paese per vecchi - No Country for Old Men", Ethan Coen, Joel Coen, Con Tommy Lee Jones, Javier Bardem, Josh Brolin, Woody Harrelson, Kelly MacDonald, Garret Dillahunt, Tess Harper, Stephen Root, USA 2007.
non__un_paese_per_vecchiLlewelyn Moss trova, in una zona desertica, un camioncino circondato da cadaveri. Il carico è di eroina e in una valigetta ci sono due milioni di dollari. Che fare? Llewelyn è una persona onesta ma quel denaro lo tenta troppo. Decide di tenerselo dando il via a una reazione a catena che neppure il disilluso sceriffo Bell può riuscire ad arginare. Moss deve fuggire, in particolare, le 'attenzioni' di un sanguinario e misterioso inseguitore.
Ispirato al romanzo del Premio Pulitzer Cormac McCarthy il nuovo film dei Coen conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, la coerenza e l'originalità dei due fratelli divenuti ormai un marchio di fabbrica.
McCarthy è il riconosciuto interprete letterario dei mutamenti di un mondo (quello del West e della frontiera messicana) divenuto estremamente più violento di quanto non lo fosse nell'epoca che lo ha fatto divenire mito cinematografico. McCarthy non è però interessato a una cinica e compiaciuta presa d'atto di una realtà innegabile. Neppure i Coen lo sono. Qui si trova il punto di contatto tra le due letture di un'umanità che cambia. La chiave di volta sta proprio in questa parola: umanità. Perché i due registi ci offrono una sceneggiatura decisamente più eccessiva di quella, già considerata molto violenta, di un film come Fargo.
Le uccisioni abbondano in Non è un paese per vecchi ma si inseriscono in una narrazione che fa dell'iperbole la propria cifra stilistica. A differenza di Tarantino però i Coen non si fermano alla coreografia raffinata della violenza. Non si accontentano di ironizzare. Non gli basta mostrare quanto sono bravi a suscitare il riso dinanzi a un uomo che muore. Non è questo il loro scopo. Ciò che per loro conta è riuscire a mettere in rilievo anche solo una scintilla di umanità in un mondo che sembra governato dalla follia. Riescono a farlo grazie al personaggio dello sceriffo interpretato da un Tommy Lee Jones che, non a caso, è uno dei protagonisti di questo film dopo aver diretto e interpretato Le tre sepolture ambientato anch'esso al confine con il Messico. Osservate la scena finale e vi accorgerete di come i Coen riescano ancora, nonostante le apparenze, a fare un cinema di qualità, spettacolare ma al contempo profondamente 'diverso' e morale.

 

La banda - The band’s visit", di Evan Kolirin, con Ronit Elkabetz, Sasson Gabai, Uri Gavriel, Imad Jabarin, Ahuva Keren, Rubi Moskovitz, Khalifa Natour, Eyad Sheety, Saleh Bakri, Francia e Israele, 2007. Sito ufficiale: www.thebandsvisit.com
labandaLa trama racconta di una piccola banda musicale della polizia egiziana che giunge in Israele per suonare ad una cerimonia, ma a causa della burocrazia, della sfortuna o per qualche altra ragione, i componenti sono arrivati all’aeroporto senza trovare nessuno che li aspettasse. Fatalmente essi si recano nel paese sbagliato, dove non esiste alcun centro culturale arabo, un villaggio nel deserto del Negev, dove tuttavia vengono ospitati per un’intera notte da una giovane donna e da un suo amico, che gestiscono un bar ristorante.
Il colonnello Tewfit dirige una compagine di una decina di musicisti nel viaggio diretto alla sede della loro tappa israeliana; il raggiungimento di questa è però ostacolato da un errore di comunicazione che comporta l’arrivo della compagnia in un piccolo paese sperduto. Non avendo altre alternative, il colonnello accetta l’invito di un’intraprendente barista, decidendo di passare la notte prima del concerto nella “città sbagliata”.
Nonostante un andamento piuttosto lento, il film gode di un brillante umorismo, creato attraverso il susseguirsi di episodi che risultano trascinanti nel contesto poco altisonante dell’opera. L’utilizzo della musica, sebbene questa possa essere considerata tra i protagonisti, è ben calibrato e funge da supporto alla storia, senza invadere lo spazio narrativo.
Tutti i personaggi, sia i musicisti che gli strampalati abitanti del paese, godono dell’attenzione dell’esordiente regista israeliano che ne delinea le qualità determinanti: dal colonnello che goffamente accompagna in giro per la città la bella barista, fino a un ragazzo del paese che da diverse notti aspetta freneticamente la chiamata della sua fidanzata vicino a un telefono pubblico. La paradossalità dei personaggi, evidente nei momenti umoristici quanto in quelli introspettivi, conferisce organicità al film, che altrimenti risulterebbe frammentato dalla trattazione nettamente differenziata delle avventure dei personaggi. Da una serata che sembrava essere una perdita di tempo, i musicisti hanno avuto l’occasione di conoscere nuova gente e soprattutto riscoprire se stessi, grazie alla curiosità e alla spontaneità dei loro ospitanti.
Ogni componente della banda si ritroverà a passare del tempo con i cittadini dello sperduto paese immerso in una specie di deserto. Il capo Tewfiq (il malinconico Sasson Gabai) passerà una serata intera fuori con la padrona dell’unico ristorante della città, Dina (la sensuale Ronit Elkabetz), che si offrirà poi di ospitarlo per la notte con il ragazzo della banda. Quest’ultimo, in cerca di divertimento uscirà con un ragazzo timido e impacciato che lo porterà a visitare la città, insieme ad alcuni amici, una coppia ormai collaudata, e una ragazza che sembra avere degli interessi per lui. Gli altri ceneranno in casa di una famiglia davvero molto particolare con la quale sarà difficile entrare in sintonia. Ognuna di queste persone, nel loro incontro, racconterà un pezzo di se stessa, scambiandosi esperienze ed emozioni e riuscendo a trovare una via di comunicazione universale: la musica. E’ infatti tramite questa che i protagonisti del film riescono a trovare un punto di incontro e a sfondare il muro della diversità. Quando durante una cena, cade l’imbarazzo perché non ci si capisce a causa della lingua e della diversa cultura, basta intonare le strofe della struggente Summertime per entrare tutti in sintonia e proseguire la serata tranquillamente e serenamente; quando si vuole esprimere un’emozione ad una persona vicina ma così lontana o lontana ma così vicina, non si deve far altro che dedicargli una canzone o comunicare a gesti la sensazione che si prova nel dirigere un’orchestra; quando vogliamo conquistare un esponente dell’altro sesso non serve far altro che sfoderare la propria passione per Chet Baker e la sua romantica My funny Valentine. La musica come linguaggio universale, linguaggio che affascina, emoziona, seduce, ma soprattutto unisce. Ma non è l’unico. Universale può essere anche un altro linguaggio che è quello del cinema e infatti l’affascinante Dina, confessa all’amico egiziano di essere cresciuta con il mito del cinema del suo paese, col mito di Omar Shariff; e ancora più universale, forse anche di più è il linguaggio dell’amore tant’è che per esprimere cosa si prova durante un rapporto sessuale con una donna, non serve parlare in inglese, ma comunicare nella propria lingua giungendo a farsi comprendere da un interlocutore straniero grazie all’intensità della voce, della luce negli occhi, delle pieghe del viso.
Su un canovaccio apparentemente semplice il giovane filmaker israeliano Evan Kolirin, alla sua prima prova registica, accolta entusiasticamente all’ultimo Festival di Cannes, abbraccia con maturità di stile (si veda innanzitutto la suggestiva e quindi mai banale composizione delle immagini) e leggerezza di toni, la poetica del reale,espressa attraverso un segmento di realtà: l’incontro casuale tra persone di lingua e cultura diverse, apparentemente lontane, in realtà accomunate dalla medesima condizione umana. Ma ciò che chiamiamo leggerezza, in questo caso, altro non è che lo sguardo profondo, capace, con umiltà, di rivelare l’abisso di solitudine e di speranza esistente nei personaggi del film, persino in quelli più secondari. La musica, di cui la banda stessa è portatrice, può essere letta come la metafora auspicabile della ricerca di un’ardua, ma non impossibile armoniatra gli uomini, ossia di un linguaggio ancora capace di comunicare oltre i conflitti, e le barriere sociali e culturali. E poi l’altro tema: l’amore come elemento riconciliatore tra passato e presente, come forma e materia che lenisce il dolore. La verità del film risiede tutta nei dettagli, nel sottile montaggio degli eventi che si svolgono durante la notte, nei primi piani dei personaggi la cui stanchezza rimanda ad un altrove invisibile lasciato all’intuizione e all’immaginazione dello spettatore. Uno di quei pochi film necessari, che sembrano fatti per opporre resistenza alla volgarità del mondo, oppure, come diceva Hannah Harendt, alla “banalità del male”.
Ce ne fossero di più di pellicole così eleganti e delicate che riescono ad emozionare a far riflettere e sorridere contemporaneamente, senza risultare sconclusionate o approssimative. Con un tocco a dir poco delicato e grazioso il regista riesce a raccontare l’incontro di due civiltà nettamente in contrasto tra loro, senza scadere nel politico e senza indugiare sulle diversità e le divergenze. Il confronto tra egiziani e israeliani avviene invece su un campo da gioco nettamente diverso che è quello delle singole personalità che si incrociano, dei piccoli e grandi drammi che vengono a galla durante il fuggevole ma intenso contatto che ciascun componente della banda ha con gli abitanti dello sperduto paese nel quale capitano per caso. Il tutto, imbevuto in un’atmosfera misurata e amena che fa da sfondo ad un grande messaggio sulla diversità e su come questa non sia un ostacolo nell’esplicazione dei rapporti umani, bensì una sorta di ponte da attraversare per unirsi e venirsi incontro. Sembrerebbe la solita trita e ritrita tiritera sulla fratellanza e sulla pace, ma in realtà si tratta di una ben più profonda analisi sull’umanità intera (quella egiziana e israeliana in particolare, ma avrebbe potuto essere incentrata anche su francesi e tedeschi o italiani e russi e via dicendo senza che il risultato finale cambiasse), che con un’ampia dose di ironia e di comicità davvero molto particolare ci regala dei bellissimi momenti di intense emozioni scaturite da uno sguardo, una carezza, un bacio e di sincere risate per un ragazzo impacciato che non sa come conquistare una donna o per una cena imbarazzante che si trasforma in una sorta di concerto a cappella.
Il risultato finale è sicuramente ottimo anche grazie ad una sceneggiatura che abilmente riduce all’osso dialoghi inutili e strabordanti per concentrarsi su un gioco di sguardi e di gesti e una regia molto particolare che alterna primissimi piani a campi lunghi, non risparmiandosi inquadrature singolari (bellissima quella dei due componenti della banda che guardano lo schermo all’aereoporto), carrellate orizzontali che mostrano la desolazione del paese e che denotano una certa padronanza della macchina da presa. La pellicola colpisce per la sua intelligenza che si esplica anche in autoironia (“Non c’è cultura. Né israeliana, né araba. Non c’è proprio cultura”, dice Dina ai componenti della banda spaesati) e in alcuni momenti in aperta e deliziosa comicità come nella scena alla sala di pattinaggio nella quale il componente più giovane della banda cerca di insegnare al suo compagno di serata come conquistare la donna che gli interessa, dandogli prima un fazzoletto, poi una bottiglietta di liquore o posando le sue mani sulla gamba e sulla spalla per fargli comprendere come approcciarsi al gentil sesso. Persino in un paese dove si può trovare un parco, solo facendolo nascere con la fantasia da una panchina circondata dal nulla, i vari personaggi che si muovono all’interno di questa pellicola riusciranno a divertirsi e soprattutto ad imparare qualcosa, per poi giungere ad un finale lieto e tranquillizzante, che ci lascia però con un graditissimo velo di malinconia.
La banda è uno straordinario incontro tra due culture che non mette in ballo assolutamente le diversità e le divergenze ma che gioca sui piccoli o grandi drammi personali, ironizzando delicatamente e deliziando la vista e le orecchie con dei colori romantici (fantastiche le divise dei componenti della banda e interessante la fotografia molto naturale) e delle note affascinanti (la canzone jazz israeliana è davvero straordinaria). Un film ingiustamente passato in sordina durante le feste pasquali che merita di essere valorizzato e promosso in quanto costituisce un esempio di ottimo e interessantissimo cinema.

 
"Il cacciatore di aquiloni - The Kite Runner", Marc Foster, Khalid Abdalla, Homayoun Ershadi, Shaun Toub, Atossa Leoni, Saïd Taghmaoui, Zekiria Ebrahibi, Ahmad Khan  Mahmidzada, USA, 2007.
cacciatore_di_aquiloniIl ritorno in un Afghanistan ostile e in mano ai talebani, molto diverso da quello vissuto nella sua infanzia, è per Amir l’occasione di espiare l’errore che lo allontanò dal piccolo Hassan, suo servitore ma soprattutto suo più grande amico.
La trasposizione cinematografica dell’omonimo bestseller di Khaled Hosseini sembra togliere respiro alla visionarietà di Marc Forster: regista versatile, in grado di abbracciare generi diversi tra loro, non trova nella sceneggiatura di David Benioff la giusta chiave di lettura filmica per dare vita ai personaggi e alle emozioni di una storia che ha appassionato lettori in tutto il mondo. Ne nasce così un cinema morto, preconfezionato, profondamente “hollywoodiano” nell’anima; un prodotto che sembra rivolgersi esclusivamente a un pubblico di bocca buona, in cerca di buoni sentimenti per una lacrima facile. La portata del messaggio non si discute (il valore e la redenzione dell’amicizia, contrapposta alle crudeltà del regime talebano), così come è oggettivamente molto bello il modo in cui viene rappresentato il personaggio del padre di Amir, ma Il cacciatore di aquiloni rimane un film eccessivamente legato al testo letterario di partenza: Benioff e Forster si affidano esclusivamente all’opera di Hosseini, rinunciando alla narrazione in prima persona della voce fuori campo e sfrondando alcuni passaggi qua e là, senza però preoccuparsi di reinterpretarlo. E così il loro film scorre via senza lasciare il segno, piatto e monocorde: meglio la prima parte della seconda, nella quale l’infanzia dei due protagonisti si tinge a tratti di una commozione vera e sincera, ma non basta. Il ritratto che emerge dell’Afghanistan è troppo occidentalizzato per appassionare davvero, incentrato com’è sulla superficie delle cose, e il desiderio di rappresentare a tutti i costi buona parte delle situazioni presenti nel romanzo finisce così per togliere loro mordente e respiro (come ad esempio la sequenza dello stupro, che pur nella sua drammaticità sembra forzata e slegata dal contesto), come se non potesse esistere un cinema in grado di vivere di vita propria, un cinema autonomo e libero dalla prigione della carta stampata. Proprio come gli aquiloni che volano nel cielo e sui quali la macchina da presa di Forster si sofferma più volte, incantata. Ma è un incanto del quale nel film vi sono poche tracce.
 
"Caos Calmo", Antonello Grimaldi, Nanni Moretti (Pietro Paladini), Valeria Golino (Marta, Moglie di Pietro Paladini), Alessandro Gassman (Carlo, Fratello di di Pietro Paladini), Isabella Ferrari (Eleonora Simoncini), Silvio Orlando (Samuele), Blu Di Martino (Claudia, Figlia di Pietro Paladini), Hippolite Girardot (Jean Claude), Roberto Nobile (Taramanni), Alba Caterina Rohrwacher (Annalisa), Manuela Morabito (Maria Grazia), Kasia Smutniak (Jolanda), Beatrice Bruschi (Benedetta), Sara D'Amico (Francesca), Babak Karimi (Mario), Tatiana Lepore (Mamma Matteo), Anna Gigante (Mamma), Italia, 2008.caos_calmo_1_film
Musiche: Paolo Buonvino, Ivano Fossati.
Ivano Fossati firma e interpreta "L'amore trasparente", canzone appositamente scritta per la colonna sonora del film "Caos calmo", interpretato da Nanni Moretti e con la regia di Antonello Grimaldi, in uscita nelle sale italiane l'8 febbraio 2008 e presentato in concorso al Festival di Berlino. La colonna sonora del film, che propone brani dei Radiohead, di Rufus Wainwright e Stars, oltre alle musiche originali di Paolo Buonvino, si arricchisce con il brano di Fossati che accompagna i titoli di coda. "L'amore trasparente" - spiega Fossati - è un brano vigoroso ed elettrico, scritto per una vicenda che ritrova una sensazione di serenità e di speranza solo alla sua conclusione". "L'Amore trasparente", che sara' incluso nella colonna sonora di "Caos calmo"  costituisce una vera e propria anteprima del nuovo album che Ivano Fossati sta registrando proprio in questi mesi insieme ai suoi musicisti. Il disco conterrà, oltre a "L'amore trasparente", altre 11 canzoni inedite. La pubblicazione dell'album è prevista per il prossimo autunno. 
Nanni Moretti sarà il protagonista: il film è tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi, vincitore dell'ultimo Premio Strega. «Non è stata una mia idea proporre questo ruolo a Moretti - spiega Domenico Procacci, il produttore della Fandango, che ha realizzato il film -. È stato lui, dopo aver letto il romanzo, che avevamo opzionato alla sua uscita, a candidarsi come attore. L'ipotesi è piaciuta subito sia a me che a Veronesi e l'abbiamo sposata interamente. In quel momento non avevamo ancora identificato il regista del film».
La scelta è avvenuta insieme: «Dopo aver parlato a lungo con Moretti della regia ideale per questo film - racconta Procacci - c'è stata una convergenza sul nome di Antonello Grimaldi che Moretti conosce da tempo, è stato un suo attore nel «Caimano» e la Fandango ha prodotto due film di Grimaldi («Nulla ci può fermare» e «Il cielo è sempre più blu»).
LA TRAMA - La vita di Pietro Paladini viene sconvolta dalla morte improvvisa della moglie Lara. Ad aggiungere sgomento al dolore per la scomparsa della donna amata è anche il fatto che al momento della tragedia Pietro stava salvando la vita di una sconosciuta e lui non sa come spiegarlo alla figlia Claudia, di soli dieci anni. Tuttavia, un'insolita calma lo porta ad osservare il mondo dal finestrino della sua auto, dove si rifugia, giorno dopo giorno, ad attendere sua figlia all'uscita di scuola. In questo suo stato di 'caos calmo', Pietro inizia a rendersi conto che chi gli sta accanto, invece di dargli consolazione, riversa su di lui angosce e problemi. Nonostante ciò è disposto a guidarli e ispirarli verso la salvezza finale per tutti, lui compreso.

Pietro Paladini è l'alto dirigente di un network televisivo rimasto improvvisamente vedovo, che decide di passare le sue giornate davanti alla scuola elementare della figlia, per non abbandonarla, ma in realtà per non sentirsi lui abbandonato. La moglie è morta di colpo un pomeriggio d'estate per un aneurisma sola in casa, proprio mentre Pietro e suo fratello stavano salvando due donne portate al largo dai cavalloni di una mareggiata. Ora lui, nella sua automobile, fermo al parcheggio davanti alla scuola della figlia, ascolta i Radiohead e nel suo "caos calmo", la vita gli scorre vicina venendogli incontro. Veronesi è da tempo legato alla Fandango, è stato tra gli ispiratori della Fandango Libri di cui è socio con Alessandro Baricco, Carlo Lucarelli ed Edoardo Nesi.

 

"Lo scafandro e la farfalla", (Le scaphandre et le papillon), Julian Schnabel, con Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Marie-Josée Croze, Anne Consigny, Patrick Chesnais, Niels Arestrup, Olatz Lopez Garmendia, Jean-Pierre Cassel, Marina Hands, Max von Sydow, Emma De Caunes, Francia 2007.

loscafandroNel 1995 Bauby viene colpito da ictus "locked-in syndrome", una sindrome rara e grave che prima lo getta in un coma profondo e poi lo rende completamente paralizzato. Jean-Dominique Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d'ospedale. È il caporedattore di 'Elle' e ha accusato un malore mentre era in auto con uno dei figli. Jean-Do scopre ora un'atroce verità: il suo cervello non ha più alcun collegamento con il sistema nervoso centrale. Il giornalista è totalmente paralizzato e ha perso l'uso della parola oltre a quello dell'occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo. Dinanzi a domande precise (ivi compresa la scelta delle lettere dell'alfabeto ordinate secondo un'apposita sequenza) potrà dire "sì" battendo una volta le ciglia oppure "no" battendole due volte. Immobile e incapace di parlare, non si perde d'animo e decide di dettare lettera per lettera, con uno stratagemma, la storia dei pensieri, dei ricordi e delle amare speranze custodite nel suo corpo immobile. Riuscirà a dettare un libro che uscirà in Francia nel 1997 con il titolo che ora ha il film. Sbattendo l'unica parte del corpo che riesce a muovere, la palpebra sinistra, crea un sistema di comunicazione complesso, un codice alfabetico che gli permette di trasmettere i suoi pensieri a chi gli sta vicino. "Lo scafandro" del corpo, non impedisce alla "farfalla" del pensiero e dell'animo di uscire e comunicare. Il romanzo è stato pubblicato alcune settimane dopo la sua morte avvenuta nel marzo 1997, all'età di 44 anni. In Italia è stato pubblicato dalla casa editrice Tea.
Julian Schnabel ha assunto sulle sue spalle un incarico gravoso perché è vero che i film che portano sullo schermo le vicende di portatori di gravi deficit (soprattutto se ispirate a storie realmente accadute) commuovono facilmente la grande platea. È però anche vero che, con una tematica in parte vicina a questa abbiamo avuto nel 2004 Mare dentro di Alejandro Amenábar con l'interpretazione da premio di Javier Bardem e la fatica di Mathieu Amalric poteva risultare improba. Sia l'attore che il regista conseguono il grande risultato di offrirci una prova di grande umanità nel contesto di un film di elevato livello artistico.
L'occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare (anche se faticosamente) la farfalla del pensiero. La voce interiore imprigionata di Jean-Do ci rivela al contempo l'orrore della condizione e l'indomabile spinta all'espressione di Sé. Il giornalista pensa, desidera, soffre, grida dentro di Sé. È un grido in cerca di una bocca che possa tradurlo in suoni e parole. Il battito delle ciglia (che ricorda non a caso il battito d'ali di una farfalla) si traduce in lettere e le lettere in parole. Schnabel e Amalric riescono a non fare retorica e al contempo a commuovere profondamente liberandosi dal falso pietismo che spesso accompagna queste storie 'vere'. Raggiungono il risultato grazie a un attento lavoro di flasback che si integra alla perfezione con la descrizione di un corpo che da apertura al mondo si è trasformato in sepolcro. Tutto ciò senza lanciare proclami né a difesa strenua della vita né a favore dell'eutanasia. Il che, di questi tempi, è già un merito di per sé. 
La prima parte del film in concorso a Cannes, interpretato da Mathieu Amalric, è interamente girato con l'inquadratura ridotta a un occhio. Un lungometraggio esplorativo che permette di vivere in diretta e in primo piano tutte le tappe della vita in ospedale dell'ex giornalista a Berck-sur-Mer: dal risveglio dal coma alla lenta riabilitazione, alla scoperta del mezzo di comunicazione che lo fa passare dal desiderare la morte alla proiezione nel vasto mondo dell'immaginazione e dei ricordi.
Una ricca ricerca interiore (scandita dalla voce fuori campo di Mathieu Amalric) e dei legami affettivi con i suoi cari: la moglie (Emmanuelle Seigner), i figli, il padre (Max von Sydow), l'amico (Isaac de Bankolé) e l'ortofonista impersonata da Marie-José Croze. Il paragone con un film come il "Mare dentro", di Alejandro Amenabar, che nel 2005 a Venezia vinse Coppa Volpi e Leone d'Argento, e che in quell'anno si aggiudicò l'Oscar come miglior film straniero, sorge quasi spontaneo.
Buona parte della stampa francese lo dà tra i favoriti per la vittoria della Palma d'oro. Non mancano però le critiche di chi lo accusa di essere troppo melodrammatico e di maniera.

 

"La famiglia Savage THE SAVAGES", Tamara Jenkins, Philip Seymour Hoffman, Laura Linney, Peter Friedman, Gbenga Akinnagbe, Cara Seymour, Philip Bosco, Sidné Anderson, Erica Berg, Michael Blackson, Hal Blankenship, USA 2007.
savageDue adulti, fratello e sorella, che abitano in luoghi diversi e che da anni non hanno più rapporti con la propria famiglia, vengono costretti dalle circostanze a ritrovarsi. Il padre infatti sta male ed ha bisogno di essere accudito. Questa situazione li induce a riaffrontare argomenti e problemi familiari che si erano ormai messi alle spalle, nonché le responsabilità che derivano dall'accudire una persona...I fratelli Wendy e Jon Savage hanno abbandonato molto presto la casa paterna ed ognuno di loro conduce ormai un'esistenza lontana dai legami familiari. Wendy vive nell'East Village dove cerca in ogni modo di realizzarsi come sceneggiatrice, ma in realtà si arrangia per sbarcare il lunario, ed è coinvolta in una relazione senza futuro con un vicino di casa 'molto sposato'. Jon, invece, è un professore universitario che insegna drammaturgia e che sta scrivendo un libro su Brecht. Il loro ultimo desiderio sarebbe proprio quello di tornare a vivere una situazione familiare da cui sono precocemente fuggiti, ma una telefonata da cui apprendono che il padre Lenny, così a lungo temuto ed evitato (Philip Bosco, vincitore di un Tony Award), sta lentamente sprofondando nella demenza senile ormai giunta ad uno stato gravemente avanzato, ed essi sono gli unici a poterlo aiutare. questa occasione li fa ricongiungere con l'anziano genitore. Ben presto, Wendy e Jon verranno proiettati in un passato che credevano dimenticato per sempre, ma allo stesso tempo impareranno a confrontarsi l'uno con l'altra e a scoprire ognuno la propria vera natura.

John e Wendy si trovano all'improvviso a doversi prendere cura dell'anziano padre, non particolarmente amato, sprofondato negli abissi della demenza senile e cacciato dalla casa in cui si trovava dopo la morte della sua compagna. Passando da una casa di cura all'altra, i due impareranno a conoscersi e a conoscere meglio il proprio genitore…

L’ultima cosa che i due fratelli Savage avrebbero mai voluto fare era di volgere lo sguardo alla propria difficile storia familiare. Dopo essere riusciti ad allontanarsi da un padre dispotico e autoritario, i due hanno costruito un bozzolo protettivo attorno alle proprie vite complicate.
Wendy (Laura Linney, candidata a un Premio Oscar®) è una battagliera drammaturga dell’East Village, ma al tempo stesso è un’impiegata temporanea che passa le giornate a richiedere sovvenzioni, rubare materiale di cancelleria dall’ufficio e frequentare il suo sposatissimo vicino.
Jon (Philip Seymour Hoffman, il vincitore di un Premio Oscar) è un nevrotico professore di college a Buffalo e scrive libri su argomenti oscuri.

- FILM D'APERTURA AL 25MO TORINO FILM FESTIVAL (2007). - PHILIP SEYMOUR HOFFMAN E' STATO CANDIDATO AL GOLDEN GLOBE 2008 COME MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA DI FILM CAMMEDIA/MUSICALE. - CANDIDATO ALL'OSCAR 2008 PER: MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA E SCENEGGIATURA ORIGINALE.

 

 

"Scelta d'amore - DYING YOUNG", Joel Schumacher, Julia Roberts, Campbell Scott, Vincent D'Onofrio, Colleen Dewhurst, David Selby, Ellen Burstyn, Dion Anderson, George Martin, USA 1991.
sceltadamoreHilary O'Neil, un'avvenente giovane di cultura elementare, dopo aver sperimentato la convivenza con un uomo del quale ha scoperto l'infedeltà, desiderosa di essere ecomicamente indipendente, riesce a farsi assumere come infermiera dal miliardario californiano Richard Geddes per assistere il ventottenne figlio di questi, Victor, da dieci anni ammalato di leucemia e soggetto a terribili periodiche crisi causate dalla cura chemioterapica. Dapprima atterrita poi mossa a pietà, Hilary viene coinvolta in una vicenda sentimentale che culmina con una fuga a due in un villaggio di pescatori: qui i giovani vi trascorrono giornate di svago e d'amore. Poichè ha interrotto la terapia anzitempo, Victor con la morfina tenta di nascondere il dolore che lo ha assalito di nuovo: traumatica è la scoperta dell'inganno da parte di Hilary, che telefona disperata al padre di Victor perchè lo faccia ricoverare in ospedale. Per convincere Victor a fare la cura, Hilary, che ama sinceramente lo sfortunato giovane, gli promette che resterà a lui vicina nel bene e nel male.
 

 

"Donnie Darko", Richard Kelly, Jake Gyllenhaal, Jena Malone, Noah Wyle, Mary McDonnell, Drew Barrymore, Seth Rogen, Maggie Gyllenhaal, Katharine Ross, Holmes Osborne, Daveigh Chase, James Duval, Patrick Swayze, Jerry Trainor, Joan M. Blair, Sarah Hudson, Fran Kranz, Kristina Malota, Ashley Tisdale, Beth Grant, Stuart Stone, Arthur Taxier, Lee Weaver, Marina Malota, Scotty Leavenworth, Mark Hoffman, David St. James, Tom Tangen, Jazzie Mahannah, Jolene Purdy, Gary Lundy, Alex Greenwald, David Moreland, Carly Naples, Tiler Peck, Patience Cleveland, Lisa K. Wyatt, Rachel Winfree, Jack Salvatore Jr., Phyllis Lyons, Alison Jones. Genere Drammatico, colore 108 minuti. - Produzione USA 2001. 
donnie_darkoDonnie Darko, un adolescente americano, durante una sortita notturna in preda a un attacco di sonnambulismo, si imbatte in Frank, un coniglio gigante che gli predice la fine del mondo. Ovviamente 'Frank' non è altro che una visione di Donnie, ma quando il ragazzo torna a casa scopre che la sua camera è stata devastata da un motore di aereo caduto dal cielo. Mentre Donnie, con l'aiuto di Frank, cerca di indagare come mai sia scampato alla morte, accadono altri strani fenomeni che minacciano la vita delle persone a lui care...È il 1988 e "il mondo si avvicina alla fine", sostiene Frank, una visione da incubo che solo Donnie Darko può vedere. Donald Darko detto Donnie è un ragazzo con dei disturbi mentali che lo hanno portato a dar fuoco ad una casa abbandonata, anni fa. Nonostante sia un tipo in gamba, con una famiglia che lo ama e lo appoggia anche nelle scelte più discutibili. Donnie è in cura da una psicanalista che lo aiuta a combattere la sua schizofrenia; a lei confida del suo nuovo amico immaginario, Frank, un coniglio gigante che lo ha salvato da una morte assurda, ma che in cambio gli chiede di fare cose riprovevoli e sempre più pericolose. Ah, tra l'altro Frank gli ha svelato che la fine del mondo arriverà di lì a 24 giorni.
Donnie Darko è uno di quei film di culto che lentamente si emancipano dalla nicchia e si fanno conoscere ed amare in tutto il mondo, perdendo in parte il loro alone di leggenda. L'Italia detiene il triste primato di riuscire ad arrivare sempre per ultima a scoprire certi fenomeni, ed è per questo che Battle Royale troverà una distribuzione forse solo tra un secolo o giù di lì, ed è sempre per questo che Donnie Darko arriva in Italia con due anni di ritardo.
Due anni che non tolgono al film un'oncia del suo appeal, lasciando inalterato il grande fascino che obiettivamente questa pellicola è in grado di esercitare sul pubblico, soprattutto quello coetaneo del cupo protagonista, poco più che adolescente. Al contrario di molti film che fanno esplicito riferimento al mondo giovanile, Donnie Darko brilla di una luce sinistra e tristemente rara: qui non si parla del primo amore, del primo bacio, dei conflitti con gli adulti, della perdita dell'innocenza, scialbe tematiche che fanno sentire gli adulti (quelli veri) con la coscienza a posto, ma che quasi sempre fanno ridere i ragazzi (sempre quelli veri). Qui si parla di qualcosa di molto più significativo: si parla di morte. In toni tutt'altro che rassicuranti, Richard Kelly si interroga sull'effetto prorompente che la consapevolezza della morte ha su ogni individuo, e di quanto questo condizioni ogni altra sensazione ed azione: amore, paura, disprezzo, ribellione.
Di morte è imbevuto l'intero tessuto del film, inevitabilmente sbranato qua e là proprio a causa della friabilità del terreno su cui si avventura. Ma si può ben chiudere un occhio, considerato che di contro il film avvince ed appassiona senza essere né moralista né retorico. E soprattutto considerato che, a pensarci meglio, Donnie Darko è uno dei pochi film di oggi che aiutano i ragazzi a crescere, e non gli adulti a credere che "va tutto bene".

 


"Mysterious Skin", Gregg Araki, con Brady Corbet, Elisabeth Shue, Michelle Trachtenberg, Jeffrey Licon, Bill Sage, Lisa Long, Zane Huett, USA 2004.

mysterious_skinlocandinaMysterious Skin Il film si basa su un acclamato racconto di Scott Heim. Il regista ne seppe nel 1996. La storia si basa sulle vicende di "due ragazzi che s’incontrano, quando hanno diciotto anni e scoprono un passato comune che ha segnato ciascuno dei due, in modi differenti". Brian Lackey non sa esattamente come sia finito nel recinto di casa, sa solamente che gli sanguina il naso. Dopo quest’episodio Brian non è più lo stesso. Ha paura di tutto, bagna il letto, ha gli incubi. Anni dopo, all'età di diciotto anni, Brian è convinto di essere stato vittima degli alieni. Neil è un teppista temuto da tutti. Anche lui, diciottenne, ricorda un episodio della sua infanzia, all'età di otto anni, con il suo allenatore di baseball. Entrambi i ragazzi, per un caso del destino, s'incontrano a New York...

La pellicola di Gregg Araki (The doom generation) punta il dito, senza mezzi termini, contro la violenza minorile. I fatti sono presentati in uno stile alla Larry Clark, partendo dalla "tranquilla" provincia per poi alzare il coperchio dell'omertà.

myst_skin_3Le immagini quasi rassicuranti, ma venate da quella falsità che solo un adulto può cogliere, dell'iniziazione di Brian saranno solo uno dei tanti schiaffi ad uno spettatore che pensa di trovarsi di fronte alla consueta "caramellina" di denuncia. Non sono le scene di sesso esplicito (praticamente assenti) il passaporto verso un facile pubblico o piuttosto l'analisi del loro carnefice, ma l'esplorazione del fenomeno attraverso gli occhi delle vittime e quel che rimane delle loro vite che molto più efficace e crudele.
Araki spera, tra l'altro, che il film venga distribuito anche in America, uno dei pochi Paesi che invece non l'ha ancora acquistato, dove il problema della pedofilia è particolarmente rilevante.
Singolare la presenza di Elizabeth Shue che dopo aver cavalcato un breve ritorno ai blockbusters, si è rituffata in una pellicola di nicchia come questa che un po' ricorda il suo Via da Las Vegas.
Straziante. Indimenticabile. Bruciante e sensuale.

mysteriousskin2Trama dettagliata: le storie dei ragazzini - 8 anni - Brian e Neil e dei loro fantasmi da un passato oscuro e doloroso si sfiorano e si intrecciano mirabilmente in un percorso di crescita che li vede approdare all’età adulta con l’amara consapevolezza di un vita vissuta già da un pezzo.
Brian che diciottenne crede di essere stato rapito dagli Ufo (il volto e corpo nervoso ed indifeso di Brady Corbet) e Neil, bellissimo giovane che vende il suo corpo alle disperata ricerca di amore (lo straziante e perfetto Joseph Gordon -Levitt) sono le diverse facce di un’identica medaglia che nel farsi portavoce di un percorso emotivo viscerale e poetico ci rendono attoniti e partecipi spettatori di un’iniziazione alla vita straordinaria per verità e schiettezza di situazioni e sensazioni.
Araki firma così il suo lavoro più personale adattando perfettamente il suo stile visionario, trasgressivo e dark alle macchie e ruvidità della “pelle misteriosa” di antieroi carismatici e pieni di grazia.
Autore di film cult come “The long week-end” e “Doom Generation”, il californiano di origine armena Gregg Araki non è nuovo a tematiche scottanti, per lo più legate al rapporto tra i sessi e ai disagi delle nuove generazioni. Ma con quest’ultimo film, “Mysterious Skin”, presentato con successo nella scorsa edizione del Festival di Venezia, il suo sguardo si appunta sul buco nero della pedofilia.
Rispetto alle precedenti opere di Araki, “Mysterious Skin” è sicuramente più convenzionale da un punto di vista visivo, ma assolutamente sorprendente per l’intensità emotiva che riesce a raggiungere. Il lavoro sui personaggi in fase di sceneggiatura e sui giovani interpreti in fase di messinscena è eccellente e mai di maniera. Le scelte musicali, più che un sostegno alla narrazione, e il rigore stilistico riescono a creare un rapporto sincero e forte con lo spettatore, chiamato a partecipare a questo viaggio come a una fetta dell’animo umano scomoda, controversa, ma con la quale prima o poi bisogna fare conti.
...guardate questo film solo se non siete particolarmente sensibili sulle tematiche sessuali, perchè è un pugno nello stomaco. Assolutamente nulla di osceno. Ma vi assicuro che rimarrete li, fermi a pensare, mentre i titoli di coda scorrono via. La sensazione di sconforto sarà assoluta e prevaricherà ogni altro pensiero...
Bhè... detto ciò posso dire che l'ottimo Gregg Araki, supera di molto il suo precdente miglior lavoro (The Doom Generation), e ci regala un'ora e mezza di dramma assoulto.

La trama e i dialoghi sono solidissimi e ben scritti, non lasciano trapelare nessuna lacuna e danno allo spettatore la sensazione che tutto sia naturale e vero... e per un dramma a tinte forti come questo non è poco. Non si ha mai il sentore che la storia esca fuori dalle righe e sfoci nel grottesco da un momento all'altro. Ricorederete la storia, ma non ricorderete batutte che ne disperdano la tensione. Di alto livello. La regia è molto buona, ferma e possiede spunti stilistici veramente notevoli. Non inventa niente, ma non distrae lo spettatore con inquadrtaure fuori posto o troppo articolate. Gli attori, anche se giovani (fatta eccezione per la Shue), sembra facciano questo da anni e anni... sono estremamente veri e trasmettono il senso di estraneazione dei personaggi in modo magistrale. Unico appunto per Michelle Trachtenberger, che forse a cusa delle molte apparizioni tv (Buffy) perde credibilità, rispetto agli altri. Insomma... se siete pronti ad un esperienza forte e che non vi lascerà come vi ha trovato, provate a guradare questo film. Non lo consgilio a tutti, non è il solito film drammatico... come detto in apertura alla fine avrete un groppo in gola e un mattone nello stomaco, chiedendovi come sia possibile che succeda tutto ciò. Ma proprio il fatto che si tratta di un film e non della realtà rende grande questa pallicola. Vi innamorerete dei personaggi e capirete cosa vuol dire la parola "empatia". Il finale è poetico a livelli mai visti.

 

"Un mondo perfetto", Clint Eastwood, Laura Dern, Paul Hewitt, Keith Szarabajka, T.J. Lowther, Bruce McGill e Kevin Costner. USA, 1993.
unmondo_perfettoTexas 1963. Un evaso (K. Costner) dal carcere comincia una lunga, impossibile fuga verso l'Alaska con un bambino preso in ostaggio. Gli dà la caccia un Texas Ranger anticonformista (C. Eastwood) affiancato da una psicologa (L. Dern). Film d'inseguimento senza suspense in cui i meccanismi dell'azione violenta lasciano il posto alla tenerezza. Contano i personaggi e la sconsolata analisi morale della società USA. Su una bella sceneggiatura di John Lee Hancock Eastwood conferma, dopo Gli spietati, di essere arrivato al culmine della sua maturità registica. Troppo classico nel suo rigore etico per poter aspirare alla futile gloria dei premi Oscar e ai primi posti nella classifica degli incassi.
Trama dettagliata: Dallas, Texas. 1963. È la notte di Halloween. Alla vigilia della visita del Presidente Kennedy, due malviventi evadono dal carcere e, preso in ostaggio un bambino, fuggono verso l'Alaska braccati da uno sceriffo senza scrupoli. Durante la fuga Butch è costretto ad uccidere il compagno, violento e stupido, per evitare che il manigoldo si approfitti del bambino, di nome Phillip. Testimone di Geova, il piccolo stabilisce  con Butch un rapporto di complicità e fiducia. Dopo giornate trascorse tra furtarelli e piccole rapine, la coppia si trova ospite di una famiglia di colore, dove scoppia la tragedia: il padre maltratta la bambina. L'episodio richiama nella mente di Butch strane memorie passate: ucciderebbe l'uomo se il bambino non lo ferisse prima. Ma l'avventura è giunta al capolinea. Quando Butch sta per arrendersi allo sceriffo, un cecchino lo colpisce a morte: gli rimane solo il tempo per vedere il bimbo in lacrime, portato via su un elicottero. E lo sceriffo-Eastwood denuncia ancora una volta la sarcastica impossibilità di credere nella giustizia.
La pellicola, girata tra gli Stati del Texas, Alabama e South Carolina, s'impernia sull'utilizzo dei flashback, definiti magistrali dai critici. L'interpretazione fatta da Costner, di un Butch trasandato con tanto di pancia, è risultata essere tra le sue performance migliori dopo Balla coi lupi. E pensare che la parte era destinata a Denzel Washington, così come l'ottima sceneggiatura di John Lee Hancock, a Steven Spielberg. Tra le curiosità del film, c'è un simpatico particolare: quando Butch e Phillip escono da un grande magazzino, il regista inquadra la locandina di Bull Durham del 1988, interpretato dallo stesso Kevin Costner.

 

 

"K-PAX", Iain Softley, Kevin Spacey, Jeff Bridges, Mary McCormack, Alfre Woodard. USA 2001. www.k-pax.com, Sito ufficiale:  www.k-pax.it

kpaxLo psichiatra Mark Powell comincia ad occuparsi di un paziente dell'ospedale in cui lavora che afferma di chiamarsi Prot e di venire da K-Pax, un pianeta distante anni luce dalla Terra. Secondo il racconto di Prot, su K-Pax non ci sono legami familiari e tutti vivono in pace e in comunione tra loro. Prot riesce a vedere i raggi ultravioletti e dimostra di avere conoscenze scientifiche superiori agli stessi scienziati chiamati ad esaminarlo. La presenza di Prot nell'ospedale, inoltre, porta un nuovo entusiasmo negli altri pazienti: i suoi racconti su come si vive nel suo pacifico pianeta risvegliano la speranza di poter vivere in un mondo diverso. Prot dice che farà ritorno a K-Pax il 27 luglio, e promette che porterà con sé uno dei pazienti. Nel frattempo il dott. Powell cerca di capire chi, in realtà, sia Prot. A tale scopo lo fa regredire tramite ipnosi. In questo modo il dottore scopre che Prot si chiama Robert Porter, un macellaio che ha uccisok_pax_3 uno squilibrato dopo che questi aveva violentato al moglie e poi ucciso lei e la figlia. L'episodio delittuoso è avvenuto il 27 luglio di cinque anni prima. Così il 27 luglio Prot ritorna ad essere Robert Porter, un paziente che vive in uno stato catatonico. Quel giorno sparisce però, misteriosamente, una degente dell'ospedale. Intanto Powell si prende cura di Robert e grazie ai consigli da lui avuti riesce ad instaurare nuovamente un rapporto col figlio, con il quale aveva interrotto da tempo ogni dialogo.

 

"L'età barbarica - L'Âge des ténèbres", Denys Arcand, con  Marc Labreche, Diane Kruger, Sylvie Léonard, Caroline Neron, Rufus Wainwright, Macha Grenon, Emma De Caunes, Didier Lucien, Canada 2007.
let_barbaricaJean Marc è un impiegato ministeriale del Quebec impegnato presso l'Ufficio dei reclami. Sua moglie è un'agente immobiliare in costante ascesa professionale. Le sue due figlie vivono in un mondo fatto di video e di ipod e non comunicano con lui. Non gli resta allora che sognare. Sognare di avere solo per sè una donna bellisima e pronta ad offrirglisi quando lo desidera, oppure di essere un noto scrittore o intellettuale sempre in grado di trovare una fans che straveda per lui. L'equilibrio tra sogni e realtà sembra in qualche modo far funzionare la vita di Jean Marc rendendola malinconica ma accettabile. Finchè un giorno, dopo che la moglie si è trasferita a Toronto per inseguire il top del successo, incontra a uno speed date una donna che il sogno lo ha fatto divenire realtà: vuole credere di essere una dama medioevale e, insieme a un consistente gruppo di altre persone, partecipa a incontri e tornei in costume.
Denys Arcand non sbaglia un colpo nella sua analisi della società canadese che finisce poi con l'estendersi a quella dell'Occidente in genere. Dopo Le invasioni barbariche anche con questa commedia, inizialmente spassosa ma destinata a virare nell'amarezza della presa di coscienza, riesce a porre lo spettatore dinanzi alla profonda solitudine che pervade le coscienze di uomini e donne del mondo contemporaneo. Se inizialmente sembrerebbe quasi suggerire che l'evasione possa essere la vera soluzione, ben presto lo spettatore si accorge di quanto il regista miri a un altro obiettivo. Lo fa grazie a un derisorio non rispetto per il politically correct (ci sono almeno due scene imperdibili in materia) e a un'acuta messa in scena delle dinamiche che presiedono alle relazioni interpersonali sia all'interno della famiglia che nel mondo del lavoro. Non manca anche qualche strale per i vicini americani anche se, a differenza di Michael Moore, Arcand che ci vive non pensa che il Canada sia il Paradiso.
 

 

"Le invasioni barbariche - Les Invasions Barbares", Denys Arcand, Remy Girard, Stéphane Rousseau, Dorothee Berryman, Louise Portal, Dominique Michel Canada/Francia 2002.

le_invasioni_barbaricheCosì come le invasioni barbariche segnarono inevitabilmente il declino dell'impero romano, allo stesso modo i "barbari" di oggi travestiti da uomini d'affari in doppio petto, consacrati ai soldi e alla tecnologia - che conducono una vita frenetica e omologata - stanno minando quella civiltà occidentale che, secondo il regista, è cominciata con Dante e Montaigne. Seguito ideale de "Il declino dell'impero americano", film di denuncia del 1986 contro un "regime" (quello americano appunto) che si è imposto come dominatore assoluto del mondo intero, questa opera di Arcand racconta di Remy, un professore colto e impegnato, e dei suoi ultimi tragici giorni. Egli ha vissuto un'esistenza sregolata, da libertino, ha amato tutti i piaceri della vita, dell'arte e della cultura, ha inseguito ideali che spesso lo hanno deluso ma che non ha mai abbandonato. Sulla soglia della cinquantina scopre di avere una malattia terminale, ma si scopre anche solo, abbandonato da amici e figli. La ex-moglie Louise, che nonostante i tradimenti gli è sempre rimasta vicino, convince il figlio Sébastien, con un carattere ed una vita diametralmente opposti a quelli di Remy a tornare a Montreal per sostenere suo padre. Il ragazzo, affermato agente finanziario, scuote tutto il sistema ospedaliero per agevolare gli ultimi giorni di Remy, e riesce persino a riunire intorno al letto del padre un'allegra brigata di amici del professore, composta da funzionari, docenti, alunni, tossicomani e studenti, nonché di ex amanti.
Sferzante, cinico, diretto, il film mostra uno spaccato di vita comune a molte persone. Nonostante il tema portante sia quello di una grave malattia, non scade mai nella banalità. Racconta la vita così come è, ricca di dolori e allegrie, di passioni e rinunce. Tocca le corde della commozione ma non si dimentica che anche nei momenti più cupi basta una frase detta in un certo modo per farci sorridere. Tratta argomenti "scottanti" come quello della droga da usare per fini terapeutici, quello dell'eutanasia, quello della corruzione e della mala sanità. Temi che sembrano prettamente italiani, ma che a ben vedere sono sopranazionali. Malgrado la tristezza che sempre accompagna la fine di una esistenza, il film è un canto di lode alla vita stessa, e soprattutto un inno alla giovinezza: è un cantico nei confronti di un periodo ricco di speranze, sogni, illusioni. Non è facile congedarsi da chi si è amato, non è facile accettare di andarsene e non poter più tornare, non è facile pensare che tutto continuerà anche senza di noi, eppure nonostante il rimpianto per non avere cercato mai il senso profondo delle cose, il professore si congeda da tutti consapevole dei propri errori ma non rinnegando la propria natura. La sceneggiatura, giustamente premiata al Festival di Cannes si avvale di dialoghi sapientemente costruiti, colti, ricchi di citazioni e richiami letterari (che spaziano da Platone, Seneca e Dante fino a opere contemporanee come "Se questo è un uomo" e "Arcipelago Gulag"). Non mancano neppure i rimandi cinematografici, primo fra tutti, quello all'opera di Augusto Genina "Cielo sulla palude", in cui un'eterea Ines Orsini interpreta Santa Maria Goretti. Per chi ha voglia di sorridere senza dimenticare di riflettere.

 

"Little Miss Sunshine", di Jonathan Dayton e Valerie Faris, con Greg Kinnear, Toni Collette, Steve Carell, Paul Dano, Alan Arkin, Abigail Breslin, Mary Lynn Rajskub, USA 2006.

little_miss_sunshineSheryl, moglie e madre per vocazione, alle prese con il secondo matrimonio, fatica a reggere le fila di un nucleo familiare assemblato a suon di copia-incolla: Richard, marito/padre alla ricerca ossessiva di un improbabile successo editoriale, Dwayne e Olive, rispettivamente adolescente ribelle e mini-reginetta di bellezza di provincia, il nonno, cacciato dalla casa di cura perché cocainomane, e, ultimo in ordine di arrivo, lo zio Frank, fratello di Sheryl reduce da un tentato suicidio. Una sgangherata famiglia, quella degli Hoover, che si ritroverà in viaggio su un cadente pulmino verso il concorso di bellezza per bambine più famoso della California, Little Miss Sunshine, per cui la piccola Olive è stata selezionata.
Il viaggio, a dir poco movimentato, ridefinirà i rapporti, e darà occasione a ciascuno, in modo inatteso e imprevedibile, di riconciliarsi con se stesso prima che con gli altri. Due registi esordienti, un cast di tutto rispetto, una sceneggiatura brillante sostenuta da un concept temerario. Ci troviamo dinnanzi a qualcosa di raro: un'opera fresca, capace di intrattenere e al contempo canalizzare emozioni in modo naturale. L'estrazione videoclippara dei neo-directors rischia l'invadenza, ma, se i tempi comici appaiono in principio tarati su tempistiche quasi pubblicitarie, il tiro viene prontamente raddrizzato, per un minutaggio che scorre fluido, scandito dal ritmo a tratti incalzante di passaggi e battute memorabili. Rigorosamente on-the-road (con il pensiero che inevitabilmente va al recente Sideways), si celebra a tutto tondo l'eccentricità del paradosso umano, a passo spedito attraverso le potenziali paludi della tragicommedia, battendo sentieri prossimi alla black comedy fino ai lastricati viottoli del grottesco suggerito. La sensazione, esaurita la trance cinematografica, già di per se indicativa della qualità della pellicola, è quella di un'opera realizzata da qualcuno che aveva realmente voglia di farlo. Tutto ciò non è poco. Anzi, è tanto.

Little Miss Sunshine è un po’ l’emblema della commedia americana indipendente che trionfa al Sundance Festival. Un po’ minimalista, a partire dal cast – se così si può dire – offre un divertimento dolce-amaro, creando un universo proprio e vivace a cui si finisce in fretta per affezionarsi.

Storia corale on the road, realizza con tocco leggero una satira tagliente dell’America tritacarne di oggi, tanto assurda nella sua quotidianità spacciata per normale che si può finire facilmente per diventare diversi ed alieni, disadattati e un po’ sofferenti, solo con fatica restando se stessi. La pellicola segue affettuosa i suoi personaggi che in quell’America sono costretti a vivere, ognuno aggrappato ad un sogno che è un pretesto, una ragion d’esserci, un segno implicito di distinzione rispetto ad un contorno sociale che non piace e fa paura. Little Miss Sunshine mostra quanto è difficile essere adolescenti, quanto è difficile tenere insieme una famiglia, quanto è difficile affermarsi nel mondo del lavoro sostenendo un’idea propria, quanto è difficile convivere con i rimpianti della vecchiaia, quanto è difficile essere diversi, in tutti i sensi possibili. La famiglia allargata protagonista della storia non reagisce alle avversità con irreale armonia, ma con verosimili contraccolpi nei rapporti fra i singoli, salvo poi dimostrarsi alla prova dei fatti più unita di quanto sembrasse, soprattutto unita come gruppo di “non assimilati” che in fondo si amano e sanno sostenersi.

Giocando molto sul grottesco il film regala autentiche risate, lievi commozioni mai telefonate o furbe, spunti di riflessione. E di fronte alla richiesta stringente e terrificante di successo della società occidentale contemporanea suggerisce una soluzione altra: il successo è riuscire a restare se stessi, sopravvivere con tenacia e poter contare su qualcuno.

Come dimostra in fondo l’adorabile piccola Olive, in minoranza e strana in mezzo ai mostri-bambina imbellettati, contagiata dal bisogno di perseguire un sogno (sia pure tanto lontano dalla sua natura, quale è un concorso di bellezza, perché di questo agghiacciante obiettivo ella dà una lettura personale ed inedita), sfiorata da dubbi ed insicurezze come è inevitabile per chiunque, ma alla fine liberata e rivitalizzata dalla propria spontanea e dilagante espressione di sé, che finisce per trascinare e compattare tutta la famiglia.

 

"In the Mood for Love", di Wong Kar-wai, con Tony Leung, Maggie Cheung, Rebecca Pan, Lai Chen, Gong Li, Hong Kong 2000.
in_the_mood_for_loveHong Kong 1962. L'impiegata Su Li-zhen e il giornalista Cho Mo-wan, entrambi di Shangai e sposati con coniugi spesso e volentieri assenti per lavoro, s'incontrano nella casa dove abitano porta a porta, stringono un'amicizia amorosa, rafforzata dal comune sospetto di una relazione tra i rispettivi coniugi. Si amano, ma, dice lei, “non dobbiamo essere come loro”. Claustrofobica e di raffinata eleganza, sensuale e casta, ricca di particolari e di ripetizioni, ritmata da un brano musicale di Michael Galasso che, con le canzoni in spagnolo di Nat King Cole (“Ojos verdes”, “Quizas, quizas”) si ripete con leggere variazioni, è una storia segreta d'amore, vissuta all'interno e in silenzio, raccontata in modi sapientemente ellittici, all'insegna del ricordo, di un passato “sfocato e indistinto”. Si chiude nel 1966, 4 anni dopo il distacco, quando, nell'unica scena in veri esterni, visitando le rovine del tempio di Angkor Wat in Cambogia, l'uomo sussurra il suo segreto nella fessura di un muro. E lo preserva per sempre. “Wong Kar-wai ha tirato fuori l'anima del mélo, l'ha spremuta, riducendola all'essenza... e l'ha messa in scena con un pudore, un rispetto, una tensione rari.” (E. Martini). Più che un'interpretazione, quella di T. Leung, premiato a Cannes, e della meravigliosa M. Cheung con gli squisiti cheongsam che indossa, è una presenza. Memorabile.
Il cinema di Hong Kong ci ha abituato a visioni di combattimenti, spade, raffiche di mitra, evoluzioni acrobatiche di ogni genere. Wong Kar Wai fa invece parte da sempre del versante intimista di questo cinema. Di lui abbiamo già apprezzato “Angeli perduti” ed “Happy together”, con cui vinse a Cannes il premio per la regia nel 1997, ma questa volta raggiunge livelli davvero più alti di poesia.  Un uomo e una donna si incontrano. Diventano amanti, si inseguono. Si mancano e si sfiorano costantemente. Non si toccano. O meglio, noi non li tocchiamo.
Così come nel primo episodio di Al di là delle Nuvole di Michelangelo Antonioni, Wong Kar Wai mette in scena l'impossibilità di descrivere efficacemente una sensualità tanto intensa e privata. Ma se in Antonioni il tentativo era proprio di far esplodere questa tragedia della mancanza di calore dei / tra personaggi, il regista hongkongese vuole, al contrario, narrare l'amore, difficile e tortuoso, ma sempre l'amore, e non la sua mancanza. Ma Lizhen e Chow non si toccano quasi mai; quasi mai li vediamo in una situazione privata che ne sottolinei efficacemente l'intimità; sono sempre In The Mood For Love, dell'umore giusto per l'amore, ma mai in love, innamorati.inthemoodforlove
La scelta programmatica e complessa è quella di narrare il sentimento attraverso le pause della passione, dell'intimità, come nella scena in cui Lizhen e Chow attendono a lungo che l'appartamento con camere in affitto dove vivono si liberi per fare l'amore. Ma l'amore, per i due protagonisti come allo spettatore, non arriva. Non arriva nei modi convenzionali della rappresentazione, e non arriva nella lingua della danza che utilizza Wong Kar Wai. Perché è con una danza che il regista tenta di comunicare con lo spettatore. Non una danza qualunque, ma quella di un oggetto, in se poco sensuale e molto freddo: la macchina da presa. Una danza attorno a (e non con) due grandi attori. Le fortissime scelte narrative del regista devono, in potenza, essere espresse da un modo di ritmare il mondo dei due amanti, cioè dal modo di riprendere e organizzare lo spazio intorno a queste due figure umane e insieme fredde. Wong Kar Wai dimostra di aver assorbito, eguagliato e superato con spaventosa abilità la lezione cinematografica di uno dei suoi maestri, Jean-Luc Godard, quando frammenta una fuga per le scale in miriadi di inquadrature, quasi tentasse di mettere in scena un action dei sentimenti, quando si sofferma con passione sui dettagli per caricarli di senso ed emozione. Quest'attenzione estrema al proprio stile, questa precisissima conduzione del mezzo espressivo, porta però fuori strada un altro, fondamentale soggetto cinematografico: il film stesso.
La narcisistica precisione e passione di Wong Kar Wai, il suo innamoramento per l'atto di girare (il regista ha dichiarato di aver dilatato così a lungo la produzione del film anche perché non voleva abbandonarne il racconto) più che per la storia che sta raccontando, producono un accumulo di tensione linguistica tanto affascinante quanto, alla fine, privo di emozione. La parola più banale per descrivere In The Mood For Love è "manieristico". La sensazione più profonda che lascia il film è l'assoluto distacco della lingua dal racconto. Una parlata così spettacolare e carica da andare oltre la passione, oltre il calore, e in fine contro l'emozione. Contro la sensualità.
in_the_mood_for_love1Le parole, i gesti, gli sguardi dei due protagonisti si trovano sempre nella sfera del “non detto” e soprattutto del “non avvenuto”, anche se il regista indugia a mostrarci sempre i loro incontri, le loro conversazioni, i loro occhi... Il vero fascino del film è nella cura estrema dei costumi, delle scenografie, nell’uso del ralenti, dei primi piani e nell’inserimento di una colonna sonora perfetta per il film. La musica e le immagini ossessivamente riproposte non disturbano mai lo spettatore, fanno parte della sensazione di ineluttabilità e predestinazione che fa da sfondo a tutta la storia; gli abiti sensualissimi di lei, le tende rosse che oscillano pigramente nei corridoi dell’albergo, le tappezzerie, gli ambienti saturi di vapore e rumore, tutto contribuisce a creare una sensazione struggente di nostalgia, di rimpianto per quello che poteva avvenire ma non ha mai avuto alcuna possibilità di realizzarsi, di poesia, che coinvolge lo spettatore, e lo lascia allo stesso tempo commosso e amareggiato. 

 

"L'estate di Kikujiro (Kikujiro no natsu)", Takeshi Kitano, "Beat" Takeshi, Yusuke Sekiguchi, Kayoko Kishimoto, Kazuko Yoshiyuki, Yuko Daike, "Beat" Kiyoshi, "Great" Gidayu, Rakkio Ide, Nezumi Mamura, Fumie Hosokawa, Akaji Maro, Daigaku Sekine, Makoto Inamiya, Hisaiko Murasawa, Fuyu Ooba, Yoji Tanaka, Giappone, 1999.
 
"- Questo non lo posso credere, - disse Alice.
- No? - disse la Regina in tono di compatimento - Provatici. Fa un respiro lungo, e poi chiudi gli occhi.
Alice si mise a ridere.
- È inutile che mi ci provi, - ella disse - non si può credere alle cose impossibili.
- Forse non hai la pratica necessaria, - disse la Regina. - Quando io avevo la tua età, m’esercitavo per mezz’ora al giorno. Ebbene, a volte credevo nientemeno che a sei cose impossibili prima della colazione..." 
                                      Lewis Carroll - “Attraverso lo specchio”, 1871.

 

lestate_di_kikuroSentimentalismi deamicisiani in versione sushi. Incontro tra un bambino abbandonato dalla madre e un yakuza, un mafioso giapponese, dal cuore d'oro. Hana-bi era un film notevole.

Un bambino alla ricerca della madre e un cinquantenne che lo accompagna kikujiro.

È estate e Masao si sta annoiando. Il bambino abita a Tokyo con sua nonna che lavora tutto il giorno. I suoi amici sono partiti per le vacanze e il campo da pallone dove gioca con i suoi amici è deserto. Grazie ad un'amica di sua nonna, Masao incontra Kikujiro, un cinquantenne duro con il quale va alla ricerca della madre che non conosce e che vive vicino al mare. Kikujiro ha qualche difetto e sicuramente non è la persona adatta per accompagnare Masao nel viaggio, ma non può dirgli di no.
Con un occhio a "Il monello" di Chaplin, rivisto attraverso la tradizione moderna di road movie con bambini, Kitano coniuga il suo straordinario senso cromatico con il suo gusto per la comicità demenziale (i due trucidi "Hell's Angels", che finiscono per rivelarsi imbranati e giocherelloni, interpretati da due degli attori del gruppo "Takeshi Gundan", con il quale Kitano lavora nei suoi spettacoli televisivi) e con quella malinconia della violenza e della perdita dell'anima giapponese che sempre serpeggia nei suoi film. La favola, che in fondo non è buona, ma rattristata dall'immagine di una madre che si è rifatta una vita "regolare", concilia, almeno, sulla possibilità di solidarietà tra personaggi che, all'apparenza, non dovrebbero aver niente a che spartire. Formalmente accecante, è capace di meraviglie visive con le suggestioni e i lampi generati dall'inconscio infantile e da quello, bizzarro, di un adulto che vive oltre la soglia dell'eccentricità.
Takeshi Kitano è la più fulgida star che il Giappone ha regalato al mondo occidentale da... facciamo 20 anni? Facciamo 50? Anzi: diciamo che, esclusa la Sony Playstation, è l’unica vera star che il Giappone ha regalato all’Occidente da quando ha deciso di uscire dall’embargo volontario che l’aveva segregato dal resto del mondo. Per intenderci: codesta segregazione era iniziata nel 1639 e la si considera chiusa con l’arrivo di navi statunitensi nella baia di Edo nel 1854! Comunque noi “gente del Caucaso” scoprimmo il talento di Kitano solo quando vinse il Leone d’Oro al Festival di Venezia del 1997. Il fatto che “Hana-Bi” raccontasse la storia di un poliziotto nei guai con la Yakuza ha portato molti a considerarlo come il “Tarantino d’Oriente”, senza neanche accorgersi che questo tizio era lo stesso che la Gialappa's Band chiamava “Generale Putzerstoven” nelle puntate di “Mai dire Banzai”. A sentire una mia amica che ha avuto modo di vedere tutti i suoi film, Kitano è sempre stato un regista molto strano, paragonabile più a David Linch o David Cronenberg che a Tarantino, solo che all’epoca Tarantino era molto di moda. “Hana-Bi” è stato un momento molto importante nella carriera di Kitano, non solo per il successo ed il premio a Venezia, ma perché ha rappresentato una svolta nel suo cinema, una virata verso il sentimentale, non necessariamente melenso. “Kikujiro” percorre la stessa strada.
Trama dettagliata: un bambino di 9 anni che vive con la nonna non sa come passare l’estate, dopo che tutti i suoi amici sono partiti per le vacanze, decide allora di partire per andare a trovare sua mamma, che non ha mai conosciuto perché si è trasferita in un’altra città per lavoro. Nel viaggio viene accompagnato da un cinquantenne mezzo scemo che non è esattamente colui che vorreste come marito di vostra figlia, ma viaggiando ed incontrando altre strane persone la coppia imparerà che le fate esistono veramente ed i miracoli possono accadere anche in questo squallido mondo moderno.
Le avventure della “strana coppia” sono quanto di più incredibile possiate trovare nella cinematografia non hollywoodiana, il che non è una cosa che può far piacere a chiunque, ma proprio qui sta la ragione della citazione iniziale: come dice la Regina di Cuori bisogna imparare (re-imparare) a credere alle cose impossibili. Se ci riuscirete allora potrete gustarvi appieno un film divertente ma anche molto profondo, per nulla violento anche se non del tutto educativo. Se invece non sarete capaci di far funzionare la vostra “sospensione dell’incredulità” vi ritroverete davanti ad una serie di lunghi momenti di silenzio che metteranno a dura prova la vostra pazienza. Provateci, comunque, perché questo è un gran capolavoro.
  

 

"Ragazze Interrotteragazzeinterrotte", Mangold James, (tratto dal libro di Susanna Kaysen) con Winona Ryder, Angelina Jolie e Whoopi Goldberg, USA, 1999.

Susanna (Ryder) arriva al Claymoore Hospital, una clinica psichiatrica che ospita le cosiddette ragazze interrotte, sofferenti cioè di patologie che hanno deviato la loro personalità. Tutte cercano di ritrovare un'identità. Chi ha il problema del sesso, chi degli affetti eccetera. Susanna, che sembrerebbe la meno compromessa, avrà comunque da imparare.

Il film è tratto dal diario di Susanna Kaisen: la storia inizia nel 1967 quando una ragazza (Winona Ryder), dopo aver tentato il suicidio, entra in una clinica psichiatrica dove rimarrà per 18 mesi.

America, 1967. Susanna Kaysen, diciassette anni, è, come tante sue coetanee, confusa e insicura. I genitori, con i quali non ha un bel rapporto, la fanno visitare da uno psichiatra che diagnostica in lei 'disturbi marginali della personalità' e ne consiglia il ricovero presso il Claymore Hospital. Entrata controvoglia, Susanna conosce altre ragazze della sua età: Lisa, affascinante sociopatica; Daisy, ricca e viziata, appassionata di polli allo spiedo e di lassativi; Polly, con il viso sfigurato dalle ustioni; Georgina e Janet. Con tutte queste Susanna fa amicizia e impara a convivere con i loro diversi atteggiamenti. Nel chiuso dell'ospedale, il gruppo cerca di stare unito. Ma i problemi nascono quando si parla del mondo 'fuori'. Organizzano una fuga, e poi Polly, per punizione, passa la notte nella stanza di isolamento. Lisa viene convocata nello studio della dott.ssa Wick, primario di psichiatria, e non la si vede più uscire. Valerie, un infermiera di colore molto attenta, ascolta gli sfoghi di Susanna. Lisa e Susanna scappano, vanno da Daisy, che era rientrata a casa. La mattina dopo, Daisy, che era stata costretta a rapporti col padre, si impicca. Mentre Lisa fugge, Susanna torna in ospedale. Quella notte Susanna piange, arriva Valery e le due si abbracciano forte. Torna Lisa, scopre il diario di Susanna, lo legge ad alta voce. Allora Susanna trova il coraggio per rinfacciarle la sua nevrosi negativa. Ora Susanna può uscire, la vita fuori l'aspetta. Ma il ricordo di quelle ragazze non la lascerà più.
«(...) Cercavo di chiarire la situazione a me stessa: stavo male e nessuno lo sapeva; persino io stentavo a rendermene conto. Così mi ripetevo di continuo: stai male... (...)».
Susanna Kaysen, si comporta come tutte le sue coetanee: confusa, insicura e impegnata a dare un senso al mondo in continua evoluzione che ha intorno. Ma lo psichiatra che la visita per ordine dei genitori, dà a questo comportamento un nome preciso: disturbi della personalità che si manifestano attraverso l'incertezza riguardante la propria immagine, gli obiettivi a lunga scadenza (non ha progetti per il futuro), le amicizie e gli amori da avere (promiscuità). Dopo questa diagnosi, decide di non preoccuparsene più mandando Susanna al Claymoore Hospital. Qui conosce la bionda Lisa, un'affascinante sociopatica, Daisy, una ragazza con la passione per i polli allo spiedo e per i lassativi, Polly, una ragazza con il viso ustionato ma con il cuore incredibilmente privo di cicatrici e Janet, una ragazza anoressica. Alla fine Susanna dovrà decidere fra il mondo di coloro che vivono all'interno dell'istituto e quello al di fuori di esso, sotto la guida di un'infermiera comprensiva come Valerie, Nei suoi due anni trascorsi al Claymoore, Susanna analizza i confini tra l'essere libero e l'essere rinchiuso, tra amicizia e tradimento, tra follia e sanità mentale. Non sapeva cosa le accadeva.. sapeva solo di essere Borderline...

Oltre il Bordeline...  c'è altro...
Il Borderline è il più comune tra i disturbi di personalità. Viaggio approfondito negli altri disturbi.

L'animo umano è complesso e ricco di sfumature.
Su questo non avevamo dubbi ma.. quando queste sfumature si aggrovigliano e formano un qualcosa di indefinito che ci confonde e ci ostacola la vita? Forse c'è uno dei tanti disturbi di personalità ad impedirci di avere relazioni sociali e una vita stabile.

La società moderna che c'impone stili di vita frenetici, modelli irraggiungibili e pone la perfezione mentale come status symbol per un'ottima vita sociale è spesso causa di questi problemi che affliggono un numero sempre maggiore di persone, in maggioranza ragazze in una fascia d'età compresa tra i 16 ed i 35 anni.
I disturbi sono vari e numerosi ma generalmente sono accomunati da sintomi facilmente riconoscibili.

Umore costantemente depresso, allontanamento dalla vita di gruppo, calo di rendimento scolastico, scarsa concentrazione, perdita di autostima, stato d'angoscia, difficoltà di relazione con gli altri sono sintomi clinicamente riconducibili ad una "banale situazione di stress" e possono celare uno dei tanti disturbi di personalità. Schonfeld, in un suo studio, parla di disturbi dell'immagine corporea, che possono determinare l'insorgenza di disturbi del comportamento: diverse ricerche mostrano che l'immagine corporea ha un'influenza positiva o negativa sul concetto di sé, degli altri e sulla propria autostima.

Borderline. Parola tanto diffusa, conosciuta. Ha un suono freddo quasi volesse richiamare qualcosa di tecnologico ma invece è una malattia che nasce da dentro.. dal cuore, dall'anima, dall'inconscio.
Essere affetti da un disturbo di personalità non significa "essere da manicomio" come invece si tende erroneamente a pensare, significa avere delle questioni interiori irrisolte che sfociano in patologie analoghe.
Questo disturbo colpisce circa il 3% della popolazione con una percentuale femminile pari al 75%. Esso viene considerato un disturbo di "relazione" poiché esso è implicato nella costruzione di rapporti affettivi con il mondo esterno a sè. Sono molte e varie le caratteristiche del Borderline tra cui la promiscuità sessuale ossia la tendenza ad avere numerosi partner in un breve lasso di tempo. Chi soffre di borderline ha un disperato bisogno di mettere alla prova il suo corpo e tende a seguire comportamenti trasgressivi e fondamentalmente vietati.
Si ha l'impulso a seguire comportamenti atti a provocare danni verso sè stessi e danni verso terze persone come il giudicare gli altri in base alla PROPRIA autostima, guidare in maniera spericolata.
La rabbia è generalmente inappropriata alle situazioni, intensa e talvolta il paziente non riesce a controllarla.
Il borderliner fa spesso abuso di droghe, di alcool, ha un comportamento alimentare sbagliato (spesso caratterizzato da abbuffate) ed ha tratti autolesionistici come il graffiare la propria pelle o tagliarsi. Ma cosa succede DENTRO la persona borderline?
Si è alla costante ricerca della propria identità e poiché si è incapaci di trovarla o di accettarla, la si cerca nelle persone componenti il nucleo circostante.
E' difficile inoltre accettare i propri insuccessi e le proprie colpe in quanto si ha la tendenza ad attribuire a terze persone la causa dei fallimenti.
Soffrendo di questo disturbo si vive la sensazione di essere costantemente manipolati dagli altri e di dipendere dal loro controllo (e ci ricolleghiamo all'attribuzione delle personali colpe a terze persone).

COSA FARE?
Innanzitutto: avere pazienza.
Quando si hanno questi problemi è difficile accettare il problema davanti agli altri poiché viene vista come una debolezza mentre nel proprio Lo si vive in una sorta di bozzolo dove si è protetti dai pericoli.
Rivolgersi ad uno psichiatra in modo da poter affiancare una terapia farmacologia con una terapia psicologica.
Se il soggetto fa uso di stupefacenti è consigliato anche contattare una comunità di recupero breve per poi poter continuare all'esterno.

 

 

"Quattro minuti", Chris Kraus, Germania 2006.

quattro_minutiL'ottantenne Traude Krüger si reca ogni giorno presso il carcere femminile di Lickau dove insegna a suonare il pianoforte a un numero sempre più esiguo di allieve. Il corso rischia di essere chiuso ma la donna, grazie anche alla solidarietà di un guardiano, riesce a convincere il direttore. Un giorno però sarà la stessa guardia carceraria, massacrata di botte da una detenuta, Jenny, a cambiare idea. Jenny è infatti in carcere accusata di omicidio. Ha uno straordinario talento per il piano ma è preda di crisi di violenza che la gettano nello sconforto. Traude, inizialmente diffidente nei suoi confronti, deciderà di insistere riuscendo, nonostante i vincoli burocratici e non posti dal personale del carcere, a portarla fino alle soglie di un Concorso per giovani pianisti. C'è però un altro ostacolo che pare insuperabile: Jenny ama svisceratamente l'hip hop col quale riesce ad esprimere sulla tastiera la sua creatività e la sua rabbia. Traude invece lo detesta.

I film sul rapporto insegnante-allievo/a in cui l'uno cerca di spingere l'altro a esprimere il suo talento grazie al rigore rischiano sempre di fare la stessa fine: conflitti, incomprensioni, progressi e poi il trionfo che fa contenti tutti. Non è così in 4 minuti dove la dinamica narrativa è molto più complessa e affronta direttamente non solo il tema dell'arte e di chi ne è dotato ma anche quelli, altrettanto importanti, dell'influsso di un passato il cui peso è difficile da portare e della rieducazione in ambito carcerario.

Traude e Jenny non sono due personaggi da "romanzo di formazione" trasposto sullo schermo. Sono due esseri reali (la sceneggiatura ha vinto nel 2004 un importante premio in Germania) fatti di nervi, di rigidità, di scarsi abbandoni e di improvvisa (per Jenny) quanto incontrollabile violenza. Sono due donne ferite nel profondo che cercano (l'una chiudendosi in un rigore quasi ottocentesco e l'altra cercando la regola della nessuna regola) una via d'uscita. Che passa anche attraverso il rifiuto dell'altro come persona. Come se fosse possibile insegnare e apprendere senza mettersi in relazione al di là della 'tecnica'. Le due protagoniste saranno costrette reciprocamente a scoprirsi ad accettare pregi e difetti dell'altra (anche quelli che sembrano non emendabili). Solo così potranno dare un senso a una 'rieducazione' che dovrebbe essere lo scopo di ogni carcerazione e che invece molto (troppo) spesso non lo è. A dare corpo e nervi a Traude e Jenny Monica Bleitbtreu e Hannah Herzsprung. Attrice notissima in patria la prima e figlia d'arte la seconda costituiscono un'ulteriore prova del fatto che il cinema europeo esiste ed è in buona salute.

 

 

 

"INTO THE WILD", SEAN PENN, con E. HIRSCHT, WILLIAM HURT, M. GAY HARDEN, USA 2007.
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La natura era qualcosa di selvaggio e terribile benché bellissimo. Guardavo con soggezione la terra che calpestavo per vedere cosa avessero compiuto le Forze - la forma, il modo, il mateirale della loro opera. Questa era la Terra di cui sentiamo parlare, creata dal caos nella notte dei tempi. Qui non c'erano giardini ma il globo incontaminato. Niente prati né pascoli né coltivazioni né boschi né terre arabili né incolte né desolate. Era la superficie fresca e naturale del pianeta Terra, com'era stata creata per i secoli dei secoli - come dimora dell'uomo, diciamo noi -, così la Natura l'ha fatta e che l'uomo la usi se può. Henry David Thoreau, Ktaadn
                                                        

 

IL 1990 è un anno pieno di avvenimenti. A Mosca apre il primo McDonald's mentre l'URSS si sgretola, la liberazione di Nelson Mandela segna la nascita del nuovo Sudafrica. Si vota liberamente nella Germania Est dopo oltre mezzo secolo, l'Irak invade il Kuwait e Bush padre prepara la guerra. Microsoft lancia Windows 3.0 mentre escono film come Pretty Woman e Balla coi lupi. Ma Chris McCandless, ventiduenne benestante, tranne che appassionarsi alla fine dell'apartheid, è indifferente a quello che succede nel mondo.
Appena laureato alla Emory University di Atlanta, festeggia malvolentieri con i genitori rifiutando ogni regalo. Dona i suoi risparmi (24.292 dollari) all'organizzazione no-profit Oxfam, getta via la carta d'identità e, senza salutare nessuno, zaino in spalla condentro pochi indumenti e molti libri, parte per un viaggio di due anni che lo porterà nella splendida natura dell’Alaska. Viaggio che si concluderà tragicamente. L’avventura di Chris McCandless è la storia vera raccontata dal film Into the Wild.into_the_wild Nelle terre selvagge diretto da Sean Penn, che esce il 25 gennaio su tutti gli schermi italiani distribuito dalla BIM. La pellicola, applauditissima alla Festa del Cinema di Roma 2007, è tratta dal libro-inchiesta, best seller in America, Nelle terre estreme, scritto a metà degli anni Novanta da Jon Krakauer e ripubblicato ora in Italia da Corbaccio (la prima edizione era di Rizzoli). Apparentemente, quello di Chris, è un viaggio come tanti. Chi non si concede una vacanza lunga dopo la laurea? 
In realtà il ragazzo, che tiene saltuariamente un diario e manda lettere e cartoline alla sua amatissima sorella Carine, partendo dà l'addio alla società dei consumi: «finalmente senza piscine, sigarette, televisione, credenze false e telefono», scrive. Attraversa in autostop e su vagoni merci il South Dakota, l'Oregon, la California; su un kayak scende il fiume Colorado; lavorando nei fast-food lungo la strada guadagna qualche dollaro per sopravvivere; rientra illegalmente negli Stati Uniti dal Messico. Facendosi chiamare Alex Supertramp (Alex Supercamminatore), esprime il suo desiderio di essere un uomo nuovo, senza regole e legami. L’i ncontro con tante persone lo arricchisce spiritualmete, ma il suo obiettivo, la meta finale, è più lontano. A tutti Chris dice: "Ho un solo progetto, l’Alaska, dove voglio vivere nella natura selvaggia cibandomi di quello che riusciròbig_into_the_wild_1 a prendere con i miei mezzi".
Perché proprio l'Alaska? Qual è il fascino di questo Stato dell’U nione largo più del Texas e della California messi insieme, abitato solo da 600.000 persone e venduto dai russi agli americani per soli 7.2 milioni di dollari nel 1867? "Perché da molto tempo, dopo quello che ha rappresentato la California fino agli anni '30 del ‘ 900, è veramente l’Ultima Frontiera americana; la più a ovest del nostro Paese, che arriva a toccare l'Asia, che è ancora in molte aree selvaggia e intoccata dall’uomo", risponde Damon Tabor, giornalista di Outside Magazine, il mensile di viaggi avventurosi sul quale uscì a puntate nel 1993 l’inchiesta di Jon Krakauer che ricostruiva minuziosamente, quasi maniacalmente, le tappe del viaggio di Chris McCandless, da Atlanta fino ai confini del Denali National Park nel centro dell'Alaska, dove il ragazzo sopravvisse per 112 giorni e dove morì, molto probabilmente di inedia.
Il quarantanovesimo Stato dell'Unione, negli Usa e in Canada viene promosso turisticamente con lo slogan "Alaska - Oltre i tuoi sogni. A portata di mano", accompagnato sui poster pubblicitari da foto di ghiacciai, trekkers in calzoncini, salmoni dalle dimensioni eccezionali, animali selvatici, vulcani, Parchi Naturali e dall'immagine imponente del Monte McKinley, uno dei più alti d’A merica. Alla fine dell’800 in Alaska (e nella parte confinante del Canada) arrivarono a piedi, a cavallo e su slitte, migliaia di avventurieri, come raccontano i libri di Jack London, Pierre Berton e Jules Verne (e il film di Chaplin La febbre dell’oro, del 1925), attratti dal sogno di diventare ricchi con l’oro che si stava scoprendo nell’area del fiume Klondike e Yukon.   

Viaggio "on the road" verso l'Alaska. "Into the wild", è il mito americano dell'incontro tra uomo e natura selvaggia.
CI sono storie dove i personaggi restano uguali a se stessi dall'inizio alla fine; altre, nel corso delle quali evolvono e, insieme, evolve l'opinione che ci facciamo di loro. Ricade nel secondo caso Into the wild, il "film di formazione" diretto da Sean Penn che ci emozionbus_magicoa. A partire da una vicenda autentica, trascritta nelle pagine del libro "Nelle terre estreme" di Jon Krakauer, Penn si confronta direttamente col mito originario americano: l'incontro tra l'uomo e la natura selvaggia.
Crea, a sua volta, un mito contemporaneo nel protagonista, giovane uomo dalla personalità al confine tra eroismo e fragilità, nevrosi e ricerca della purezza; un "picaro" dell'anima nipote elettivo dei cavalieri erranti della Beat Generation. Fa di più: osa realizzare un film sul valore della solitudine in un tempo che avverte la solitudine come il massimo pericolo, tanto da esorcizzarla di continuo con i telefonini, o con la "rete".
All'inizio degli anni 90, il neolaureato Christopher McCandless dà quel che ha in beneficenza e parte per un lungo viaggio, autentica performance dell'anima per la quale assume un nome d'arte: Alexander Supertramp, il Supervagabondo. Oltreché dalle pulsioni di libertà e anarchismo, è spinto a partire dal rifiuto della famiglia d'origine: cellula di giudizio e controllo sociale, di odio latente, di perfetta infelicità; tanto più spaventosa perché accettata come norma e condizione naturale.
Tra Nuovo Messico, Arizona, Sud Dakota, su su fino alle nevose solitudini dell'Alaska, l'itinerario marca una serie d'incontri con l'altro, occasioni di conoscenza e comprensione anche reciproca. Alex s'accompagna a una coppia di hippies, la cui vita non è tutta rose e fiori; lavora in un'azienda agricola, diventando amico di un tale ricercato dalla polizia; flirta con una giovanissima cantante folk; incontra un vecchio eremita, che vuole adottarlo. Già di per sé, intraprendere una tale pista equivale a confrontarsi con la mitologia fondativa della cultura americana, dai pionieri che affrontarono per primi le terre incognite a Thoreau, da London a Kerouac.
Tappa dopo tappa, però, il viaggiatore s'immerge sempre più nella solitudine, fino a sfidare le stesse possibilità di sopravvivenza: la wilderness è libertà e verità, ma rappresenta anche il rischio e lbig_into_the_wild_3a minaccia ultima. In una scena ai limiti del sublime Alex, ormai stremato dalle privazioni, si trova di fronte un gigantesco orso bruno: forse affamato quanto lui, eppure non minaccioso. Qui Penn dà forma definitiva al mito dell'incontro tra due creature libere nel Paradiso Perduto, nostalgia lacerante di un'intera cultura tuttora in lutto per la perdita dell'innocenza e che, promotrice della "civiltà", ad essa annette un irredimibile senso di peccato.
Sereno e dolente, stoico e consapevole insieme, refrattario al "nostalgismo" come al manierismo, lo sguardo della macchina da presa annette di diritto Penn - accanto a Clint Eastwood, Paul Haggis e pochi altri - alla pattuglia transgenerazionale di cineasti capaci di raccogliere la grande eredità del cinema classico americano. Appropriate le canzoni di Eddie Vedder dei Pearl Jam. 

Ecco in alcune frasi di una lettera inviata nell'aprile del 1992 ad un amico, la filosofia di Chris su cui molti americani sono stati costretti a riflettere:
Chris McCandless interpretato da Emile Hirsch nel film di Sean Penn tratto dal libro
... C'è tanta gente infelice che tuttavia non prende l'iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose chebig_into_the_wild_5 sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l'animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l'avventura. La gioia di vivere deriva dall'incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell'avere un orizzonte in costante cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso...
... Non dobbiamo che trovare il coraggio di rivoltarci contro lo stile di vita abituale e buttarci in un'esistenza non convenzionale....
I legami familiari e le convenzioni sociali possono diventare una vera schiavitù da cui fuggire ad ogni costo?
E poi, la solitudine assoluta può dare la felicità? il libro è denso di citazioni, di poesie e di documenti così da apparire qualcosa di più di una biografia.
Inoltre la vicenda di McCandless, un giovane benestante che aveva davanti a sé una promettente carriera e che abbandona tutto per raggiungere la purezza assoluta, diventa così emblema dell’impossibilità di dare risposte a domande tanto complesse.
Scegliendo sempre la via più difficile, rinunciando a tutte le comodità o agli aiuti che la civiltà moderna offre Chris ha voluto mantenere integra, incorrotta la sua scelta: una purezza estrema, ma anche un individualismo esasperato che gli sono costati la vita.
Ecco il testo di una cartolina datata 27 aprile 1992, e indirizzata a Westerberg:
Queste saranno le mie ultime righe, Wayne. Sono arrivato due giorni fa ed è stato molto difficile trovare passaggi nello Yukon, ma alla fine ce l'intothewild7ho fatta lo stesso.
Per favore, restituisci tutta la posta che ricevi. Potrebbe passare molto tempo prima che io ritorni al Sud. Se quest'aventura avrà un esito fatale e non dovessi più ricevere mie notizie sappi che per me sei un grand'uomo. Ora entro nella natura.
Lo stesso giorno McCandless mandò una cartolina anche a Jan Burres e a Bob:
Ciao ragazzi!
Questa è l'ultima comunicazione che riceverete da me. Sto per addentrarmi nella natura selvaggia. Riguardatevi, è stato bello conoscervi.
Questo fu l'ultimo  contatto con il mondo esterno che Chris ebbe e che indica la piena consapevolezza delle difficoltà della sua impresa.
Già prima di lui, negli anni Settanta altri giovani si erano addentrati nelle desolate vastità dell'Alaska senza farvi più ritorno e lo stesso autore incontrò l'eccentrica figura di Gene Rosellini, rampollo di una famiglia ricca e famosa, che la gente del luogo chiamava "il sindaco di Hippie Cove", che stava provando l'esperimento antropologico di vivere svincolato da ogni forma di benessere. Ma dopo dieci anni giunse a questa conclusione: "Ho imparato che non è possibile per gli esseri umani così come noi li conosciamo vivere nella natura e della natura".
Nel 1991 però Rosellini fu ritrovato morto, con un coltello piantato nel petto, si suppone da lui stesso.
L'ultima immagine di Chris McCandless accanto all'autobus in cui sarebbe morto
Vengono poi presentati altri giovani che, tentando l'impossibile spinti da una forte idealità,  finirono col soccombere.
Poi Krakauer, per capire e farci capire ancor meglio la psicologia di Chris, incontra e si sofferma sulla figura di  Walter McCandless, il padre, riportando i ricordi e le mozioni vivissime che ha del figlio. Ma sono le parole di Corine, la sorella amatissima, quelle che riescono meglio a ridare vita all'adolescenza intothewild6e al percorso interiore di Chris.
Scrivere questa biografia, conoscere a fondo il protaognista, addentrarsi nella sua anima e nelle sue motivazioni cambiò non solo molti lettori, ma lo stesso Krakauer che volle, lui stesso sperimentare, scalate impervie, percorsi imbattuti, lo sgomento della solitudine. Il successo del libro denuncia comunque il bisogno di sentimenti assoluti che gli uomini dei nostri tempi nascondono dietro la ricerca di ogni tipo di comodità e di omologazione sociale.
Sean Penn con poesia e fervore politico, nel senso più nobile del termine, ne ha tirato fuori un racconto per immagini indimenticabile. Eddie Vedder, con la colonna sonora, ha semplicemente firmato uno dei capolavori della sua carriera discografica. Ognuno di loro ha riscritto questa storia (volete sapere la fine? Leggete, guardate, ascoltate: è un viaggio che va fatto fino in fondo, senza scorciatoie) con il proprio talento, con la propria sensibilità, facendola diventare una parabola esistenziale di valore assoluto. Perché, come ha detto lo stesso Sean Penn, "i giovani non dovrebbero, forse, seguire l'esempio di Chris, ma imparare a far viaggiare i propri cuori veloci come il suo". 

La frase: ...non che per questo ami meno gli uomini, ma amo prima di tutto la Natura. (Lord Byron)

 

"Il bacio che aspettavo IN THE LAND OF WOMEN", Jon Kasdan, con Adam Brody, Meg Ryan, Kristen Stewart, Olympia Dukakis, Eric Acsell, Clark Gregg, Bret Harrison, USA 2006.

il_bacio_che_aspettavo_bigCarter Webb (Adam Brody) è un giovane aspirante scrittore che, in attesa di scrivere la sua sceneggiatura da Oscar, sbarca il lunario scrivendo dialoghi per film pornografici. Sul lato personale le cose non vanno meglio: la sua fidanzata, una giovane attrice lanciatissima ad Hollywood, decide di lasciarlo da un giorno all’altro, facendolo sprofondare nello sconforto più assoluto. Carter decide quindi di allontanarsi da Los Angeles per andare nel Michigan con il pretesto di doversi occupare della nonna fuori di testa, perennemente convinta di stare per morire, che lo accoglie in maniera un pò scorbutica e lo mette in guardia sulle “donne che vivono dall’altro lato della strada”. Carter conosce così le vicine di casa, Sarah (Meg Ryan) una donna affascinante che la vita sta mettendo a dura prova, sua figlia Paige (Makenzie Vega) una bambina undicenne precoce e straordinariamente sveglia e Lucy (Kristen Stewart), la bellissima figlia maggiore di Sarah, adolescente tormentata, alle prese con i primi amori che con la madre vive un conflitto generazionale apparentemente insanabile. E attraverso la relazione con queste donne e con sua nonna, Carter inizia a scoprire che quella che pensava fosse la fine di tutto è in realtà solo l’inizio della sua avventura nell’ universo femminile...

Il dolore e il senso di perdita verranno alleviati dalla conoscenza di Sarah. Trascinato in un universo al femminile, Carter si troverà costretto ad analizzare i suoi sentimenti per Sophia e a fare un percorso di crescita sentimentale.
I personaggi creati dalla penna (e dalla regia) dell'esordiente Jon Kasdan sono sospesi in una leggera bolla di sapone pronta a rompersi al primo colpo di vento. Dietro le loro facciate si nascondono sogni e desideri inespressi, rivalità, delusioni, fragilità e paure.
Le donne del film rappresentano tre diverse generazioni che Carter osserva con lo sguardo attento di aspirante scrittore, pronto a cogliere le varie sfumature dei loro complessi caratteri (la nonna continua a ripetere che sta morendo nonostante l'ottima salute, Sarah è divisa tra il sentimento per le figlie e la necessità di ritrovare un'identità come donna, Lucy vive l'età dei primi amori ed è in contrasto con la madre). Allo stesso tempo il personaggio maschile diventa il perno sul quale si sollevano, come su un'altalena, le sorti delle protagoniste femminili. Il suo ruolo è di ascoltatore e insieme narratore: ilbaciocheaspettavo301offre una spalla sulla quale poggiarsi e trovare conforto (e labbra per baci attesi a lungo), ma contemporaneamente è attraverso il suo obiettivo - distaccato e insieme partecipe - che la trama fa il suo corso.
Adam Brody indossa gli abiti di Carter con estrema delicatezza e con la stessa delicatezza entra nelle vite di Olympia Dukakis (la nonna), Meg Ryan (Sarah) e Kristen Stewart (Lucy). Da parte sua Meg Ryan regala al suo personaggio una parvenza algida e occhi fieri pieni di sogni mai realizzati che riflettono la sua anima implosa. La bolla di sapone avvolgerà le vite dei protagonisti fino alla fine, quando ognuno andrà incontro al proprio destino.
Il ritratto femminile realizzato da Kasdan è nitido e verosimile. Colpisce come sia riuscito a essere trasparente e a trovare una forma narrativa dove il melodramma è temperato da personaggi secondari peculiari e divertenti, come la piccola Paige (Makenzie Vega), la figlia minore di Sarah, così saggia ed emancipata per la sua età infantile. A metà tra La mia vita a Garden State e Il calamaro e la balena - per via dell'atmosfera sospesa e del percorso di crescita - Il bacio che aspettavo è una piccola gemma di cinema indipendente sceneggiato e diretto alla perfezione.

L'esordio dietro la macchina di Jon Kasdan, figlio del quattro volte candidato all'Oscar Lawrence, coincide con il ritorno sul grande schermo dopo quattro anni, dell'ex fidanzatina d'America Meg Ryan (l'ultimo suo lavoro fu il flop "Against the ropes") e con il primo film da protagonista sul grande schermo per Adam Brody, già celebre per l'acclamato serial televisivo "The O.C. Orange County".
Proprio quest'ultimo, è colui che si ritrova "In the land of woman" (trad :"Nella terra delle donne"), alle prese cioè con quattro diverse personalità del mondo femminile, differenziate prima di tutto dall'età. E' una storia sulle relazioni quella di " Il bacio che aspettavo" e così è la parola, più che l'azione, a farla da padrona. I personaggi vengono messi di fronte a due a due in modo che da ogni dialogo esca fuori, o maturi, un diverso aspetto del proprio carattere. Ognuno di loro è arrivato ad un punto importante del proprio percorso di vita: la svolta è imposta dal normale scorrere del tempo. C'è chi è bambino fuori e grande dentro (Paige), chi sta nel mezzo dell'adolescenza (Lucy), chi ormai deve capire che cosa vuole fare della propria vita (Carter), chi ormai è costretto a tempi di bilanci e ha bisogno di nuova forza ed entusiasmo per andare avanti (Sarah) e chi quel poco di tempo che ha lo passa già affacciato sul "dopo" invece di godersi il presente(la nonna). inthelandofwomen_01A metà tra commedia e dramma, impreziosito da alcuni ottimi dialoghi che anche estratti dal contesto, risulterebbero validi e comprensibili, "Il bacio che aspettavo" risulta così un film delicato, quasi incatalogabile secondo schemi tradizionali. Jon Kasdan, anche autore della sceneggiatura, riesce a portare avanti l'insieme senza mai cadere nel melodrammatico, ma dando credibilità e fluidità a parole e personaggi. Un bel lavoro, che quasi a voler prendere ad esempio quanto successo con il bel "Litigi d'amore", ha l'unico limite nelle modalità con cui è promosso al pubblico. Titolo italiano e locandina internazionale, lascerebbero pensare ad una storia d'amore adolescenziale (o quasi) a tutto tondo, quando invece ben diversa è cornice e contenuto. Dopotutto però, meglio così che il contrario.

 

 

"Reign over me", Binder Mike, con Adam Sandler, Cicely Tyson, Don Cheadle, Jada Pinkett Smith, Liv Tyler, Mike Binder, Saffron Burrows. USA 2007 (DVD).

reignovermeIl film prende il titolo da una canzone degli Who: Love, Reign O'er Me (Amore, regna su di me). Una delle tante hit anni '70 che Charlie Fineman ascolta in cuffia a tutto volume mentre, solitario, vaga per le strade di New York sul suo curioso monopattino a motore. Charlie ha perso moglie e figlie nella tragedia dell'11 settembre: erano a bordo di uno degli aerei che si schiantarono contro le Torri Gemelle. Da allora si è chiuso completamente in se stesso, rifugiandosi nella sua sterminata collezione di dischi in vinile, refrattario al mondo, deciso a difendere il suo diritto a non ricordare. Diagnosi: disordine da stress post traumatico. L'incontro casuale con Alan Johnson, affermato dentista a Manhattan e suo vecchio compagno d'università, lo costringerà ad affrontare i suoi demoni interiori, avviandolo lentamente verso una possibile guarigione. 

 

"Piano, solo", Riccardo Milani, con Kim Rossi Stuart, Italia 2007.

piano_soloLa vita di Luca Flores, geniale pianista jazz morto suicida poco prima di compiere quarant'anni.

Rimasto profondamente turbato dalla morte accidentale della madre, il piccolo Luca Flores trova una scappatoia dalla realtà suonando il pianoforte. Dopo il diploma al conservatorio viene introdotto al jazz di Bud Powell e nel giro di qualche anno si fa notare dai maggiori musicisti italiani e da Chet Baker, che lo chiama ad accompagnarlo nel tour europeo.

Piano, solo racconta la storia di un artista tormentato, la sua vita privata, l'ascesa al successo fino al drammatico suicidio. La storia è piena di "musicisti dall'inferno", artisti così sensibili da perdere qualsiasi contatto con la realtà - agevolati o condannati da una latente patologia psichica - al punto da venire risucchiati dalla musica stessa. Luca Flores è uno dei talenti nascosti del jazz italiano, un pianista vissuto tra il 1956 e il 1995 che durante la sua carriera ha suonato con veri e propri mostri sacri della musica colta, da Massimo Urbani a Chet Baker, ma che sognava di esibirsi in una casetta-giocattolo lontano dagli sguardi del pubblico. A sottrarlo all'oblio, prima ancora di Riccardo Milani, fu Walter Veltroni che nel suo libro "Il disco del mondo" ne narrava la breve vita ricca di trionfi ma di altrettanti dolori. Se il titolo del libro faceva riferimento a un disco amato dal musicista - "Il clavicembalo ben temperato" di Bach - quello del film trova nel preludio di Sergei Rachmaninoff una doppia chiave di lettura, musicale e umana. Fedele alla ricostruzione letteraria, Piano, solo ne mette in scena i punti salienti: gli anni spensierati in Africa, la morte della madre che graverà come una tacita colpa fino alla fine dei suoi giorni, l'affermazione come pianista, i primi concerti, il favore dei colleghi, l'amore per Cinzia, i primi segnali di squilibrio. L'installazione drammatica volta a cogliere il lato più oscuro del musicista non offre neanche uno scorcio di leggerezza all'uomo, che persino dinanzi all'amore sembra titubante, distante. Trascendentale di fronte alle scale infinite che ripete al piano con devozione ossessionata - quasi a voler creare un contatto con quella madre che pensa di aver tradito, di aver ucciso - Luca Flores rivive sullo schermo attraverso la postura e lo sguardo di Kim Rossi Stuart.

Forse sarebbe stato più struggente vedere negli abiti di Flores un attore che riuscisse a misurare il lato serio al faceto rendendo il personaggio più umano. Considerata la necessità da parte di sceneggiatori e regista di raccontare l'uomo prima ancora dell'artista (esperimento cinematografico pienamente riuscito al Rembrandt di Martin Freeman), si poteva deviare dall'impianto narrativo tradizionale lasciandosi guidare dall'improvvisazione. Tuttavia fa onore a Riccardo Milani aver riportato alla luce uno dei più formidabili talenti custoditi nella storia del jazz italiano e aver trovato dei protagonisti - notevolmente sobri - che ne potessero preservare la memoria. Tra tutti spicca la Baba di Paola Cortellesi, l'adorata sorella che fu la prima ad avvertire la caduta agli inferi della mente e dello spirito di Luca Flores.

 

 

"Iris, un amore vero", (basato sul libro di John Bayley "Elegy for Iris"), Richard Eyre, Judi Dench (Iris Murdoch), Kate Winslet (Iris Murdoch giovane), Jim Broadbent (John Bayley), Hugh Bonneville (John Bayley), Penelope Wilton (Janes Stone), Juliet Aubrey (Janet Stone da giovane), Timothy West (Maurice), Samuel West (Maurice da giovane), Angela Morant (Hostess), Derek Hutchinson (Postino), Gran Bretagna 2002.

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Il film è basato sui libri "Elegia per Iris"  e "Gli amici di Iris" scritti dal compagno della filosofa-scrittice Iris Murdoch, nata a Dublino nel 1919 e morta a Oxford nel 1999 a causa del morbo di Alzheimer. Ha scritto più di venti libri, poesie e piece teatrali. Durante la guerra collaborò prima con il Minestero del Tesoro e poi con l'agenzia delle Nazioni Unite. E' stata insegnante di filosofia per quindici anni alla St.Anne's College dell'Università di Oxford. Nel 1956 sposò John Bayley, critico e docente di letteratura nella stessa università. Il suo primo lavoro filosofico, Sartre, Romantic Rationalist, uscì nel 1954, mentre il suo primo romanzo, Under the Net, un anno più tardi. La sua ultima opera filosofica è "Existentialist and Mystics" ('98) e di narrativa "Jackson's Dilemma" ('95). Vinse il Whitbread Prize nel '74 e il Booker Price nel '78.

Un film grazioso e raffinato, diretto con eleganza da Richard Eyre e interpretato da un quartetto d'attori assolutament eccellente. Iris è un film basato sulle emozioni, sui gesti, sulla memoria, una storia d'amore d'altri tempi sicuramente anti-convenzionale e che in certi momenti tocca le corde della tenerezza e della commozione. Emozionante ma non ricattatorio, Iris è un film realistico, toccante e delicato nel raccontare la bellissima storia d'amore. E per un film così incentrato sulle emozioni e i sentimenti, era assolutamente necessario un cast di prima classe, che Eyre ha trovato in quattro attori tutti lodati dalla critica e che regalano  interpretazioni sentite e memorabili: Judi Dench è meravigliosamente brava, drammatica ma mai patetica, e Jim Broadbent è impressonante per la sua perfetta personificazione in John bayley. Non sono da meno i due giovani attori co-protagonisti, con una Kate Winslet che regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre e un Hugh Bonnevile trasparente nelle sue emozioni e decisamente perfetto per il ruolo. Se il film forse non è senza difetti, gli attori sono tutti meritevoli di un grande applauso.

TRAMA BREVE

Il film narra la vita della celebre scrittrice e filosofa Iris Murdoch. E' anche la storia dell'amore, tutt'altro che sentimentale, tra lei e il marito John Bayley, studioso di letteratura inglese. Per lungo tempo è lei a dettare le regole del loro rapporto e a tenere il marito costantemente sulla corda. Poi, nell'età matura quando Iris è colpita dal morbo di Alzheimer e comincia a dimenticare le parole, proprio lei che ha vissuto per esse, diventa docile e dipendente dal marito che riscopre per lei il linguaggio infantile per continuare a comunicare con lei.

TRAMA LUNGA

Ormai in età avanzata, la scrittrice inglese Iris Murdoch tiene una conferenza su "L'importanza della cultura". Un salto indietro, ed ecco Iris giovane, negli anni Quaranta, ormai in procinto di affermarsi nel campo accademico e letterario. Iris conosce John, timido e impacciato, i due si frequentano, benché lei non riesca a sottrarre al proprio spirito libero e vitalistico la tendenza a frequentare anche altri uomini e ad avere rapporti con loro. John lo sa, lo vede, ma i sentimenti reciproci proseguono, e il loro legame diventa matrimonio e vita vissuta insieme. Un giorno, nell'età della vecchiaia, Iris comincia a dimenticare le cose, a ripetere le frasi, a non avere più la percezione dei luoghi. Toccata dall'Alzheimer, non ricorda di aver scritto romanzi, e scappa sulla spiaggia non lontano dalla casa. La vita nel loro grande appartamento diventa difficile. John non tiene in ordine, ma è paziente e affettuoso con lei e, quando scompare, la cerca con grande affanno. Iris viene ricondotta a casa e lui quella notte le dice 'ti odio'. Di ritorno dai funerali dell'amica Janet, Iris si agita e fa andare la macchina fuoristrada. Allora la decisione del ricovero non può più essere rinviata. Liberatosi un posto in clinica, John l'accompagna. Solo pochi giorni, poi Iris muore. John si lascia andare al dolore e al pianto.


CHI ERA IRIS MURDOCH?

Iris è una donna nel pieno della sua giovinezza con grandi capacità e un continuo flusso di pensieri creativi che la rendono una delle scrittrici più importanti del suo tempo. E' sfrontata, senza peli sulla lingua, sincera e provocatoria, sessualmente libera e mentalmente aperta, piena di entusiasmo e gioia di vivere. E' sensuale senza essere bella, affascinante nel suo modo di porsi agli altri, intelligente e profonda, sicura di sé ma restia a lasciare entrare qualcuno nella sua vita in modo coinvolgente e assoluto. L'amore con John Bayley la fa crescere e le fa provare forti emozioni, costruendo con lui un rapporto non sempre equilibrato ma che in diversi momenti della loro vita si rivelerà vitale. Colpita dal morbo di Alzheimer, è proprio Iris a definire nel modo migliore la drammatica realtà che vive, lei scrittrice che perde l'uso della parola: "Se non potrò più scrivere, mi sentirò come un animale in gabbia." Dopo anni di continue evasioni nel suo piccolo mondo escluso agli altri, Iris dovrà purtroppo intraprendere un doloroso viaggio nelle tenebre. Il suo ultimo viaggio.
Kate Winslet è eccezionalmente misurata ed emozionante, e dona ad Iris tutta la sua luminosità e ricchezza riuscendo alla perfezione nel delicato ritratto a lei dedicato. Questa è sicuramente una delle sue migliori interpretazioni, grazie ad una perfetta immedesimazione nel ruolo: la capacità di fare sua la gestualità di un'altra persona, di vivere letteralmente nel suo corpo rimanendo allo stesso tempo straordinariamente autentica e unica, è impressionante. Trasmettere un'incredibile varietà di emozioni con la sola potenza di uno sguardo anche fugace, un alzata di sopraciglio, un movimento delle mani, un gesto come fumare una sigaretta, è un privilegio che pochi attori hanno e che Kate Winslet qui dimostra di possedere con grande padronanza e bravura, confermando il suo immenso spessore d'attrice. L'eccellenza con cui si fa interprete di personaggi incredibilmente diversi tra loro dipinti con una stupefacente varietà di sfumature, gesti, espressioni, la rendono un'attrice sempre versatile, camaleontica e straordinariamente emozionante.
Vincitore in totale di 10 Premi, incluso l'Academy Award, il Bafta Award, il Golden Globe e l'Esfa Award. 
Candidato a 3 Premi Oscar (Miglior Attrice, Miglior Attore Non Protagonista, Miglior Attrice non Protagonista) e a 6 Bafta, incluso Miglior Film Inglese.
interpretazioni sentite e memorabili: Judi Dench è meravigliosamente brava, drammatica ma mai patetica, e Jim Broadbent è impressonante per la sua perfetta personificazione in John bayley. Non sono da meno i due giovani attori co-protagonisti, con una Kate Winslet che regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre e un Hugh Bonnevile trasparente nelle sue emozioni e decisamente perfetto per il ruolo. Se il film forse non è senza difetti, gli attori sono tutti meritevoli di un grande applauso.

 


 

 

 

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